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III.


Ti scrivo di giorno all’ombra dell’antico padiglione e all’aria aperta, nel giardino ora tutto intralciato e spinoso, che sta innanzi al padiglione ed è protetto da balaustri spezzati e da pilastri, su cui piantano de’ mozziconi di Ercoli, di Diane e di Veneri! La roccia scende a perpendicolo dietro il palazzo, del quale da questa altura si dominano i tetti vicini; più giù, a sinistra, si vede la piazza del paese, e più giù ancora il ponte ed una lunga e sinuosa striscia di fiume.

È un’afa, che non si può respirare. Me ne sto qui da un pezzo a guardare le montagne ed il cielo. Le curve ripide e rotte del monte di San Gottardo alla destra e dell’altro, che gli sorge di contro, pare si tocchino a’ piedi, tanto è stretta la spaccatura del Chiese. In mezzo a quelle due chine brulle d’un colore cupo rossastro si vede quasi orizzontalmente il dorso celestino di un monte lontanissimo. Le nubi s’erano squarciate e, sul largo campo azzurro, da quell’angolo basso saliva saliva una nuvola bianca, illuminata dal sole. Prima sembrò una corona d’argento posta sul culmine del monte lontano; poi si espanse, invase una gran parte del cielo. Pigliò figura di un toro immane, che si avanzasse con la sua testa cornuta. Le corna venivano sino alla metà della vòlta celeste; una gamba poggiava sopra uno dei monti, l’altra sull’altro. Poi, in un minuto, il toro mutò apparenza: la testa da grossa che era si allungò, diventò il grugno di un porco, le corna si accorciarono in orecchie, le gambe si restrinsero a zampini, e la figura, che prima era maestosa, diventò grottesca. Poi la nuvola grande si sciolse in diverse nuvolette candide: qua e là de’ gruppi di punti argentei si raccoglievano come in tanti palloncini aereostatici, i quali vagavano un pezzo innanzi di ridursi al nulla. L’aria è restata d’un celeste purissimo, su cui le due montagne vicine tagliano scure, e l’ultimo monte appena stacca in quasi impercettibile sfumatura. Intanto il Chiese, ingrossato dalle ultime piogge, mugghia più iracondo che mai. Le case, brune, ancora bagnate, hanno de’ bizzarri scintillamenti, e gli alberi sono lustri. Giù nelle strade fangose le capre passano, accompagnate da fanciulli, che portano sul capo immense frasche fronzute di castagno o di quercia, sotto alle quali restano curvati e nascosti. Son piante che camminano; e quando diciotto o venti di quei ragazzi scendono così dai sentieri delle montagne l’un dietro all’altro, pare che un pezzo di bosco si muova, e si pensa — non mi rammento bene, ma qualcosa mi resta nella memoria di spaventoso — a quel re, a cui, dopo la profezia di certe orribili streghe, venne incontro così una foresta minacciante e vendicatrice.

Dalla parte di San Gottardo sai che si va a Bagolino, costeggiando il melanconico Lago d’Idro, passando dalle mura merlate della Rocca d’Anfo e camminando un pezzo sulla stupenda strada, che lascia ben basso il Caffaro, e dai parapetti della quale si vedono i precipizii vertiginosi, dove nella cupezza del fondo le acque del torrente, col rimbalzare da un masso all’altro, col piombare in cascate, col frangersi alle roccie, mostrano il luccichìo della loro spuma. In quelle orridezze si rovesciano spesso uomini e cavalli e, senza che la loro caduta mandi il più lieve romore, vanno a seppellirsi nella gran fossa del monte. La via bellissima è sparsa di panporcini e di croci.

O quante volte son passato su quella strada cantando, con il mio fucile a pietra sulla spalla, la fiaschetta piena di polvere, la ventriera fasciata alla vita e ben provvista di palle e pallini, e la carniera ad armacollo! Avevo con me Lampo e Bigio, oppure Livia e Toti. Non c’è una svolta ch’io non ricordi, nè una cappelletta, nè una pietra migliaria. A Nozza, avendo pigliato una scorciatoia, trovai sul viottolo rasente al Chiese due vipere, ed una ne uccisi coi tacchi de’ miei grossi stivali. A Vestone il povero Lampo ebbe un formidabile calcio da un ciuco, e continuò poi a guaire tutta la giornata. Ad Anfo c’era un’ostessa gobbetta e zoppa, la quale mi dava il vino bianco e le tinche fritte. Facevo centro a Bagolino, ma poi, partendo all’alba e spesso non tornando la sera, correvo lontano a cacciare i camosci sulle balze e le starne nei boschi.

