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III.
Una sera egli doveva trovarsi con lei alle venti precise, ma mezz’ora prima, il Balli mandò ad avvisarlo che lo attendeva al Chiozza, giusto a quell’ora, per fargli delle comunicazioni importantissime. Egli s’era già schermitoFonte/commento: Pagina:Svevo - Senilità, 1927.djvu/295 da altri simili inviti che avevano soltanto lo scopo di strapparlo qualche volta ad Angiolina, ma quel giorno colse il pretesto di rimandare l’appuntamento per penetrare nella casa della fanciulla. Avrebbe studiata quella persona già tanto importante nella sua vita, nelle cose e nelle persone che l’attorniavano. Già cieco, egli conservava tuttavia il contegno delle persone che vedono bene.
La casa d’Angiolina era situata a pochi metri fuori della via Fabio Severo. Grande e alta, in mezzo alla campagna, aveva tutto l’aspetto di una caserma. La portineria era chiusa ed Emilio, invero con un po’ d’esitazione non sapendo come sarebbe stato accolto, salì al secondo piano. — Non è certo l’aspetto della ricchezza, — mormorò per registrare i suoi rilievi a viva voce. La scala doveva essere stata fatta molto in fretta, le pietre mal squadrate, la ringhiera di ferro grezzo, i muri bianchi di calce, niente di sudicio ma tutto povero.
Venne ad aprirgli una ragazzina, decenne forse, con un ragnatelo di vestito goffo e lungo, bionda come Angiolina, ma gli occhi smorti, la faccia giallastra, anemica. Non parve per nulla sorpresa al vedere un volto nuovo; soltanto sollevò e fermò con la mano al petto i lembi del giacchettino privo di bottoni. — Buon giorno! Ella desidera? — Aveva una cortesia cerimoniosa fuori di posto nella personcina puerile.
— C’è la signorina Angiolina?
— Angiolina! — chiamò una donna che nel frattempo s’era avanzata dal fondo del corridoio. — Un signore domanda di te. — Quella probabilmente era la dolce madre cui Angiolina aveva anelato di ritornare allorchè era stata abbandonata dal Merighi. La vecchia vestiva da serva, in colori vivaci per quanto un po’ stinti, il grande grembiale turchino, e turchino il fazzoletto che portava in testa alla friulana. Del resto il volto conservava qualche traccia di bellezza passata; anzi il profilo ricordava quello d’Angiolina, ma la faccia ossuta e immobile con degli occhietti neri pieni d’inquietudine aveva qualche cosa della bestia attenta per sfuggire alle legnate. — Angiolina! — chiamò ancora una volta. — Viene subito — avvertì con grande cortesia. Poi, senza guardarlo mai in faccia, disse più volte: — S’accomodi intanto. — La sua voce nasale non sapeva essere gradevole. Ella esitava come un balbuziente al principio di un discorso; poi tutta la frase le usciva di bocca ininterrotta, un solo soffio privo di qualunque calore.
Ma, dall’altra parte del corridoio, correndo, venne Angiolina. Era già vestita per uscire. Vedendolo si mise a ridere, e lo salutò cordialmente: — Oh, il signor Brentani. Che bella sorpresa! — Presentò disinvolta: — Mia madre, mia sorella.
Era proprio quella la dolce madre cui però Emilio, lieto d’essere stato accolto così bene, porse la mano, mentre la vecchia, non essendosi attesa tanta degnazione, diede la propria con un po’ di ritardo; non aveva capito che cosa egli volesse e quegli occhi inquieti di volpe l’avevano fissato per un istante con un’immediata, evidente diffidenza. La ragazzina, dopo la madre, gli porse anch’essa la mano tenendo la sinistra sempre al petto. Ottenuto quell’onore disse con calma: — Grazie.
— S’accomodi qui — disse Angiolina; corse ad una porta in fondo al corridoio e la aperse. Beato, il Brentani si trovò solo con Angiolina; perchè la vecchia e la ragazzina, fatto un ultimo complimento, erano rimaste fuori della porta. E, chiusa quella porta, egli dimenticò tutti i suoi propositi d’osservatore. L’attirò a sè.
— No — pregò essa — qui accanto dorme mio padre ch’è indisposto.
— So baciare senza far rumore, — dichiarò lui e le premette lungamente le labbra sulla bocca mentre essa continuava a protestare; ne risultò così un bacio frazionato in mille, adagiato in un alito tiepido.
