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VI.
Una sera, al principio di Gennaio, il Balli, con un infinito malumore, camminava soletto l’Acquedotto. Gli mancava la compagnia d’Emilio il quale aveva accompagnata la sorella ad una visita, e Margherita ancora non era stata rimpiazzata.
Il cielo era chiaro ad onta dello scirocco che incombeva già dalla mattina sulla città. Pareva impossibile che a quella temperatura fredda e umida resistesse il tisico carnevale iniziatosi quella sera con un primo ballo mascherato. — Oh, avere qui un cane per far addentare quei polpacci! — pensò il Balli vedendo passare due pierrettes con le gambe nude. Quel carnevale, perchè meschino, gli dava un’ira da moralista; più tardi, molto più tardi, anche lui vi avrebbe partecipato, dimentico del tutto di quell’ira, innamorato del lusso e dei colori. Ma intanto ricordava d’assistere al preludio di una triste commedia. Incominciava a formarsi il vortice che per un istante avrebbe sottratto l’operaio, la sartina, il povero borghese alla noia della vita volgare per condurli poi al dolore. Ammaccati, sperduti, alcuni sarebbero ritornati all’antica vita divenuta però più greve; gli altri non avrebbero trovato mai più la quaresima.
Sbadigliò di nuovo; anche il proprio pensiero l’annoiava. — Sa di scirocco — pensò e guardò di nuovo la luna luminosa che poggiava sul monte come su un piedestallo.
Ma il suo occhio si fermò su tre figure che scendevano l’Acquedotto. Lo colpirono perchè subito s’accorse che tutt’e tre si tenevano per mano. Un uomo tozzo e piccolo in mezzo, due donne, due figure slanciate, ai lati; pareva un’ironia ch’egli si propose di scolpire. Avrebbe vestite le due donne alla greca, l’uomo in una giubba moderna; avrebbe dato alle donne il riso forte delle baccanti, all’uomo avrebbe stampato in faccia la fatica e la noia.
Ma avvicinatesi le figure, egli dimenticò del tutto quella visione. Una delle donne era Angiolina, l’altra certa Giulia, una ragazza non bella che Angiolina aveva fatta conoscere al Balli e ad Emilio. Non conosceva l’uomo che passò a pochi passi da lui, la testa alta e sorridente, veneranda per una grande barba bruna. Non era il Volpini ch’era fulvo.
Giolona rideva di cuore col suo riso sonoro e dolce; certo l’uomo era là per lei, e a Giulia veniva premuta la mano soltanto in grazia sua. Il Balli lo credette fermamente senza però saperne dire il perchè, la propria forza d’osservazione lo divertì tanto che dimenticò la noia di tutta la serata. — Ecco un’occupazione originale; farò la spia! — Li seguì tenendosi nell’ombra sotto gli alberi. Giolona rideva assai, quasi ininterrottamente, mentre Giulia, per prendere parte alla conversazione, si protendeva perchè i due alla sua destra troppo spesso si dimenticavano di lei.
Presto non ci fu più bisogno di grande forza d’osservazione. A pochi passi dal caffè all’Acquedotto s’erano fermati. L’uomo lasciò la mano di Giulia, che discretamente si trasse in disparte e prese nelle sue ambe le mani di Angiolina. Cercava di ottenere qualche cosa da lei, e ad ogni tratto portava la sua ispida barba accanto alla faccia di Angiolina; da lungi parevano baci. Poscia i tre si riunirono ed entrarono nel caffè.
S’erano seduti nella prima stanza accanto alla porta d’ingresso, ma in modo che il Balli non vedeva che la testa dell’uomo. Quella però in piena luce. Una faccia nera nera incorniciata dalla barba abbondante che gli arrivava fin sotto agli occhi, ma la testa calva e lucente e gialla. — L’ombrellaio di via Barriera! — rise il Balli. Un ombrellaio rivale di Emilio Brentani. Ma tanto meglio perchè quel mestiere avrebbe guarito Emilio. Il Balli pensò che gli avrebbe saputo rendere l’avventura tanto ridicola che Emilio ne avrebbe riso e non sofferto. Il Balli non dubitava affatto del proprio spirito.
