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III V


IV.

Spesso, nella loro relazione, si ripeterono quegli scrosci di pioggia che lo strappavano all’incanto cui egli con tanta voluttà si abbandonava.

Di buon’ora, il giorno appresso, andò da Angiolina. Non sapeva neppur lui se ci andava a vendicarsi con qualche frase pungente del modo con cui ella l’aveva lasciato la sera innanzi, oppure a riavere intero, al colore di quel viso, il sentimento che nella notte era stato minato in lui da una dolorosa riflessione e del quale, — lo apprendeva all’ansietà che lo faceva correre fino lassù, — egli aveva oramai bisogno.

Venne ad aprirgli la porta la madre di Angiolina, la quale l’accolse con le solite parole gentili, la fisionomia immobile di cartapecora, la voce brutalmente sonora. Angiolina stava vestendosi e sarebbe venuta subito.

— Che gliene sembra? — domandò la vecchia tutto ad un tratto. Gli parlò del Volpini. Sorpreso che anche la madre volesse la sua approvazione al matrimonio d’Angiolina, egli esitò ed ella, ingannandosi sulla natura del dubbio che gli vedeva scritto in faccia, cercò di convincerlo: — Capirà. È una fortuna per Angiolina. Se anche non gli vorrà tanto bene, avrà una vita tranquilla, lieta, perchè egli è molto innamorato. Bisogna vederlo! — Ebbe un risolino breve e rumoroso ma che le contrasse le sole labbra. Si capiva ch’era soddisfatta.

Finì di compiacersi di vedere come Angiolina avesse fatto comprendere alla madre quanto ci tenesse al suo consenso; lo diede con parole generose. Gli doleva che Angiolina ne sposasse un altro, ma visto ch’era per suo bene... L’altra ebbe un altro risolino, ma questo più sulla faccia che nella voce e a lui parve ironico. Che la madre sapesse anche dei suoi patti con la figlia? Neppur questo non gli sarebbe dispiaciuto tanto. Perchè avrebbe dovuto dolersi di quelle risatine destinate all’onesto Volpini? Certo era che qui non poteva essere lui il deriso.

Angiolina venne vestita di tutto punto per uscire; aveva fretta perchè alle nove doveva trovarsi dalla signora Deluigi. Egli non volle lasciarla subito e perciò, per la prima volta, camminarono insieme per la via, alla luce del sole.

— Mi pare che siamo una bella coppia — disse ella sorridendo vedendo che ogni passante aveva un’occhiata per loro. Era impossibile passarle accanto e non guardarla.

Anche Emilio la guardò. Il vestito bianco, che esagerava il figurino d’allora, la vita strettissima, le maniche allargate, quasi palloni rigonfi, domandava l’occhiata, era stato fatto per conquistarla. La testa usciva da tutto quel bianco, non oscurata da esso, ma rilevata nella sua luce gialla e sfacciatamente rosea, alle labbra una sottile striscia di sangue rosso che gridava sui denti, scoperti dal sorriso lieto e dolce gettato all’aria e che i passanti raccoglievano. Il sole le scherzava nei riccioli biondi, li indorava e incipriava.

Emilio arrossì. Gli parve di poter leggere negli occhi di ogni passante un giudizio ingiurioso. La guardò ancora. Evidentemente ella aveva nell’occhio per ogni uomo elegante che passava, una specie di saluto; l’occhio non guardava, ma vi brillava un lampo di luce. Nella pupilla qualche cosa si moveva e modificava continuamente l’intensità e la direzione della luce. Quell’occhio crepitava! Emilio si attaccò a questo verbo che gli parve caratterizzasse tanto bene l’attività in quell’occhio. Nei piccoli movimenti rapidi, imprevedibili della luce, pareva di sentire un lieve rumore.

— Perchè civetti? — chiese egli costringendosi ad un sorriso.

Senz’arrossire e ridendo, ella rispose: — Io? Ho gli occhi per guardare, io. — Ella era dunque consapevole del movimento del suo occhio; s’ingannava soltanto dicendolo «guardare».

Poco dopo passò un impiegatuccio, certo Giustini, bel giovinetto che Emilio conosceva di vista. L’occhio di Angiolina si ravvivò ed Emilio si volse a guardare il fortunato mortale ch’era già passato. L’impiegatuccio s’era fermato a guardarli. — S’è fermato a guardarmi, eh? — chiese essa sorridendo lieta.

— Perchè te ne compiaci? — chiese egli con tristezza. Ella non lo comprese neppure. Poi, con astuzia, volle fargli credere ch’ella di proposito cercasse di renderlo geloso, e, infine, per quietarlo, spudoratamente, alla luce del sole, fece con le labbra rosse una smorfia che voleva rappresentare un bacio. Oh, ella non sapeva fingere. La donna ch’egli amava, Ange, era sua invenzione, se l’era creata lui con uno sforzo voluto; essa non aveva collaborato a questa creazione, non l’aveva neppure lasciato fare perchè aveva resistito. Alla luce del giorno il sogno scompariva.