Stanca, ella si svincolò e corse ad aprire la porta. — Ora s’accomodi qui e sia saggio perchè dalla cucina ci vedono. — Sempre ancora rideva ed egli, poi, la rammentò spesso così lieta d’avergli giuocato quel tiro da bambina maliziosa che fa dispetti a chi la ama. Sulle tempie i capelli le erano stati arruffati dal suo braccio, ch’egli come sempre, aveva posto intorno alla bionda testa; con l’occhio egli accarezzò le tracce della propria carezza.
Appena più tardi vide la stanza in cui si trovavano. La tappezzeria non ne era troppo nuova, ma i mobili, date quelle scale, quel corridoio e i vestiti della madre e della sorella, sorprendentemente ricchi, tutti dello stesso legno, noce, il letto coperto di un drappo con larga frangia, in un canto un vaso enorme con alti fiori artificiali e di sopra, sulla parete, aggruppate con grande accuratezza, molte fotografie. Del lusso insomma.
Egli guardò le fotografie. Un vecchio che s’era fatto fotografare in posa di grand’uomo, appoggiato a un fascio di carte. Emilio sorrise. — Il mio santolo — presentò Angiolina. Un giovanotto vestito bene ma come un operaio in festa, una faccia energica, uno sguardo ardito. — Il santolo di mia sorella, — disse Angiolina, — e questo è il santolo del più giovine dei miei fratelli, — e fece vedere il ritratto di un altro giovanotto più mite e più fine dell’altro.
— Ce ne sono degli altri? — domandò Emilio, ma lo scherzo gli morì sulle labbra perchè tra le fotografie ne aveva scoperte due unite, di uomini ch’egli conosceva: Leardi e Sorniani! Il Sorniani, giallo anche in fotografia, lo sguardo torvo, pareva continuasse anche di là a dir male d’Angiolina. La fotografia del Leardi era la più bella: la macchina aveva fatto questa volta il proprio dovere riproducendo tutte le gradazioni del chiaroscuro, e il bel Leardi pareva ritratto a colori. Stava là, disinvolto, non appoggiato a tavoli, libere le mani inguantate, proprio in atto di presentarsi in un salotto ove forse lo attendeva una donna sola. Guardava Emilio con una cert’aria di protezione, naturale alla sua bella faccia d’adolescente, ed Emilio dovette torcere lo sguardo, pieno di rancore e d’invidia.
Angiolina non comprese subito perchè la fronte di Emilio si fosse tanto oscurata. Per la prima volta, brutalmente, egli tradì la sua gelosia: — Non mi piace mica di trovare tanti uomini in questa stanza da letto. — Poi, vedendo ch’ella si sentiva tanto innocente da essere stupefatta del rimprovero, addolcì la frase: — E quello che io ti diceva sere or sono; non è bello di vederti circondata da cotesti figuri e può danneggiarti. Già il fatto che li conosci è compromettente.
Improvvisamente ella ebbe dipinta sulla faccia una grande ilarità, e dichiarò ch’era ben lieta di vederlo geloso. — Geloso di questa gente! — disse poi rifacendosi seria e con aria di rimprovero, — ma quale stima hai dunque di me? — Ma quando egli stava già per chetarsi, ella commise un errore. — A te, vedi, darò non una ma due delle mie fotografie — e corse all’armadio a prenderle. Dunque tutti gli altri possedevano una fotografia di Angiolina; ella glielo aveva raccontato, però con un’ingenuità tale che egli non osò di fargliene un rimprovero. Ma venne ancora di peggio.
Costringendosi ad un sorriso, egli guardava le due fotografie ch’ella gli aveva consegnate con un inchino scherzoso. Una, in profilo, era fatta da uno dei migliori fotografi della città; l’altra era un’istantanea bellissima ma più per il vestito elegante, trinato, ch’ella aveva portato la prima volta in cui egli le aveva parlato, che per la faccia sfigurata dallo sforzo di tener aperti gli occhi ai raggi del sole. — Chi ha fatto questa poi? — domandò Emilio. — Il Leardi forse? — Egli ricordava d’aver visto il Leardi sulla via, con una macchina fotografica sotto il braccio.
— Ma no! — disse essa. — Geloso! Me l’ha fatta un uomo serio, sposato: il pittore Datti.