L’ombrellaio guardava solo da una parte e, con la sua coscienza di spia onesta, il Balli volle accertarsi che da quella parte si trovasse Angiolina; perciò entrò. Era proprio dessa che sedeva addossata alla parete; Giulia, seduta in faccia, perfettamente isolata, centellinava da un bicchierino un liquor trasparente e denso. Ma, tuttavia, ad onta della grande attenzione che ci metteva, ella era meno distratta degli altri due. Fu lei ad accorgersi del Balli e a dar l’allarme. Troppo tardi. Egli s’era potuto accorgere che le due mani s’erano unite di nuovo sotto il tavolo ed era stato colpito dall’espressione affettuosa con cui Angiolina guardava l’ombrellaio. Emilio aveva ragione; quegli occhi crepitavano come se nella loro fiamma qualche cosa bruciasse. Il Balli invidiò l’ombrellaio. Come egli si sarebbe trovato meglio a quel posto che non al proprio!
Giulia lo salutò: — Buona sera! — Egli fu indignato all’accorgersi ch’ella si aspettava di essere avvicinata da lui. Per poter stare con Emilio e con Angiolina egli l’aveva sopportata per una sera. Lentamente uscì, salutando Angiolina con un breve cenno del capo. Ella s’era quasi rannicchiata al suo posto per sembrare lontana dal suo compagno e guardava il Balli con grandi occhi espressivi, pronta a sorridergli solo ch’egli gliene avesse dato l’esempio. Ma egli non sorrise e, guardando altrove, senza rispondere ad un saluto dell’ombrellaio, passò oltre.
— Come siamo stati espressivi! — pensò. — Ella m’ha pregato di non parlare ad Emilio di quest’incontro ed io le ho risposto che gliene avrei parlato non appena lo avessi veduto.
Guardò di nuovo l’ombrellaio, in mezzo a quella calvizie e a quel pelo una faccia di cuor contento. — Oh, se Emilio l’avesse vista!
— Buona sera signor Balli — sentì dietro di sè un saluto riverente. Si volse. Era Michele. Capitava in buon punto.
Con sùbita decisione, il Balli lo pregò di andare da Emilio Brentani; se era in casa di condurlo subito con sè, e se non c’era di attenderlo finchè non fosse venuto. Michele si prese appena il tempo di ascoltare l’ordine e si mise a correre.
Impaziente, il Balli s’appoggiò ad un albero di faccia al caffè. Avrebbe saputo impedire lui che Emilio se la prendesse con l’ombrellaio o con Angiolina. Sperava di saper renderlo calmo e libero per sempre da quel legame.
Giulia era venuta alla porta e guardò attentamente a sè d’intorno; ma, trovandosi in piena luce e il Balli nell’ombra, non lo scorse. Il Balli stette immobile non importandogli di celarsi. Giulia rientrò e uscì poi accompagnata da Angiolina e dall’ombrellaio che ora non osava più tenere per mano la sua amata. Si diressero con passo più celere verso il caffè Chiozza. Fuggivano! Fino al Chiozza il compito del Balli restò facile perchè Emilio doveva venire per quella via; ma quando piegarono a destra, verso la stazione, allora il Balli si trovò in grande imbarazzo. L’impazienza lo rese iroso. — Se Emilio non viene in tempo, congedo Michele.
Fino a un certo punto fu aiutato dalla sua ottima vista. — Ah, canaglie! — mormorò irritato accorgendosi che l’ombrellaio si sentiva di nuovo sicuro tanto da riafferrare la mano d’Angiolina. Poco dopo li perdette di vista nell’ombra proiettata dalle alte case, e quando capitò finalmente Emilio, sapendo di non poter più raggiungerli, lo accolse con le parole: — Peccato! Hai perduto uno spettacolo che sarebbe stato salutifero per te. Poi si mise a canticchiare. — Sì, vendetta, tremenda vendetta... — e, forse sperando ch’essi si sarebbero fermati ad aspettarli, trascinò seco Emilio verso la stazione.