— Troppa luce! — mormorò egli abbacinato. — Andiamo all’ombra.

Essa lo guardò con curiosità vedendogli il viso sconvolto: — Il sole a te fa male? Mi dicono infatti che ci sono delle persone che non lo possono sopportare. — Come ella aveva torto d’amare il sole.

Al momento di separarsi, egli le chiese: — E se Volpini risapesse di questa nostra passeggiata traverso la città?

— Chi gliel’avrebbe a dire? — disse essa con grande calma. — Gli direi che tu sei un fratello o un cugino della Deluigi. Egli non conosce nessuno a Trieste, ed è quindi facile fargli credere ciò che si vuole.

Quando si separarono, egli volle ancora analizzare le proprie impressioni e camminò solo, senza direzione. Un lampo d’energia rese il suo pensiero rapido e intenso. S’era imposto un problema e subito lo risolse. Avrebbe fatto bene a lasciarla immediatamente e non rivederla più. Non poteva più ingannarsi sulla natura dei propri sentimenti, perchè il dolore che poco prima aveva provato era troppo caratteristico con quella vergogna per lei e per se stesso.

S’avvicinò a Stefano Balli col proposito di fargli una promessa per cui la sua risoluzione fosse resa irrevocabile. Invece la vista dell’amico bastò a fargliela abbandonare. Perchè non si sarebbe potuto divertire anche lui con le donne come faceva Stefano? Ricordò quale sarebbe stata la sua vita senz’amore. Da una parte la soggezione al Balli, dall’altra la tristezza d’Amalia, e null’altro. E non gli parve d’essere meno energico ora che poco prima; anzi, ora voleva vivere, godere anche a costo di soffrire. Avrebbe dimostrato energia nel modo con cui avrebbe trattato Angiolina, non nel fuggirla vigliaccamente.

Lo scultore lo accolse con una bestemmia brutale: — Sei vivo ancora? Bada che se, come sembrerebbe dalla tua faccia contrita, ti avvicini per chiedermi un favore, sprechi fatica e fiato. Bastardo!

Gli gridava nelle orecchie comicamente minaccioso, ma Emilio fu liberato da ogni dubbio. L’amico, parlandogli d’appoggio, gli aveva dato un buon consiglio e, chi meglio del Balli avrebbe potuto soccorrerlo in quei frangenti? — Te ne prego — supplicò, — avrei un consiglio da chiederti.

L’altro si mise a ridere. — Si tratta d’Angiolina, nevvero? Non voglio saperne di cose che la concernono. È capitata fra noi a dividerci e ci stia, ma non mi secchi altrimenti.

Avrebbe potuto essere più brusco ancora che Emilio cionondimeno non avrebbe rinunziato ad averne il consiglio. Da quello doveva risultare la salvezza; Stefano, che tanto bene se ne intendeva, gli avrebbe indicata lui la via da seguirsi per continuare a godere senza più soffrire. In un solo istante giunse così dall’altezza di quel suo primo virile proposito alla più bassa abiezione: la coscienza della propria debolezza e la perfetta rassegnazione alla stessa. Chiamava aiuto! Avrebbe voluto conservare almeno l’aspetto della persona che domanda un semplice consiglio tanto per udire un parere altrui. Per un effetto meccanico, invece, quei gridi nelle orecchie lo resero supplichevole. Avrebbe avuto grande bisogno di venir accarezzato.

Stefano ne ebbe compassione. Lo prese ruvidamente pel braccio e lo trascinò seco verso la Piazza della Legna ove aveva lo studio. — Sentiamo. Se c’è aiuto possibile, sai bene ch’io te lo darò.

Commosso, Emilio si confessò. Sì. Ora lo sentiva chiaramente. La cosa era divenuta per lui molto seria, e descrisse il proprio amore, l’ansietà di vederla, di parlarle, la gelosia, il dubbio, il cruccio incessante e l’oblio perfetto d’ogni cosa che non avesse avuto attinenza a lei o al proprio sentimento. Poi parlò d’Angiolina come ora la giudicava in seguito al contegno ch’ella teneva sulla via, alle fotografie appese al muro della sua stanza e alla sua dedizione al sarto e ai loro patti. Parlandone sorrise più volte. L’aveva evocata alla mente, la vedeva lieta, ingenuamente perversa e le sorrideva senz’ira. Povera fanciulla! Ella ci teneva tanto a quelle fotografie da tenerle in parata sul muro, amava tanto di venir ammirata per la via da volere ch’egli stesso tenesse il registro delle occhiate lanciatele. Parlandone sentì che in tutto ciò non v’era offesa per chi aveva dichiarato di non cercare in lei che un giocattolo. Vero è che nel racconto non erano entrate tutte le sue osservazioni ed esperienze, ma quelle che ne erano rimaste fuori, per il momento non esistettero più. Guardò il Balli con timidezza perchè temeva di vederlo scoppiare in una risata, e fu soltanto la logica che lo costrinse a proseguire. Aveva dichiarato di volere un consiglio e doveva chiederlo. Il suono delle proprie parole echeggiava ancora nel suo orecchio ed egli ne trasse una conclusione come da parole altrui. Con grande calma, quasi avesse voluto far dimenticare il calore con cui aveva parlato fino a quel punto, chiese: — Non ti pare che visto che non so comportarmi come dovrei, farei bene a cessare da questa relazione? — Dissimulò di nuovo un sorriso. Sarebbe stato comico che il Balli, in buona fede, gli avesse dato il consiglio di lasciare Angiolina.