La prima volta che salii solo alla cittaduzza alpestre, e avevo allora, che ero giovane, un’aria baldanzosa ed una gran barba nera, un vecchietto mi venne incontro e, togliendosi rispettosamente il cappello e sorridendo con malizia, mi fece segno di seguirlo. Dopo avermi condotto, senz’aprir bocca, un trecento passi all’in su e all’in giù per quelle viuzze sudicie e strette, il vecchietto si ferma e alzando il braccio mi mostra coll’indice una lapide antica infissa nella rovinosa muraglia di una casa. Vi leggo a stento questi bei versi:

Oggi non è il tempo
Nè la stagione
Di stare in questo loco
Chi non sta a ragione.

Prima che avessi agio di pigliarmela col sardonico vecchietto e chiedergli la causa della sua minaccia, egli se l’era prudentemente svignata. Lo cercai tutt’in giro senza poterlo trovare.

Desinai all’osteria del Pavone, e poi, essendo domenica e non avendo sentito messa, m’arrampicai sulle interminabili gradinate della chiesa ed entrai a pregare. Il sole mandava i suoi raggi quasi orizzontalmente dalle finestre della facciata sino all’altar maggiore, gettando su questo la luce infiammata del tramonto e facendo scintillare la custodia dorata del ciborio. La chiesa era deserta. Solo si sentiva un leggiero picchio a intervalli regolari ora di qua ora di là. Una vecchia, tanto curva che il suo mento giungeva appena all’altezza delle panche, passava abbastanza lesta da un altare all’altro, mettendo innanzi ad ogni passo il suo bastoncino, su cui poggiava il peso del corpo cadente. Mentre uscivo, ell’era accanto alla pila dell’acqua santa, le diedi qualche soldo: mi ringraziò tremolando.

Il sole scendeva in quel punto dietro le montagne. Non sapendo come passare il tempo, mi posi a sedere sul parapetto del portico e guardai intorno le chine verdi; ma nell’abbassare lo sguardo, sopra un quadratello di marmo bianco, incassato nelle lastre scure del pavimento, mi parve di vedere il nome della nostra famiglia. Sentii punzecchiarmi dalla curiosità e guardai bene. Potei leggere, oltre al casato, Don Antonio, e l’anno MDCCLXX; ma il testo, tra l’essere logoro dallo stropiccìo de’ piedi e l’essere scritto in latino, non mi entrava nel cervello. Stavo così lambiccandomi da dieci minuti, quand’odo dietro di me una voce fessa e biascicante, la quale brontola, come se ripetesse una lezione imparata a memoria: “Sul sagrato di questa chiesa Don Antonio, maestro di virtù, fece ardere in benefica pira gli strumenti del peccato, e scacciò il Demonio muto dal cuore dei penitenti”. Non capii nulla neanche nella traduzione, e, vincendo il ribrezzo che la vecchia mi metteva addosso, le chiesi s’ella poteva spiegarmi il mistero dell’epigrafe.

Mi pigliò per il braccio con la sua mano adunca, che pareva un artiglio, e mi trascinò sul piazzale, nel mezzo, tra il portico della chiesa e le gradinate della roccia, le quali scendono al paese; poi, sempre tenendosi al mio braccio, fece il segno con la punta del suo bastoncino di un largo circolo intorno a noi, e disse:

— Qui, proprio qui. Era un gran fuoco. Pareva un incendio. I ragazzi avevano portato le fascine secche; gli uomini avevano accomodato le legne in una immensa catasta; le donne con le mani giunte, inginocchiate, pregavano. Poi una si alza e, togliendosi i pendenti dalle orecchie, li getta nelle fiamme; e, dopo questa, tutte, ad una ad una, o un monile, o un braccialetto, od uno spillone, o quel che hanno di prezioso e di bello gettano nel fuoco. Le litanie si sollevano al cielo: lo scoppiettare e lo stridere del rogo pare un inferno. Si avanzano gli uomini come spiritati. È notte, e le fiamme, tingendo la chiesa e le case di un rosso sanguigno, dànno ai devoti l’aspetto di demonii. Ecco che volano sul fuoco mandolini, flauti, tamburini, tiorbe. Due alzano una spinetta, e giù sulle brace. Quante chitarre! Una, fra le altre, di avorio, di ebano, d’oro, di perle! Che bellezza!... —