Sposato sì, ma serio? — Non geloso, — disse il Brentani, con voce profonda, — triste, molto triste. — Ed ora vide fra le fotografie anche quella del Datti, il grande barbone rosso, ritratto con predilezione da tutti i pittori della città e, vedendolo, Emilio ebbe un dolore acuto al ricordare una sua frase: "Le donne con cui ho a fare, non sono degne di costituire un torto a mia moglie" .
Egli non aveva più bisogno di cercare dei documenti; gli cascavano addosso, l’opprimevano, ed Angiolina, maldestra, faceva del suo meglio per illustrarli, metterli in rilievo. Umiliata e offesa, mormorò: — Merighi m’ha fatto conoscere tutta questa gente. — Ella mentiva perchè non era credibile che il Merighi, un commerciante laborioso, avesse conosciuto quei giovinastri e quegli artisti o, pur conoscendoli, fosse andato a sceglierli per presentarli alla sua sposa.
Egli la guardò a lungo con uno sguardo inquisitore come se fosse stata la prima volta che la vedesse ed ella comprese la serietà di quell’occhiata; un po’ pallida guardava in terra e attendeva. Ma subito il Brentani ricordò quanto poco egli avesse il diritto di essere geloso. — No! nè umiliarla nè farla soffrire mai! — Dolcemente, per dimostrarle ch’egli l’amava ancora sempre, — egli sentiva che le aveva già manifestato un sentimento molto differente, — volle baciarla.
Subito ella apparve rabbonita ma s’allontanò e lo scongiurò non la baciasse più. Egli si sorprese ch’ella rifiutasse un bacio tanto significante e finì coll’adirarsene più che per quanto era successo prima. — Ho già tanti peccati sulla coscienza — disse ella seria, seria, — che oggi mi sarà ben difficile di ottenere l’assoluzione. Per colpa tua mi presento al confessore con l’animo mal preparato.
In Emilio rinacque la speranza. Oh, la dolce cosa ch’era la religione. Di casa sua e dal cuore d’Amalia egli l’aveva scacciata, — era stata l’opera più importante della sua vita, — ma ritrovandola presso Angiolina, la salutò con gioia ineffabile. Accanto alla religione delle donne oneste, gli uomini sul muro gli parvero meno aggressivi e, andandosene, egli baciò con rispetto la mano ad Angiolina che accettò l’omaggio come un tributo alla sua virtù. Tutti i documenti raccolti erano inceneriti alla fiamma di un cero sacro.
Perciò, l’unica conseguenza della sua visita fu che egli aveva trovata la via a quella casa. Prese l’abitudine di portarle la mattina i dolci pel caffè. Era una gran bell’ora anche quella. Si stringeva al seno il magnifico corpo uscito allora dal letto, e ne sentiva il tepore, che passava il leggero vestito da mattina e gli dava il sentimento di un contatto immediato con la nudità. L’incanto della religione era presto svanito perchè quella di Angiolina non era tale da proteggere o difendere chi non fosse difeso altrimenti, ma pure ad Emilio i sospetti non vennero mai così fieri come la prima volta. In quella stanza egli non aveva il tempo di guardarsi d’intorno.
Angiolina tentò di simulare quella religione che le aveva giovato tanto una volta, ma non le riuscì e presto ne rise spudoratamente. Quando ne aveva assai dei suoi baci, lo respingeva dicendogli: Ite missa est, insudiciando un’idea mistica ch’Emilio serio, serio, aveva espressa più volte al momento di separarsi. Domandava un Deo gratias quando chiedeva un piccolo favore, gridava mea maxima culpa quando egli diventava troppo esigente, libera nos domine quando non voleva sentir parlare di qualche cosa.
Eppure egli aveva una soddisfazione completa dal possesso incompleto di quella donna, e tentò di procedere oltre solo per diffidenza, per timore di venir deriso da tutti quegli uomini che lo guardavano. Ella si difese energicamente: i suoi fratelli l’avrebbero ammazzata. Pianse una volta in cui egli fu più aggressivo. Non le voleva bene se voleva renderla infelice. Allora egli rinunziò a quelle aggressioni, racchetato, lieto. Ella non era appartenuta a nessuno ed egli poteva essere certo di non venir deriso.