Ma Stefano diede subito prova della sua intelligenza superiore e non volle consigliare. — Capisci che io non posso mica consigliarti d’essere fatto altrimenti, — disse affettuosamente. — Lo sapevo io che questaFonte/commento: Pagina:Svevo - Senilità, 1927.djvu/295 specie di avventure non era fatta per te. — Emilio pensò che, poichè il Balli ne parlava a quel modo, i sentimenti di cui egli poco prima s’era tanto spaventato dovessero essere una cosa comune, e ne trasse un nuovo argomento di tranquillità.

S’avvicinò Michele, il servo del Balli, un uomo in età, antico soldato. In posizione di attenti disse al padrone qualche parola a mezza voce e s’allontanò dopo d’essersi levato il cappello con un gesto largo ma il corpo sempre immobile.

— Sono atteso nello studio, — disse il Balli con un sorriso. — È una donna ed è peccato che tu non possa assistere al nostro colloquio. Sarebbe molto istruttivo per te. — Poi ebbe una idea: — Vuoi che ci troviamo una sera in quattro? — Credette d’aver trovata la via per dare aiuto all’amico ed Emilio accettò con entusiasmo. Naturalmente! L’unico mezzo per poter imitare il Balli era di vederlo all’opera.

La sera Emilio aveva convegno con Angiolina al Campo Marzio. Nella giornata egli aveva meditati dei rimproveri. Ma ella venne per essere per qualche ora tutta sua; a Sant’Andrea, a quell’ora, non v’erano dei passanti che gliene rubassero l’attenzione. Perchè avrebbe dovuto diminuire la felicità con dei litigi? Gli parve d’imitare meglio il Balli amando dolcemente e godendo di quell’amore, cui, la mattina, in un istante di follia, per poco non aveva rinunziato. Del suo risentimento non trapelò che una eccitazione che andò a dar anima alle sue parole, a tutta la serata che fu nel principio dolcissima. Stabilirono di dedicare una delle due ore che potevano passare insieme ad allontanarsi dalla città, l’altra a rientrare. Fu lui che fece la proposta volendo tranquillarsi camminando accanto a lei. Ci misero circa un’ora ad arrivare all’Arsenale, un’ora di felicità perfetta, nella notte chiara, in quell’aria limpida, rinfrescata da un autunno anticipato.

Ella sedette sul muricciuolo che fiancheggiava la via ed egli rimase in piedi dominandola tutta. Vedeva proiettarsi quella testa, illuminata da una parte dalla luce di un fanale, sul fondo oscuro: l’arsenale che giaceva sulla riva, tutta una città, in quell’ora, morta. — La città del lavoro! — disse egli sorpreso d’esser venuto là ad amare.

Il mare, chiuso dalla penisola di faccia, nascosto dalle case, nella notte era sparito dal panorama. Restavano le case sparse alla riva come su una scacchiera, poi più in là, un vascello in costruzione. La città del lavoro pareva anche maggiore che non fosse. Alla sinistra, dei fanali lontani parevano segnarne la continuazione. Egli rammentò che quei fanali appartenevano ad un altro grande stabilimento situato sulla sponda opposta del vallone di Muggia. Il lavoro continuava anche là; era giusto che alla vista apparisse come la continuazione di questo.

Anch’ella guardava e, per un istante, Emilio si trovò col pensiero ben lungi dal suo amore. In passato egli aveva vagheggiato delle idee socialiste, naturalmente senza mai muover dito per attuarle. Come erano lontane da lui quelle idee! Ne ebbe rimorso come di un tradimento, perchè egli sentiva le cessazioni da desideri e da idee, le sole sue azioni, come apostasie.

Il piccolo malessere presto sparì. Ella chiedeva parecchie cose, specialmente intorno a quel colosso sospeso nell’aria ed egli le descrisse un varo. Nella sua vita di pedante solitario egli non aveva saputo conformare giammai il pensiero e le parole alle orecchie cui erano dirette e, invano, parecchi anni prima, aveva tentato d’uscire dal suo guscio e comunicare con la folla; s’era dovuto ritirare indispettito e sprezzante. Ora, invece, come era dolce evitare la parola o magari il concetto difficile, e farsi intendere. Come parlava era capace di spezzettare il proprio concetto liberandolo dalla parola con cui era nato, pur di veder passare un lampo d’intelligenza in quegli occhi azzurri.