Emilio aveva capito che si trattava di Angiolina. Acconsentì a camminare accanto al Balli facendo delle domande come se non avesse avuto il più lontano sospetto della verità. Poi comprese: il nodo che gli serrava la gola era prodotto dal duro ridicolo che lo colpiva. Oh, prima di tutto liberarsi da quello! Si fermò ostinato. Voleva sapere di che cosa si trattasse altrimenti non si sarebbe mosso di là. Gli dicesse tutto con franchezza. Si trattava di Angiolina nevvero? — Tutto quanto me ne puoi dire tu non arriva certo a quanto ne so io — e rise. — Cessa dunque da questa commedia.
Fu soddisfatto di se stesso specialmente quando si accorse d’aver subito ottenuto dal Balli quello che voleva. Divenuto serio, costui gli raccontò del caso per cui s’era imbattuto in Angiolina e l’aveva colta in flagrante. — In un’alcova la cosa non sarebbe potuta essere più chiara. — Quell’uomo era là per Angiolina e non per Giulia, anzi Angiolina era là per lui. Come gli accarezzava le mani e come la guardava! Non era mica il Volpini, sai. — S’interruppe per guardare Emilio ed esaminare se forse la calma che gli scorgeva non fosse derivata dalla presunzione che l’uomo col quale lo si tradiva fosse il Volpini.
Emilio continuava a prestar orecchio fingendo di essere sorpreso da tale notizia. — Ne sei poi sicuro? — chiese coscienziosamente. Sapeva che il Volpini non si trovava a Trieste, e perciò non aveva neppure pensato a lui.
— Oh, bella! Conosco il Volpini e poi conosco anche quest’altro. L’ombrellaio di Barriera Vecchia. Quello delle ombrelle ordinarie, colorite. — Qui venne una descrizione particolareggiata dell’ombrellaio alla doppia luce gialla del gas e degli occhi di Angiolina. Calvo e pur tanto nero! — È un mostro in natura perchè resta nero in qualunque luce lo si vegga. — Il Balli terminò il suo racconto: — Giacchè non v’è ragione di aver compassione di te, ne provo unicamente per quella povera Giulia. L’ombrellaio non ha un amico come me cui addossare le brutte appendici delle sue belle avventure. Fu lei la maltrattata! Dovette contentarsi di un bicchierino di rosolio, mentre Angiolina con grande apparato si fece dare un cioccolatte e una grande quantità di focacce.
Ed Emilio sembrava prendere interesse a tutte le spiritose osservazioni dell’amico. Non aveva più neppur bisogno di sforzo per simulare indifferenza; si era quasi cristallizzato nel primo sforzo e avrebbe potuto dormire conservando stereotipato quel sorriso e quella calma. Era tale quella simulazione da penetrare molto più in là dell’epidermide. Invano egli cercava in sè qualche cosa d’altro fuori di essa, e non trovava che una grande stanchezza. Nient’altro! Forse la noia di sè, del Balli e d’Angiolina. E pensò: — Quando sarò solo starò certo meglio di così.
Il Balli disse: — Adesso andiamo a dormire. Tu sai già dove potrai trovare Angiolina domani. Le dirai poche parole d’addio e poi la sia finita come tra me e Margherita.
Il suggerimento era buono; tuttavia forse non ci sarebbe stato bisogno di darlo. — Sì, farò così — disse Emilio. Con sincerità aggiunse: — Forse non domani però. — Avrebbe voluto dormire lungamente l’indomani.
— Va là che sei degno mio amico — disse il Balli con profonda ammirazione. — In una sola sera hai riconquistata tutta la stima che avevi perduta con le sciocchezze commesse nel corso di più mesi. Mi accompagni verso casa mia?
— Un piccolo tratto — disse Emilio sbadigliando. — È tardi ed io ero là là per coricarmi allorchè fui chiamato da Michele. Evidentemente deplorava quella chiamata intempestiva.