Però ella gli promise formalmente che sarebbe stata sua quando si fosse potuta dare senza espor lui a fastidi nè se stessa a danni. Ne parlava come della cosa più naturale di questo mondo. Anzi ebbe una trovata: bisognava cercare un terzo su cui scaricare questo disturbo, questo danno e non poche beffe. Egli stava ad ascoltare estatico queste che non gli parevano altro che dichiarazioni d’amore. C’era poca speranza di trovare quel terzo come lo voleva Angiolina, ma dopo queste parole egli credeva di poter adagiarsi tranquillo nel proprio sentimento. Ella era in verità come egli l’aveva voluta, e gli dava l’amore senza legami, senza pericolo.
Certo, per il momento tutta la sua vita apparteneva a quell'amore; non sapeva pensare altro, non sapeva lavorare, neppure adempiere per bene ai suoi doveri d’ufficio. Ma tanto meglio. Per qualche tempo la sua vita assumeva tutta un aspetto nuovo, e in seguito sarebbe stato altrettanto divertente di ritornare alla calma di prima. Amante delle immagini, egli vedeva la propria vita quale una via diritta, uniforme, traverso una quieta valle; dal punto in cui egli aveva avvicinata Angiolina la strada si torceva, deviava per un paese vario d’alberi, di fiori, di colli. Era un piccolo tratto e si ridiscendeva poi a valle, alla facile via piana e sicura, resa meno tediosa dal ricordo di quell’intervallo incantevole, colorito, fors’anche faticoso.
Un giorno ella lo avvisò che doveva andare a lavorare presso una famiglia di conoscenti, certi Deluigi. La signora Deluigi era una buona donna; aveva una figlia ch’era amica d’Angiolina, un vecchio marito, e in casa non c’erano giovanotti; tutti volevano un gran bene ad Angiolina in quella casa. — Ci vado molto volentieri, perchè là passo le giornate meglio che non in casa mia. — Emilio non ebbe niente da ridirci, e si rassegnò anche a vederla, di sera, meno spesso. Ella ritornava tardi dal lavoro e non valeva più la pena di trovarsi.
Perciò egli ebbe ora delle sere che potè dedicare all’amico e alla sorella. Ancora sempre egli tentava d’ingannarli — come ingannava se stesso — sull’importanza della sua avventura, ed era persino capace di voler far credere al Balli d’essere lieto che Angiolina qualche sera fosse occupata per non averla, dopo tutto, vicina ogni giorno. Il Balli lo faceva arrossire guardandolo con occhio scrutatore, ed Emilio, non sapendo dove celare la sua passione, derideva Angiolina, riferiva certe osservazioni esatte che andava facendo su lei e che veramente non attenuavano affatto la sua tenerezza. Ne rideva con sufficiente disinvoltura, ma il Balli, che lo conosceva e che nelle sue parole sentiva un suono falso, lo lasciava ridere solo.
Ella toscaneggiava con affettazione e ne risultava un accento piuttosto inglese che toscano. — Prima o poi — diceva Emilio, — le leverò tale difetto che m’infastidisce. — Ella portava la testina eternamente inclinata sulla spalla destra. — Segno di vanità, secondo il Gall — osservava Emilio, e con la serietà di uno scienziato che fa degli esperimenti, aggiungeva: — Chissà che le osservazioni del Gall non sieno meno errate di quanto generalmente si creda? — Era golosa, amava di mangiare molto e bene; poveretto colui che se la sarebbe addossata! Qui poi mentiva sfacciatamente perchè egli amava altrettanto di vederla mangiare che di vederla ridere. Derideva tutte le debolezze ch’egli specialmente amava in lei. S’era molto commosso un giorno in cui Angiolina, parlando d’una donna molto brutta e molto ricca, era uscita nell’esclamazione: — Ricca? Allora non brutta. — Ci teneva tanto alla bellezza e l’abbassava dinanzi a quell’altra potenza. — Donna volgare — rideva ora col Balli.