Ma una grave stonatura anche allora venne ad interrompere tutta quella musica. Giorni prima egli aveva sentito raccontare un fatto che l’aveva assai commosso. Un astronomo tedesco, da una diecina di anni, viveva nel suo osservatorio, su una delle punte più alte delle Alpi, fra le nevi eterne. Il più vicino villaggio era situato un migliaio di metri sotto ai suoi piedi, e di là gli veniva portato giornalmente il cibo da una fanciulla dodicenne. Nei dieci anni, a mille metri il giorno di salita e di discesa, la fanciulla era divenuta grande e forte e bella, e lo scienziato ne fece sua moglie. Il matrimonio s’era celebrato poco prima nel villaggio, e, per viaggio di nozze, gli sposi erano saliti insieme alla loro abitazione. Fra le braccia di Angiolina egli vi ripensò; così avrebbe voluto possederla, a mille metri di distanza da qualunque altro uomo; così — dato che gli fosse stato possibile come all’astronomo, di continuare a dedicare la vita ai medesimi scopi — sarebbe stato capace di legarsi definitivamente a lei, senza riserve. — E a te — domandò con impazienza visto ch’ella non capiva ancora perchè le venisse raccontata quella storiella, — e a te piacerebbe di venir a stare lassù, con me?

Ella esitò. Evidentemente ella esitò. Una parte della storiella, la montagna cioè, era stata capita subito da lei. Egli non vi scorgeva che amore, mentre ella, subito, vi sentì la noia e il freddo. Lo guardò, comprese quale risposta egli esigesse, e, proprio per compiacergli, disse senz’alcun entusiasmo: — Oh, sarebbe magnifico.

Ma egli era già profondamente offeso. Aveva sempre creduto che quando si fosse deciso a farla sua, ella avrebbe accettato con entusiasmo qualunque condizione ch’egli le avesse imposta. Invece, no! Tanto in alto ella non si sarebbe trovata bene neppure con lui e, nell’oscurità, egli vide dipinta su quel volto la meraviglia che si potesse proporle di andar a passare la gioventù fra la neve, nella solitudine; la sua bella gioventù, dunque i capelli, i colori della faccia, i denti, tutte le cose ch’ella amava tanto di veder ammirate dalla gente.

Le parti erano invertite. Egli aveva proposto, sebbene per figura retorica, di farla sua ed ella non aveva accettato; ne rimase veramente costernato! — Naturalmente — disse con ironia amara — lassù non ci sarebbe nessuno che potrebbe regalarti delle fotografie, nè troveresti sulla via della gente fermata a guardarti.

Ella sentì l’amarezza, ma non si offese dell’ironia perchè le sembrava di aver ragione e si mise a discutere. Lassù faceva freddo ed ella non amava il freddo; d’inverno si sentiva infelice persino in città. Poi, a questo mondo, non si vive che una volta sola, e lassù si correva il pericolo di vivere più brevemente dopo d’esser vissuto peggio, perchè non le si darebbe ad intendere che possa essere molto divertente di vedersi passare le nubi anche sotto ai piedi.

Ella aveva ragione infatti, ma come era fredda e poco intelligente! Non discusse più perchè come avrebbe potuto convincerla? Guardò altrove cercando. Le avrebbe potuto dire un’insolenza che lo vendicasse e quietasse. Ma restò zitto, indeciso a guardare intorno a sè la notte, le luci sparse sulla fosca penisola di faccia, poi la torre che s’ergeva all’ingresso dell’arsenale, al di sopra degli alberi, di una lividezza turchina, un’ombra immota che pareva una combinazione casuale di colore campata in aria.

— Io non dico di no, — disse Angiolina per rabbonirlo, — sarebbe magnifico, ma... — S’interruppe; pensò che poichè egli tanto desiderava di vederla entusiasmata di quella montagna ch’essi, certo, non avrebbero mai vista, sarebbe stata una sciocchezza di non compiacerlo: — Sarebbe molto bello — e ripetè la frase con un crescendo d’entusiasmo. Ma egli non distolse gli occhi dalla lividura dell’aria, offeso anche più da quella finzione tanto trasparente da sembrare uno scherzo, finchè ella non lo attirò a sè. — Se vuoi una prova, domani, subito, partiamo e vivo sola con te per sempre.

In uno stato d’animo identico a quello della mattina, egli ripensò al Balli: — Lo scultore Balli vuole fare la tua conoscenza.