Non si ritrovò neppure quando fu solo. Che cosa gli restava da fare per quella sera? Si diresse verso casa per andare a coricarsi.
Ma, giunto al Chiozza, si fermò a guardare verso la stazione, la parte della città ove Angiolina faceva all’amore con l’ombrellaio. — Eppure — pensò e pensò l’idea e le parole — sarebbe bello ch’ella passasse per di qua ed io potessi subito dirle che fra di noi tutto è finito. Allora sì che tutto sarebbe finito ed io potrei andare a dormire veramente calmo. Per di qua deve passare!
S’appoggiò ad un paracarro e quanto più attendeva, tanto più forte si faceva la sua speranza di vederla quella stessa notte.
Per essere pronto pensò anche le parole che le avrebbe dirette. Dolci. Perchè no? — Addio Angiolina. Io volevo salvarti e tu mi hai deriso. — Deriso da lei, deriso dal Balli! Una rabbia impotente gli gonfiò il petto. Finalmente egli si destava e tutta la rabbia e la commozione non lo addoloravano tanto come l’indifferenza di poco prima, una prigionia del proprio essere impostagli dal Balli. Dolci parole ad Angiolina? Ma no! Poche e durissime e fredde. — Io sapevo già ch’eri fatta così. Non mi sorprese affatto. Domandalo al Balli. Addio.
Camminò per calmarsi perchè al pensare quelle fredde parole s’era sentito bruciare. Non offendevano abbastanza! Con quelle parole non offendeva che se stesso; si sentiva venire le vertigini. — Così si uccide — pensò — non si parla. — Una grande paura di se stesso lo calmò. Sarebbe stato ugualmente ridicolo anche uccidendola, si disse, come se egli avesse avuto un’idea da assassino. Non la aveva avuta; ma, rassicuratosi, si divertì a figurarsi vendicato con la morte di Angiolina. Quella sarebbe stata la vendetta che avrebbe fatto obliare tutto il male di cui ella era stata l’origine. Dopo, egli avrebbe potuto rimpiangerla, e lo pervase una commozione che gli cacciò le lagrime agli occhi.
Pensò che con Angiolina egli avrebbe dovuto seguire lo stesso sistema adottato col Balli. Quei due suoi nemici dovevano essere trattati nello stesso modo. A lei egli avrebbe detto che non l’abbandonava causa il tradimento ch’egli s’era atteso, ma per il sozzo individuo ch’ella aveva scelto a suo rivale. Egli non voleva più baciare dove aveva baciato l’ombrellaio. Finchè s’era trattato del Balli, del Leardi e magari del Sorniani, aveva chiuso un occhio, ma l’ombrellaio! Nell’oscurità studiò la smorfia di schifo con cui avrebbe detta questa parola.
Qualunque parola egli immaginasse di dirigerle, sempre veniva colto da un convulso riso. Avrebbe continuato a parlarle così tutta la notte? Era dunque necessario di parlarle subito. Ricordò ch’era probabile che Angiolina rincasasse dalla parte di via Romagna. Col suo passo rapido egli avrebbe ancora potuto raggiungerla. Non aveva finito di pensare tutto questo e, già, lieto di poter prendere una decisione che tagliasse il dubbio che gli annebbiava la mente, si mise a correre. Il movimento dapprima gli diede un po’ di sollievo. Poi rallentò il passo reso esitante da una nuova idea. Se essi rincasavano da quella parte, non sarebbe stato più sicuro, per ritrovarli, di salire alla via Fabio Severo dalla parte del Giardino Pubblico e discenderne andando loro incontro per via di Romagna? La corsa non gli faceva paura e avrebbe impreso quel giro enorme; ma in quella gli parve di veder passare dinanzi al caffè Fabris Angiolina accompagnata da Giulia e da un uomo che doveva essere l’ombrellaio. A tanta distanza riconobbe la fanciulla saltellante graziosamente come quando voleva piacere a lui. Cessò di correre perchè aveva tutto il tempo per raggiungerli. Potè anche pensare senza esasperarsi le parole che le avrebbe dirette subito. Perchè circondare quell’avventura di tanti particolari e pensieri strani? Era un’avventura solita, e di là a pochi minuti sarebbe stata liquidata nel modo più semplice.