Così, fra il suo modo di parlare col Balli e quello da lui usato con Angiolina, nel Brentani s’erano andati formando addirittura due individui che vivevano tranquilli l’uno accanto all’altro, e ch’egli non si curava di mettere d’accordo. In fondo egli non mentiva nè al Balli nè ad Angiolina. Non confessando il proprio amore a parole, si sentiva sicuro come lo struzzo che crede d’eludere il cacciatore non guardandolo. Quando invece si trovava con Angiolina, egli si abbandonava tutto al proprio sentimento. Perchè avrebbe dovuto diminuirne la forza e la gioia con una resistenza che non aveva alcuna ragione d’essere dove non c’era alcun pericolo? Egli amava, non solo desiderava! Sentiva muoversi nell’animo anche qualche cosa che somigliava a un affetto paterno, al vederla così inerme come per loro stessa natura certi disgraziati animali. La mancanza d’intelligenza era una debolezza di più, che chiedeva carezze e protezione.
S’incontrarono al Campo Marzio proprio allorchè ella, adirata di non averlo trovato al posto, stava per andarsene. Era la prima volta ch’egli l’avesse fatta attendere, ma con l’orologio alla mano egli le provò di non aver tardato. Raddolcita l’ira, ella confessò che quella sera aveva avuto una speciale premura di vederlo, per cui era stata dessa ad anticipare; aveva da raccontargli delle cose tanto strane che le accadevano. Si appese affettuosamente al suo braccio: — Ho pianto tanto ieri — e si asciugò le lagrime che nell’oscurità egli non potè vedere. Non volle dirgli niente finchè non fossero giunti sulla terrazza, e vi salirono a braccetto pel lungo viale oscuro. Egli non aveva alcuna premura d’arrivarci. La notizia che aveva da sentire non poteva essere cattiva visto che Angiolina ne veniva resa più affettuosa. Si fermò più volte per baciarla sulla veletta.
La fece sedere sul muricciolo, si appoggiò lievemente con un braccio sulle sue ginocchia e, per difenderla dalla pioggerella penetrante che continuava a cadere da parecchie ore, la coperse col proprio ombrello.
— Sono fidanzata — disse essa, nella voce un tentativo di nota sentimentale, rotta subito da una grande voglia di ridere.
— Fidanzata! — mormorò Emilio per un istante incredulo tanto che subito si rivolse a indagare la ragione per cui ella gli diceva quella bugia. La guardò in faccia e, ad onta dell’oscurità, vide nell’atteggiamento la sentimentalità che dalla voce era scomparsa. Doveva essere vero. A quale scopo gli avrebbe raccontato una bugia? Avevano dunque trovato il terzo di cui abbisognavano! — Sarai contento ora? — domandò ella carezzevole.
Ella era ben lontana dal sospettare quello che avveniva nell’anima sua ed egli, per pudore, non disse le parole che gli bruciavano le labbra. Ma come avrebbe potuto simulare la gioia cui ella s’attendeva! Era stato tanto violento il suo dolore che gli era occorso di sentirsi ricordare da lei che altre volte egli aveva amato di udirla parlare di quel progetto. Ma quel progetto in bocca d’Angiolina gli era sembrato una carezza. Di più egli si era baloccato con quel piano, ne aveva sognata l’attualizzazione e la conseguente felicità. Ma quanti piani non erano passati per il suo cervello senza lasciar traccia? Aveva sognato in sua vita persino il furto, l’omicidio e lo stupro. Del delinquente aveva sentito il coraggio e la forza e la perversità, e dei delitti aveva sognati i risultati, l’impunità prima di tutto. Ma poi, soddisfatto dal sogno, egli aveva ritrovati immutati gli oggetti che aveva voluto distruggere, e s’era chetato, la coscienza tranquilla. Aveva commesso il delitto ma non v’era danno. Ora invece il sogno s’era fatto realtà ed egli, che pur l’aveva voluto, se ne sorprendeva, non ravvisava il suo sogno perchè prima aveva avuto tutt’altro aspetto.
— E non mi domandi chi sia lo sposo?
Con improvvisa risoluzione egli si rizzò:
— Lo ami tu?
— Come puoi farmi una simile domanda! — esclamò ella veramente stupefatta. Per unica risposta baciò la mano con la quale egli teneva alto l’ombrello.
— Allora non sposarlo! — impose lui. Spiegò le proprie parole a se stesso. Egli la possedeva già; non la desiderava più. Perchè per possederla altrimenti avrebbe dovuto concederla ad altri? Vedendola sempre più sorpresa, cercò di convincerla: — Con un uomo che non ami, non potresti essere felice.