— Davvero? — chiese essa giocondamente. — Anch’io! — e pareva volesse correre subito in cerca del Balli. — Me ne è stato parlato tanto da una signorina che gli voleva bene, che da lungo tempo ho il desiderio di conoscerlo. Dove mi ha vista da desiderare di conoscermi?

Non era cosa nuova ch’ella, in faccia a lui, dimostrasse dell’interessamento per altri uomini, ma come era doloroso! — Non sapeva nemmeno che tu esista — disse egli bruscamente. — Ne sa quanto io gliene dissi. — Sperava di averle fatto dispiacere mentre invece ella gli fu molto grata d’aver parlato di lei. — Chissà, però — disse con accento comicissimo di diffidenza — che cosa tu gli avrai detto di me.

— Gli dissi che sei una traditrice, — disse egli ridendo. La parola li fece ridere di cuore e furono immediatamente di buon umore e in buona armonia. Si lasciò abbracciare lungamente e, tutt’ad un tratto molto commossa, gli mormorò nell’orecchio: — Sce tèm bocù. — Egli ripetè questa volta con tristezza: — Traditrice. — Ella rise di nuovo fragorosamente, ma poi trovò qualche cosa di meglio. Baciandolo, gli parlò sulla bocca, e, con una grazia ch’egli non dimenticò più, una voce dolce, supplichevole che mutava timbro, gli chiese più volte: — Non è vero che non è vero ch’io sia quella tal cosa? — Perciò anche la chiusa della serata fu deliziosa. Bastava un gesto indovinato d’Angiolina per annullare ogni dubbio, ogni dolore.

Al ritorno egli si rammentò che il Balli aveva da portar con sè una donna e s’affrettò di parlarne. Non parve ch’ella ne provasse dispiacere; poi però si informò con un aspetto d’indifferenza che non poteva essere simulato, se quella donna fosse molto amata dal Balli. — Non credo, — disse egli sinceramente, lieto di quell’indifferenza. — Il Balli ha un modo strano d’amare le donne; le ama molto ma tutte egualmente quando gli piacciono.

— Deve averne avute molte? — chiese essa pensierosa. E qui egli credette di dover mentire. — Non lo credo.

La sera appresso dovevano trovarsi al Giardino Pubblico in quattro. I primi sul posto furono Angiolina ed Emilio. Non era troppo gradevole d’attendere all’aperto, perchè, senza che fosse piovuto, il terreno era umido per lo scirocco. Angiolina volle celare la sua impazienza sotto un aspetto di malumore, ma non le riuscì d’ingannare Emilio il quale fu preso da un intenso desiderio di conquistare quella donna ch’egli non sentiva più sua. Fu noioso invece, lo sentì ed ella non mancò di farglielo sentire anche meglio. Stringendole il braccio, egli le aveva chiesto: — Mi vuoi bene almeno quanto iersera? — Sì! — disse lei bruscamente — ma non sono mica cose che si dicano ad ogni istante.

Il Balli capitò dall’Acquedotto al braccio di una donna grande come lui. — Com’è lunga! — disse Angiolina emettendo subito su quella donna l’unico giudizio che a quella distanza se ne poteva fare.

Avvicinatosi, il Balli presentò: — Margherita! Ange! — Tentò nell’oscurità di vedere Angiolina e s’avvicinò con la faccia tanto che allungando le labbra avrebbe potuto baciarla. — Veramente Ange? — Non ancora soddisfatto, accese un cerino e illuminò con esso la rosea faccia che, seria, seria, si prestò all’operazione. Illuminata, essa aveva nell’oscurità delle trasparenze adorabili; gli occhi chiari, in cui il giallo della fiamma penetrava come nell’acqua più limpida, brillavano dolci, lieti, grandi. Senza scomporsi, il Balli illuminò col cerino la faccia di Margherita, una faccia pallida, pura, due occhioni turchini, grandi e vivaci, che toglievano la possibilità di guardare altrove, un naso aquilino e, sulla piccola testa, una grande quantità di capelli castagni. Strideva su quella faccia la contradizione fra quegli occhi arditi di monella e la serietà dei tratti di madonna sofferente. Oltre che per farsi vedere, ella approfittò della luce del cerino per guardare con curiosità Emilio; poi, visto che la fiammella non voleva ancora spegnersi, vi soffiò sopra.

— Adesso vi conoscete tutti. Quel coso lì — disse il Balli accennando ad Emilio — lo vedrai al chiaro. — Precedette la compagnia con Margherita che già s’era attaccata al suo braccio. La figura di Margherita così alta e magra, non doveva esser bella; s’accompagnava ad entrambe le espressioni della faccia di vivacità e di sofferenza. Il suo passo era malsicuro, piccolo in proporzione alla figura. Portava una giacchetta di un color rosso fiammante, ma sul suo dosso modesto, povero, un po’ curvo, perdeva ogni arditezza; pareva una uniforme vestita da un fanciullo; mentre addosso ad Angiolina il colore più smorto s’avvivava. — Peccato, — mormorò Angiolina con profondo rammarico, — quella bella testa infilzata su quella stanga.