Mi sentii serrare il braccio più forte. La vecchia s’era interrotta, tremava in tutte le membra, e sulle guance grinzose e terrose sgocciolava qualche lagrima. Si percuoteva il petto col pomo del bastoncino. Durò un pezzo a rimettersi, e poi alzò sopra di me gli occhi così stravolti, che ne ebbi paura. Certo, era matta. Continuò, facendo da sè sola dieci passi indietro e picchiando tre volte col bastoncino in terra:

— Qui stava il Santo, immobile, maestoso. Guardava in alto. Qualche volta faceva un gesto con la mano, e allora quelli che gli erano vicini gridavano: Silenzio. E tutti tacevano, e si sentiva, accompagnata dal romore della legna ardente, la voce di lui, che gridava: “Distruggete, fratelli, disperdete gli strumenti del vizio. Quegl’infami oggetti sono del diavolo. Regalateli a me, ch’io li dono a Dio. Non più balli, non più suoni, non più gioielli. Via gli eccitamenti alla corruzione, le tentazioni al peccato. Vivete, pensando solamente alla morte ed al cielo.„ E di quando in quando si sentiva la stessa voce, che dominava il turbinoso frastuono del popolo, ripetere: “Distruggete, fratelli, disperdete gli strumenti del vizio.„ —

Mi sembrò che i pochi capelli bianchi della vecchia le si rizzassero sul cranio. Dopo una pausa ripigliò:

— Io era giovane allora, bella, sana, ricca, empia. Mi scaldavo le mani alla catasta e ridevo. —

Puoi pensare, nipote mio, se queste parole della strega avevano solleticato la mia voglia di sapere ogni cosa, e se io la tempestassi d’interrogazioni. Ma ella non rispondeva più niente. Pareva che fantasticasse a qualcosa di là dal mondo. Finalmente, infastidita dalla mia insistenza, mi chiese con ira: — Chi è lei che m’interroga? Che cosa importa a lei di queste storie di mezzo secolo addietro? Non può lasciarmi quieta nelle mie memorie e ne’ miei rimorsi? —

Cercai di placarla, e per iscusare la importunità le dissi il mio casato e ch’io ero pronipote del Beato Antonio.

— Nipote! — gridò, spalancando gli occhi cisposi.

— Figlio del figlio d’un suo fratello.

— Figlio del figlio d’un suo fratello — mormorava la vecchia fra le gengive, come se studiasse questo grado di parentela.

Mi guardò nel volto con attenzione minutissima, e invasa da una crescente contentezza: — È lui — esclamò — lui stesso. Ecco il naso aquilino, il fronte alto, le labbra sottili, le folte sopracciglia, gli occhi neri. È lui, lui, proprio lui! —

Nel sottopormi a questo esame la vecchia decrepita s’accostava al mio viso, vicino vicino, giacchè il crepuscolo cominciava a imbrunire. Sentivo l’acre respiro di quel cadavere ischeletrito.

— Lo stesso sguardo — continuava — e la stessa voce! È lui, proprio lui. — E intanto si faceva il segno della croce, e mi baciava il lembo della cacciatora.

— Avrei dato — ripigliò — tutta la poca vita che mi resta per trovare un discendente del Santo. Ora posso morire in pace. Restituirò al nipote ciò che ho rubato all’avo. Venga con me fino al mio casolare, là sulla montagna. Non c’è tempo da perdere. Potrei morire da un momento all’altro — e s’incamminò.

Già cominciava a far buio. Il cielo, che s’era tornato a coprire di nubi, diventava nero. Scendemmo dietro la chiesa un centinaio di passi; poi, entrati in una viuzza, si principiò a salire. La vecchia ansava. La strada era formata di sassi puntuti e sconnessi, con pozzanghere ad ogni tratto e qualche torrentello. Incespicavo negli sterpi. Dei tronchi d’albero disseccati sbarravano il sentiero. Udivo de’ fruscii: vidi la coda di un lungo serpe nero guizzare in una buca. La vecchia andava a piccoli sbalzi, picchiando sempre con il suo bastoncino, e voltandosi indietro a guardarmi. Ad una svolta si fermò e si mise a sedere in terra. Sembrava una pallottola.