Ma ella non conosceva le sue esitazioni. Per la prima volta si lagnò della propria famiglia. I fratelli non lavoravano, il padre era malato; come si faceva ad andare avanti? E non era lieta casa sua, ch’egli aveva vista alla luce del sole quando non c’erano gli uomini. Non appena venuti si bisticciavano fra di loro e con la madre e le sorelle. Certo, il sarto Volpini, quarantenne, non era il marito che s’era augurato, ma era a modo, buono, dolce, ed ella, col tempo, forse gli avrebbe voluto bene. Di meglio non avrebbe potuto trovare: — Tu, certo, mi vuoi bene, nevvero? Eppure non ammetti la possibilità di sposarmi. — Egli si commosse al sentirla parlare senz’alcun risentimento del suo egoismo.
Infatti. Forse ella faceva un buon affare. Con la consueta debolezza, non potendo convincere lei, per andare d’accordo egli procurò di convincere se stesso.
Ella raccontò. Aveva conosciuto il Volpini dalla signora Deluigi. Era un omino. — Mi arriva qui, — e accennò ridendo alla spalla. — Uomo allegro. Dice d’essere piccolo ma pieno di un grande amore. — Forse sospettando — oh, quale torto gli faceva, — ch’Emilio potesse venir morso dalla gelosia, s’affrettò ad aggiungere: — Brutto assai. Ha la faccia piena di peli del colore della paglia secca. La barba gli arriva agli occhi, anzi agli occhiali. — La sartoria del Volpini si trovava a Fiume, ma egli aveva detto che, dopo il matrimonio, le avrebbe permesso di venir a passare ogni settimana un giorno a Trieste e intanto, poichè la maggior parte del tempo egli era assente, essi avrebbero potuto continuare a vedersi tranquillamente.
— Saremo però molto prudenti — pregò lui. — Molto, molto prudenti! — ripetè. Se quella era una fortuna per lei, non sarebbe stato meglio di rinunciare addirittura a vedersi, per non comprometterla? Per tranquillare la propria coscienza inquieta, egli sarebbe stato capace di qualunque sacrificio. Prese una mano d’Angiolina, vi appoggiò la fronte e in quella posa d’adoratore disse tutto il suo pensiero: — Per non farti del male saprei rinunziare a te.
Forse essa comprese: Non fece più allusioni al tradimento ch’essi avevano concertato e, per questo solo fatto, fu quella la serata in cui si fossero amati più dolcemente. Per un momento, per una sola volta, apparì portata all’altezza del sentimento d’Emilio. Non ebbe nessuna nota stonata; non gli disse neppure d’amarlo. Egli andava accarezzando il proprio dolore. La donna ch’egli amava non era soltanto dolce e inerme; era perduta. Si vendeva da una parte, si donava dall’altra. Oh, egli non poteva dimenticare la voglia di ridere ch’ella aveva manifestata al principio del loro colloquio. Se faceva a quel modo il passo più importante della sua vita, come si sarebbe comportata accanto ad un uomo che non amava?
Era perduta! Abbracciatala stretta stretta col braccio sinistro, poggiò il capo nel suo grembo e, pieno di compassione più che di amore, mormorò: — Poveretta! — Restarono così lungamente; poi ella si chinò su lui e, certo con l’intenzione ch’egli non se ne accorgesse, leggermente lo baciò sui capelli. Fu l’atto più gentile ch’ella avesse avuto durante la loro relazione.
Poi tutto divenne brusco, orribile. La pioggerella monotona, triste, che aveva accompagnato il dolore di Emilio con una nota mite che gli era sembrata ora compianto ed ora indifferenza, si mutò improvvisamente in uno scroscio violento. Un soffio di vento freddo, dal mare, aveva sconvolta l’atmosfera pregna d’acqua e venne ora a scuoterli, a toglierli dal sogno che un istante felice aveva loro concesso. Ella fu presa da una grande paura di bagnarsi il vestito, e si mise a correre dopo di aver rifiutato il braccio di Emilio; aveva bisogno di ambe le mani per tener l’ombrello contro il vento. Nella lotta col vento e con la pioggia, ella s’adirò e non volle neppur precisare quando si sarebbero rivisti: — Adesso intanto badiamo d’arrivare a casa.
La vide salire in un carrozzone della tramvia e, dall’oscurità dove rimase, scorse nella luce gialla la bella faccia imbronciata, i dolci occhi intenti a verificare i guasti fatti dall’acqua al suo vestito.