Emilio volle dire qualche cosa. S’avvicinò al Balli e gli disse: — Soddisfattissimo degli occhi della tua signorina, vorrei sapere come ti sieno piaciuti quelli della mia.

— Gli occhi non son brutti — dichiarò il Balli — il naso però non è modellato perfettamente; la linea inferiore è poco fatta. Bisognerebbe darci ancora qualche colpo di pollice.

— Davvero! — esclamò Angiolina interdetta.

— Forse potrei ingannarmi — disse il Balli serio, serio. — È cosa che si vedrà subito, al chiaro.

Quando Angiolina si sentì abbastanza lontana dal suo terribile critico, disse con voce cattiva: — Come se la sua zoppa fosse perfetta.

Al «Mondo Nuovo» entrarono in una stanza oblunga chiusa da una parte da un tramezzo, dall’altra, verso il vasto giardino della birreria, da una vetrata. Al loro arrivo accorse il cameriere, un giovanotto dal vestito e dal fare contadineschi. Montò in piedi su una seggiola e accese due fiammelle del gas, che rischiararono scarsamente la vasta stanza; restò poi lassù a stropicciarsi gli occhi assonnati, finchè Stefano non accorse a trarlo giù gridando che non gli permetteva d’addormentarsi tanto in alto. Il contadinotto, appoggiatosi allo scultore, discese dalla sedia e s’allontanò desto del tutto e di buonissimo umore.

A Margherita doleva un piede e s’era subito seduta. Il Balli le si fece d’intorno abbastanza premuroso, e voleva non facesse complimenti, si levasse lo stivale. Ma ella non volle dichiarando: — Già qualche male ci dev’essere sempre. Questa sera lo sento appena, appena.

Come era differente da Angiolina quella donna. Faceva delle dichiarazioni d’amore senza dirle, senza tradirne il proposito, affettuosa e casta, mentre l’altra, quando voleva significare la sua sensibilità, si inarcava tutta, si caricava come una macchina che per mettersi in movimento ha bisogno di una preparazione.

Ma al Balli non bastava. Aveva detto ch’ella doveva levarsi lo stivale e insistette per essere ubbidito finchè ella non dichiarò che sarebbe stata pronta a levarsi anche tutt’e due gli stivali se egli avesse ordinato, ma che non le sarebbe servito a nulla non essendo quella la causa del male. Durante la serata ella fu obbligata parecchie volte a dare dei segni di sommissione perchè il Balli voleva esporre il sistema che seguiva con le donne. Margherita si prestava magnificamente a quella parte; rideva molto, ma ubbidiva. Si sentiva nella sua parola una certa attitudine a pensare; ciò rendeva la sua soggezione appropriatissima quale esempio.

In principio ella cercò d’annodare il discorso con Angiolina che si provava di stare sulle punte dei piedi per vedersi in uno specchio lontano e correggersi i ricci. Le aveva raccontato dei mali che l’affliggevano al petto ed alle gambe; non si rammentava di un’epoca in cui non avesse sentito dei dolori. Sempre con gli occhi rivolti allo specchio, Angiolina disse: — Davvero? Poveretta! — Poi subito, con grande semplicità: — Io sto sempre bene. — Emilio che la conosceva, trattenne un sorriso avendo sentito in quelle parole l’indifferenza più piena per le malattie di Margherita e, immediata, intera, la soddisfazione della propria salute. La sventura altrui le faceva sentir meglio la propria fortuna.

Margherita si pose fra Stefano e Emilio; Angiolina sedette l’ultima in faccia a lei e, ancora in piedi, rivolse un’occhiata strana al Balli. Ad Emilio parve di sfida, ma lo scultore l’interpretò meglio: — Cara Angiolina, — le disse senza complimenti, — ella mi guarda così sperando ch’io trovi bello anche il suo naso, ma non serve. Il suo naso dovrebbe essere fatto così. — Segnò sul tavolo, col dito bagnato nella birra, la curva che egli voleva, una linea grossa che sarebbe stato difficile figurarsi su un naso.

Angiolina guardò quella linea come se avesse voluto apprenderla, e si toccò il naso: — Sta meglio così — disse a mezza voce come se non le fosse più importato di convincere nessuno.

— Che cattivo gusto! — esclamò il Balli non potendo però tenersi dal ridere. Si capì che da quel momento Angiolina lo divertì molto. Continuò a dirle delle cose sgradevoli ma pareva lo facesse per provocarla a difendersi. Ella stessa ci si divertiva. Nel suo occhio c’era per lo scultore la medesima benevolenza che brillava in quello di Margherita; una donna copiava l’altra, ed Emilio, dopo aver cercato invano di cacciare qualche parola nella conversazione generale, era ora intento a domandarsi perchè avesse organizzata quella adunanza.