— Ero dunque giovane — disse — e bella. Avevo sposato Angelo il Moro, il sicario. Egli viaggiava per le sue faccende, e quando tornava, dopo tre o quattro mesi, mi portava tanto oro, ch’io duravo fatica a spenderlo tutto in vesti, in balli, in orgie. Angelo mi regalava i gioielli rapiti alle dame. Una volta mi portò una chitarra, una maraviglia, rubata a una duchessa di Milano. Io, che mi divertivo a suonare quello strumento, ne fui beata; ma l’amante mio, che amavo ancora più della chitarra, me la chiese, e gliela diedi. L’infame mi tradì poco dopo. —

Da quel fagotto schiacciato al suolo continuava a uscire una voce rauca: — Ero alta di corpo, snella; avevo gli occhi bruni ed i capelli biondi. Ballavo dal tramonto all’alba, nuotavo nel lago d’Idro, facevo all’amore. Una sera, sentendo che il Beato Antonio, di cui parlavano le valli e i monti, ma che io non avevo ancora veduto, ordinava di bruciare gli strumenti da musica e gli ornamenti delle donne, volli goder lo spettacolo. Alcuni de’ miei corteggiatori s’erano convertiti alla fede del Santo, altri non si attentarono ad accompagnarmi, uno solo venne con me travestito per non farsi conoscere. Quella sera sentivo dentro un diavolo: ero ubbriaca di peccato. A un tratto vidi il mio amante traditore accanto a me, il quale stava per gettare nel fuoco la mia chitarra. Sentii ribollirmi il sangue. Nel baccano e nella confusione, appena la chitarra fu sul rogo, io, al rischio di bruciarmi le vesti, mi scagliai sulle fiamme e la trassi fuori intatta. Qualche giorno appresso Angelo fu appiccato in Brescia. Mi ammalai: restai povera e sola. —

La megera si alzò, e continuò il cammino. Era notte scura; non vedevo dove mettessi i piedi; sdrucciolavo; tre o quattro volte fui lì lì per cadere. Il nome del Moro mi rammentava i raccapricci d’infanzia, quando il mio vecchio servo Giovanni raccontava le prodezze del famoso assassino, il quale, per esperimentare la curiosità d’una sua fidanzata, le aveva lasciato in deposito un paniere coperto di foglie fresche, proibendole di guardarvi dentro, e dopo un’ora torna e trova la ragazza in deliquio, perchè ella aveva trovato nel paniere una testa d’uomo tagliata.

La vecchia continuava interrottamente, fermandosi ad ogni venti passi: — Mi nacque a poco a poco nel cuore una cosa nuova, il rimorso. Entrai qualche volta in chiesa; ascoltai qualche messa. Passato un anno, tornò a Bagolino il Beato Antonio. M’acconciai per il primo sermone accanto al pulpito, e vidi il Santo pallido, smunto, salire faticosamente i gradini. Annunziò con voce fioca l’argomento della predica: Il Demonio muto. La sua parola era lenta, quasi stentata, ma tanto semplice, tanto chiara, che nasceva negli ascoltatori una certa maraviglia di non avere pensato prima da sè a così naturali discorsi. “Nell’animo nostro (egli diceva) noi nascondiamo quasi sempre, spesso senza volerlo, qualche volta senza saperlo, la memoria o il desiderio di un peccato. Come non lo confessiamo al prete, così non lo confessiamo a noi stessi. E pure quel punto, quella piccola ulcera venefica un po’ alla volta s’allarga, si estende e incancrenisce via via l’anima intera. Ci credevamo giusti, ci troviamo iniqui.„ E il Santo veniva agli esempii: la moglie, che dal grato ricordo di una stretta di mano scivola alla infedeltà; il negoziante, che dalla prima menzogna sul prezzo di una merce scende al fallimento bugiardo; il servo, che ruba prima un soldo sulla spesa, e poi, vedendo come la padrona non se n’accorge, ne ruba due, dieci, venti, e finisce col rubare nella borsa e nello scrigno; il giovinotto, che dal primo stravizio precipita all’ubbriachezza: e così per ognuno quasi degli ascoltatori c’era una parola che lo toccava dentro.