Giunto sotto all’erta di via Romagna, non vide più le tre persone che dovevano averla già passata. Camminò più presto colto da un dubbio che l’affannò quanto la salita. E se non fosse stata Angiolina? Come avrebbe potuto lottare contro la propria agitazione, sempre rinascente, per tutta una notte?
Quantunque ora si trovassero a pochi passi da lui, nell’oscurità egli continuò a credere che quelle tre persone fossero quelle che egli cercava. Perciò ebbe un momento di calma. Era tanto facile di calmarsi quando poteva procedere subito ad un’azione!
Quel gruppo ricordava quell’altro di cui il Balli gli aveva fatta la descrizione. In mezzo a due donne camminava un uomo grosso e tarchiato che dava il braccio a quella ch’egli aveva creduta Angiolina, e che ora però non aveva niente di caratteristico nel suo modo di muoversi. La guardò in faccia con lo sguardo calmo e ironico preparato con tanta fatica. Ebbe una grande sorpresa vedendo una faccia ignota, di vecchia, asciutta asciutta.
Una delusione dolorosa. Nel desiderio di non lasciare così quel gruppo cui l’aveva attaccato tanta speranza, ebbe l’idea di chiedere a quella gente se forse non avessero vista Angiolina, e pensava già il modo con cui l’avrebbe descritta. Si vergognò! Una sola parola che avesse detta, e tutti avrebbero indovinato tutto. Continuò a camminare con passo celere che presto degenerò in corsa. Vedeva dinanzi a sè un lungo tratto di strada bianca e ricordò che, quando avrebbe girato, ne avrebbe visto un altro altrettanto lungo e poi un altro. Interminabile! Ma bisognava uscire dal dubbio e per il momento il dubbio era se Angiolina si trovasse su quella strada o altrove.
Un’altra volta pensò le frasi ch’egli le avrebbe dirette quella notte stessa o la mattina appresso. Dignitosamente (quanto più aumentava la sua agitazione, tanto più calmo egli si sognava) dignitosamente le avrebbe detto che per liberarsi di lui le sarebbe bastato di dirgli una parola, una sola parola. Non sarebbe occorso deriderlo. — Io mi sarei ritirato subito. Non mi occorreva di esser cacciato dal mio posto da un ombrellaio. Ripetè più volte questa frase, modificandone qualche parola e cercando di perfezionare anche il suono della voce che diveniva sempre più ironico e tagliente. Cessò quando s’accorse che, per lo sforzo di trovare l’espressione, urlava.
Per evitare la densa fanghiglia nel centro della via, si trasse da parte, sulla ghiaia, ma, sul suolo poco livellato fece un passo falso, e per salvarsi dalla caduta si contuse le mani sulla grezza muraglia. Il dolore fisico lo agitò, aumentò il suo desiderio di vendetta. Si sentiva più deriso che mai, come se quella sua caduta fosse stata una nuova colpa di Angiolina. In lontananza, di nuovo, gli parve di vederla muoversi. Un riflesso, un’ombra, un movimento, tutto assumeva la forma, l’espressione del fantasma che lo fuggiva. Egli si mise a correre per raggiungerla, non calmo e preparato all’ironia come sull’erta di via Romagna, ma con la ferma intenzione di trattarla brutalmente. Per fortuna non era dessa e allo sciagurato parve che tutta la violenza cui era stato in procinto di abbandonarsi, fosse ora diretta contro se stesso, gli chiudesse il respiro e gli togliesse ogni possibilità di pensare e di frenarsi. Si morse una mano come un forsennato.
Si trovò alla mèta della lunga corsa. La casa di Angiolina grande e solitaria, una caserma, la facciata bianca illuminata dalla luna, era tutta chiusa, avvolta nel silenzio; sembrava abbandonata.