Ma il Balli non lo aveva dimenticato. Seguì il suo sistema, che pareva dovesse essere la brutalità, persino col cameriere. Lo sgridò perchè non gli offriva di cena altro che vitello in tutte le salse; rassegnatosi a prenderne, gli diede i suoi ordini e quando il cameriere stava già per uscire dalla stanza, gli gridò dietro in un nuovo comico accesso d’ira ingiustificata: — Bastardo, cane! — Il cameriere si divertì a esser sgridato da lui ed eseguì tutti i suoi ordini con una premura straordinaria. Così, avendo domato tutti intorno a sè, al Balli parve d’aver dato ad Emilio una lezione in piena regola.

Ma a costui non riuscì d’applicare quei sistemi neppure nelle cose più piccole. Margherita non voleva mangiare: — Bada, disse il Balli, — è l’ultima sera che passiamo insieme; non posso soffrire le smorfie io! — Ella acconsentì che si facesse da cena anche per lei; tanto presto le venne l’appetito che ad Emilio sembrò di non avere avuto giammai da Angiolina un tale segno di affetto. Intanto anche questa, dopo lunga esitazione, aveva dichiarato di non volerne sapere di vitello.

— Hai inteso, — le disse Emilio, — Stefano non può soffrire le smorfie. — Ella si strinse nelle spalle; non le importava di piacere a nessuno, e ad Emilio parve che il disprezzo fosse diretto piuttosto a lui che al Balli.

— Questa cena di vitelli — disse il Balli con la bocca piena guardando in faccia gli altri tre — non è precisamente una cosa molto armonica. Voi due stonate insieme; tu nero come il carbone, ella bionda come una spiga alla fine di Giugno, sembrate messi insieme da un pittore accademico. Noi due poi si potrebbe metterci sulla tela col titolo: Granatiere con moglie ferita.

Con sentimento molto giusto, Margherita disse: — Non si va mica insieme per farsi vedere dagli altri. — Il Balli, serio e brusco anche in quell’atto affettuoso, le diede in premio un bacio sulla fronte.

Angiolina, con un pudore nuovo, s’era messa a contemplare il soffitto. — Non faccia la schizzinosa, — le disse il Balli corrucciato. — Come se voi due non faceste di peggio.

— Chi lo dice? — chiese Angiolina subito minacciosa verso Emilio.

— Io no — protestò poco felicemente il Brentani.

— E che cosa fate insieme tutte le sere? Io non lo vedo mai dunque è con lei ch’egli passa le sue serate. Ha da capitargli anche l’amore, in quella verde età! Addio bigliardo, addio passeggiate. Io resto lì solo ad aspettarlo o bisogna m’accontenti del primo imbecille che mi viene per i versi. Ci eravamo trovati tanto bene insieme! Io, la persona più intelligente della città e lui la quinta, perchè dopo di me vi sono quattro posti vuoti e subito al prossimo c’è lui.

Margherita, che in seguito a quel bacio aveva riacquistata tutta la sua serenità, ebbe per Emilio un’occhiata affettuosa. — Davvero! Mi parla continuamente di lei. Le vuole molto bene.

Invece ad Angiolina parve che la quinta intelligenza della città fosse poca cosa, e conservò tutta la sua ammirazione per chi ne era la prima. — Emilio mi ha raccontato ch’ella canta tanto bene. Canti un po’. L’udrei tanto volentieri.

— Non mi mancherebbe altro. Dopo di cena io riposo. Ho la digestione difficile come quella di un serpente.

Margherita sola intuì lo stato d’animo di Emilio. I suoi occhi, posandosi su Angiolina, divennero serii; poi si rivolse ad Emilio, si dedicò a lui, ma per parlargli di Stefano: — Talvolta è brusco, certo, ma non sempre, e anche quando lo è non incute spavento. Si fa quello che vuole lui, perchè gli si vuol bene. — Poi, sempre a voce bassa, modulata dolcemente, ella disse: — Un uomo che pensa è tutt’altra cosa di quelli che non pensano. — Si capiva che parlando di quegli altri, pensava a gente in cui s’era imbattuta ed egli, distratto per un istante dal suo doloroso imbarazzo, la guardò con compassione. Ella aveva ragione d’amare negli altri le qualità che le giovavano; da sola, così dolce e debole, non si sarebbe potuta difendere.

Ma il Balli si ricordò di nuovo di lui: — Come sei ammutolito! — Poi, rivolto ad Angiolina, chiese: — È sempre così nelle lunghe sere che passate insieme?

Ella che pareva dimentica dei suoi inni d’amore, disse con malumore: — È un uomo serio.