“Nella più remota e angusta cameretta del cuore alloggia il Demonio muto. Egli se ne sta lì accovacciato, arrotolato, silenzioso; ma poi, quando gli pare che l’uomo sia più distratto o più fiacco, stende le membra, s’adagia, s’impadronisce di una stanza, dell’altra, e riesce ad occupare tutta quanta la casa della nostra coscienza. La nostra coscienza diventa allora un inferno. Tutto sta dunque nel guardarci dentro e nel trovare il nostro mortale nemico, quand’egli è ancora quasi impercettibile: tutto sta nel cacciare via subito il piccolo Demonio muto.„ Ma il Santo cangiava voce. Da dolce e insinuante ch’era in principio, diventava aspra, violenta, terribile. Parlava sul Demonio muto delle coscienze già infami: delle donne empie, degli uomini perversi, che occultano un peccato obbrobrioso. Terminò tuonando, sicchè la chiesa rimbombava: “Furti, assassinii, inganni, sacrilegii, lordure d’ogni specie, venite fuori dal petto di voi che m’ascoltate, entrate nelle mie orecchie; e salga il vostro rimorso e il vostro pentimento a Dio. Dio è misericordioso!„ Il popolo si gettava per terra e, piangendo, gridava: — Pietà, pietà! —

La vecchia, già stanca, sedeva nel mezzo della strada, e ormai l’oscurità era così fitta, ch’io appena distinguevo il corpiciattolo bruno. Sembrava che la voce uscisse da sotto terra. Cominciai a sentirmi de’ brividi nelle membra, poichè tirava un vento fresco, il quale faceva stormire le foglie e produceva dei fischi e come degli ululati lamentevoli e strani. Neanche un lume lontano; neanche una stella. Il suono fesso delle parole della vecchia che ricominciava:

— Uscii dalla chiesa, convertita e spaventata. Tornai a casa correndo. Mi prese una febbre, che per dieci giorni tenne il mio corpo in orridi vaneggiamenti. Non ero guarita, quando una mattina scappai dal sito dove abitavo, distante un’ora, e, portando con me la chitarra, che avevo rubata al rogo del Santo, andai a Bagolino per confessarmi. Il Beato Antonio era già andato a Gardone, assai malato anch’esso, quasi morente. Presi una carrettella, e, sempre col mio strumento maledetto, partii. Il giorno appresso ero in val Trompia, a Gardone. Corsi tosto alla chiesa, e la vidi tutta parata di nero, tutta a ceri ardenti. L’infinito popolo singhiozzava e pregava; i sacerdoti cantavano a morto. Nel mezzo, sopra un immenso catafalco, seduto in un trono maestoso, vestito degli abiti sacri, col calice in mano, stava il Santo, più livido che mai. Era immobile. Aveva gli occhi aperti e fissi. Pareva che guardasse. Il cadavere, certo, mi malediva. —

La vecchia riprese a camminare assai lenta. Io le andavo dietro senza vedere più nulla.

— Siamo lontani? — le domandai.

Non rispose. Si continuò a salire la montagna. La vecchia era diventata taciturna, ma sentivo sempre il picchio del suo bastoncino sui sassi. Finalmente si giunse dinanzi ad un casolare. La vecchia spinse l’uscio ed entrò. Cercò qualcosa, e poi, battendo con l’acciarino, fece uscire dalla pietra qualche scintilla; accese l’esca e un lumino, il quale rischiarava assai male la miserabile stanza.

Un po’ di strame in un angolo, una panca, una ciotola; il tetto nascosto dai ragnateli; il pavimento di mota lubrica; i muri di sassi tutti sconnessi e cadenti.

La strega, gettandosi per terra, levò le foglie muffite del suo giaciglio e cominciò a raschiare con le unghie il terreno. Dopo un quarto d’ora mi fece segno di accostarmele, e vidi il coperchio di una cassa; aiutai la vecchia a levarlo, ed apparve la famosa chitarra con le sue corde spezzate. Alla luce del lumino fumoso le perle sembravano scintillette scialbe e l’argento del piccolo Apollo brillava appena. La vecchia mi porse lo strumento con un sorriso che le contorceva la bocca, e disse tra sè:

— Morirò più quieta. —

Salutai la povera donna, ed uscii dal casolare, dove il tanfo cominciava a nausearmi. Solo, nelle tenebre più nere, con la chitarra sotto il braccio e senza rammentarmi il cammino, puoi pensare, nipote mio, se mi sentissi lieto. Mi guidarono le punte dei grossi sassi della via, martoriandomi i piedi. Dio volendo, a mezzanotte bussai alla porta dell’Albergo, dove tutti dormivano; e, andato a letto, sognai tutta notte lemuri, fantasmi, diavoli, megere e streghe.

Sei mesi dopo tornai a Bagolino per le mie caccie, e volli andare a salutar la mia vecchia. Trovai con grande stento il casolare. Era deserto. Domandai notizie di essa ai contadini della montagna ed allo scaccino della chiesa. Era sparita da un pezzo, proprio come una strega. Nessuno ne ha saputo più nulla.


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