Egli sedette su un muricciuolo e cercò di proposito degli argomenti per calmarsi. A vederlo in quello stato si sarebbe potuto credere che quella sera egli fosse stato avvisato del tradimento di una donna fedele. Guardò le proprie mani ferite: — Queste ferite non c’erano prima — pensò. In quel modo ella non l’aveva ancora trattato. Forse tutto quell’affanno e quel dolore preludiavano alla guarigione. Ma pensò con dolore: — Se l’avessi posseduta non soffrirei tanto. — Se egli avesse voluto, voluto energicamente sarebbe stata sua. Invece era stato solo intento a mettere in quella relazione un’idealità che aveva finito col renderlo ridicolo anche ai propri occhi.
S’alzò da quel muricciuolo più quieto ma più affranto di quando vi si era seduto. Tutta la colpa era sua. Era lui l’individuo strano, l’ammalato, non Angiolina. E questa conclusione avvilente lo accompagnò fino a casa.
Dopo di aver atteso ancora una volta per esaminare una donna che aveva la figura di Angiolina, ebbe l’energia di chiudere dietro di sè la porta di casa. Era finita per quella sera. Il caso, in cui egli fino ad allora aveva sperato, non poteva più avverarsi colà.
Accese la candela, lento nei movimenti per ritardare quanto più poteva il momento in cui si sarebbe trovato sdraiato in quel letto senz’aver più nulla a fare e senza poter dormire.
Gli parve che nella stanza di Amalia si parlasse. Da prima credette fosse un’allucinazione. Non erano grida eccitate; parevano delle calme parole di conversazione. Socchiuse con prudenza la porta della stanza e non ebbe più dubbi. Amalia parlava con qualcuno: — Sì, sì, è proprio quello ch’io voglio — aveva detto con voce chiarissima e calma.
Egli corse a prendere la candela e ritornò. Amalia era sola. Sognava. Giaceva supina, uno dei bracci esili denudato piegato sotto il capo, l’altro steso sulla coperta grigia lungo il corpo. La mano cerea era incantevole sulla coperta grigia. Non appena la sua faccia fu tocca dalla luce, ella tacque, il suo respiro divenne più affannoso; fece più volte il tentativo di lasciare quella posizione divenutale incresciosa.
Egli riportò il lume nella propria stanza e s’accinse a coricarsi. I suoi pensieri avevano presa finalmente una nuova direzione. Povera Amalia! Neppure per lei la vita doveva essere troppo lieta. Il sogno che, a quanto potevasi arguire dalla voce, doveva essere lieto, non era altro che la naturale reazione alla triste realtà.
Poco dopo, quelle stesse parole, calme, quasi sillabate, echeggiarono di nuovo nella stanza vicina. Seminudo tornò alla porta. Un certo nesso non v’era fra le singole parole, ma (come dubitarne?) ella parlava con persona che amava molto. Nel suono e nel senso v’era una grande dolcezza, una grande condiscendenza. Per la seconda volta ella disse che l’altra persona — quella cui ella immaginava di parlare — aveva indovinati i suoi desideri: — È proprio così che faremo? Non lo speravo! — Poi un intervallo, interrotto però da suoni indistinti, per cui si capiva che il sogno continuava sempre, e di nuovo altre parole ch’esprimevano sempre lo stesso concetto. Lungamente egli stette là ad origliare. Quando stava per ritirarsi una frase completa lo fermò: — In viaggio di nozze tutto è permesso.
Disgraziata! Ella sognava nozze. Egli si vergognò di sorprendere a quel modo i segreti della sorella e chiuse la porta. Avrebbe dimenticato di aver udite quelle parole. Mai la sorella avrebbe dovuto sospettare ch’egli sapesse qualche cosa di quei suoi sogni.
Coricatosi non tornò col pensiero ad Angiolina. Lungamente stette a sentire le parole che gli pervenivano attutite, calme e dolci dall’altra stanza. Stanco, la mente chiusa a qualunque emozione, egli si sentì quasi felice. Rotta la relazione con Angiolina egli si sarebbe potuto dedicare interamente alla sorella. Sarebbe vissuto al dovere.