Il Balli ebbe la buona intenzione di risollevarlo: ne tessè la biografia caricandola: — Come bontà è lui il primo ed io il quinto. È il solo maschio col quale io abbia saputo andar d’accordo. È il mio alter ego, il mio altro io, pensa come me, e... è sempre del mio parere quando io subito non so essere del suo. — All’ultima frase aveva dimenticato il proposito col quale aveva cominciato a parlare e, di buon umore, schiacciava Emilio sotto il peso della propria superiorità. Quest’ultimo non seppe far altro che comporre la bocca ad un sorriso.

Poi sentì che sotto a quel sorriso doveva essere ben facile d’indovinare uno sforzo e, per simulare meglio disinvoltura, volle parlare. S’era discorso, — egli non sapeva neppure da chi, — di far posare Angiolina per una figura che il Balli ideava. Egli era d’accordo: — Si tratta già di copiare la sola testa — disse ad Angiolina come se non avesse saputo che ella avrebbe accordato anche di più. Ma ella, senza interpellarlo, mentre egli era stato distratto dai discorsi di Margherita, aveva già accettato, e, bruscamente, interruppe le parole di Emilio, che per nulla spontanee, s’erano disposte in una perorazione fuori di luogo, esclamando: — Ma se ho già accettato.

Il Balli ringraziò e disse che ne avrebbe sicuramente approfittato, ma soltanto di là a qualche mese, perchè, per il momento, era troppo occupato con altri lavori. La guardò lungamente sognando la posa in cui l’avrebbe ritratta e Angiolina divenne rossa dal piacere. Almeno Emilio avesse avuto un compagno di sofferenza. Ma no! Margherita non era affatto gelosa, e guardava Angiolina anche lei con l’occhio d’artista. Stefano ne avrebbe fatta una cosa bella, disse, e parlò con entusiasmo delle sorprese che le aveva date l’arte, quando dall’argilla docile usciva una faccia, un’espressione, la vita.

Il Balli presto si rifece brusco — Lei si chiama Angiolina? Un vezzeggiativo con codesta statura da granatiere? Angiolona la chiamerò io, anzi Giolona. — E da allora la chiamò sempre così con quelle vocali larghe, larghe, il disprezzo stesso fatto suono. Emilio si sorprese che il nome non dispiaccesse ad Angiolina; ella non se ne adirò mai e quando il Balli glielo urlava nelle orecchie, rideva come se qualcuno le avesse fatto il solletico.

Al ritorno il Balli cantò. Aveva una voce uguale, di gran volume, ch’egli mitigava modulandola con ottimo gusto, immeritato dalle canzoncine volgari ch’egli prediligeva. Quella sera ne cantò una di cui, per la presenza delle due donne, non poteva pronunziare tutte le parole, ma seppe farle intendere lo stesso con la malizia e la sensualità della voce e dell’occhio. Angiolina ne fu incantata.

Quando si divisero, Emilio ed Angiolina stettero per un istante fermi a guardare l’altra coppia che s’allontanava. — Cieco! — disse ella. — Come fa ad amare una trave affumicata che si regge a stento?

La sera appresso ella non lasciò ad Emilio il tempo di farle i rimproveri ch’egli aveva meditati nella giornata. Aveva di nuovo da raccontargli delle cose sorprendenti. Il sarto Volpini le scriveva — ella aveva dimenticato di portar seco la lettera, — che egli non avrebbe potuto sposarla che di là ad un anno. Un suo socio glielo impediva con la minaccia di disdire la società e di lasciarlo senza capitali. — Pare che il socio voglia dargli in moglie una propria figliuola, una gobbetta che starebbe veramente bene accanto al mio futuro. Però il Volpini assicura che entro un anno egli potrà far senza del socio e del suo denaro e allora sposerà me. Capisci? — Egli non aveva capito. — C’è dell’altro — disse ella dolcemente e confusa. — Il Volpini non vuole vivere con quel desiderio per tutto un anno.

Ora egli capì. Protestò. Come si poteva sperare d’ottenere da lui un simile consenso? E d’altronde che cosa poteva obiettare? — Quali garanzie avrai della sua onestà?

— Quelle che vorrò. Egli è pronto a fare un contratto da un notaio.

Dopo una breve pausa egli chiese: — Quando?

Ella rise: — La prossima domenica non può venire. Vuole disporre tutto per il contratto che si farà di qui a quindici giorni e poi... — S’interruppe ridendo e lo abbracciò.

Sarebbe stata sua! Non era così ch’egli aveva sognato il possesso, ma l’abbracciò anche lui con effusione e volle convincersi d’essere perfettamente felice. Senza dubbio, doveva esserle grato! Ella gli voleva bene, o meglio voleva bene anche a lui. Di che si sarebbe potuto lagnare?

D’altronde era forse quella la guarigione ch’egli sperava. Insozzata dal sarto, posseduta da lui, Ange sarebbe morta, e si sarebbe divertito anche lui con Giolona, lieto com’ella voleva tutti gli uomini, indifferente e sprezzante come il Balli.


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