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IV.
Oggi è stata una magnifica festa, di quelle che lasciano il cuore più sereno e più alto. Si cominciò ier sera con i fuochi sulle montagne. Tu avessi visto com’era bello quell’improvviso accendersi, quell’alternarsi di qua, di là, delle fiamme d’allegria, alla distanza di più miglia, dall’una e dall’altra parte della valle; e come pareva che le cime dei monti si rispondessero nel gaio linguaggio di fuoco! Le campane suonavano ora a distesa, ora a rapidi rintocchi, ed ora con una certa ingenua pretensione d’imitare qualche arietta popolare, senza colpa del campanaro se tre note su sette dovevano restar nel battaglio.
Verso le otto, che era ben buio, andai con la mia Menica nel mezzo del ponte, a godermi per una mezz’oretta questo spettacolo; e il Chiese, riflettendo i fuochi delle alture, pareva se la godesse anche lui.
Stamane poi all’alba è stato un scoppio di gioia. Mortaletti da tutte le parti, come cannonate d’una finta battaglia; la banda musicale di Salò, che soffiava e batteva a tutto andare; il popolo, che riempiva le piazze e le vie, ilare, chiassoso, vestito da festa, con fazzoletti da collo e scialli d’un rosso scarlatto.
M’è venuto il ghiribizzo di andare incontro anch’io al nuovo Curato, che faceva il suo ingresso trionfale. Appena mi ha visto è sceso dalla carrozzetta, dove stava con il Sindaco. Ha voluto per forza che mi appoggiassi al suo braccio, e così a piedi siamo andati insieme fino al piazzale della chiesa, in mezzo a due fitte ale di popolo, che salutava rispettosamente. Il curato rispondeva ai saluti con pronta affabilità. Ha i bei capelli folti tutti d’argento, che gli circondano il capo come un’aureola; gli occhi azzurri limpidi, d’una soavità da fanciulla; i denti bianchissimi e perfetti. Veste pulito, quasi accurato. Parla con una dolcezza semplice, profonda, affettuosa, che affascina. È, dicono, il più virtuoso prete della diocesi di Brescia: dà tutto ai poveri: mangia polenta, cacio, latte soltanto; ma nasconde la sua carità e la sua povertà volontaria sotto un aspetto di persona studiosa e gentile. Mi ha detto: — So ch’ella, signor Carlo, è il più vecchio e più savio uomo di questi monti. Permetterà ch’io venga a discorrere spesso con lei e che mi chiami suo amico. Il maestro di scuola si è avanzato per leggere, balbettando, la sua poesia; una fanciulletta dell’Asilo ha recitato lesta il suo discorsino; i preti della Parrocchia hanno presentato al nuovo pastore, con una lunga orazione latina, le chiavi della chiesa, portate sopra un cuscino di seta bianca a frangie ed a nappe d’oro. Ed è cominciata la processione: stendardi rossi con la Madonna dipinta in mezzo, banderuole, croci, torchi, baldacchini; fanciulle inghirlandate di fiori e tutte vestite di bianco, le quali portavano in mano con gran compunzione quale un Agnello di carta, quale un Bambino Gesù in fasce, quale una Vergine incoronata; ragazzi con mitrie o con turbanti, e dietro una coda interminabile di donne e d’uomini, la quale, vista un poco dall’alto, sembrava tutta d’un pezzo, e pareva che così lunga lunga si muovesse flessuosamente secondo l’avvallarsi, il girare o il rialzarsi della strada.
A stare accanto alla chiesa e appartati, come abbiamo fatto la mia buona Menica ed io, che siamo troppo vecchi per cacciarci nella folla, si sentiva l’organo suonare un’allegra marcia con tutti i pedali e campanelli e tamburi e piatti, poi le campane suonavano sul nostro capo, poi scoppiavano i mortaletti, che era un frastuono da diventare sordi; ma quando per caso, in certi momenti, tutti questi romori cessavano, s’udiva, già lontano, il salmeggiare basso dei sacerdoti della processione e l’armonia vaga, lunga, angelica della risposta delle donne.
*
La vecchiaia è orrenda. Non ci sono lagrime negli occhi, non ci sono singhiozzi nel petto. La disperazione non si espande nella pietà degli altri, non si getta al di fuori con le parole, con i gesti, con le grida. Lo strazio è solitario. Si guarda al proprio dolore tranquilli, con le ciglia asciutte. È una calma bieca; è una freddezza spaventosa. Par di uscire da se stessi, e di aggirarsi nel nulla. Non si pensa, non si sente: si vive in una tomba.
La mia Menica è morta.
Dieci giorni sono, mercoledì sera, si sentiva un po’ stanca, e s’addormentò, come al solito, nella sua poltrona. Io leggevo. Tutt’a un tratto, il micio nero sbalza in terra e miagola come impaurito. Non gli bado. Alle dieci mi alzo, e mormoro nell’orecchio della Menica: — Mia buona, è l’ora di andare a letto. —
Non risponde. Le metto, così per giuoco, le due mani sul fronte. Lo sento di ghiaccio. Era morta.
Beata lei, che è morta com’era vissuta, nella sua santa placidezza!
*
La casa è deserta, le montagne sono bianche di neve, e gela. A desinare, così solo, non mangio più. La sera non c’è nessuno che mi dia con affetto la buona notte, e la mattina mi vesto nella camera vuota, intristito dal silenzio fatale. La ragazza, che mi serve da pochi mesi, mi guarda con occhio indifferente, annoiato. Pensa forse che i vecchi stanno meglio nella bara. Ha ragione.
Ho un solo conforto, il Curato. È un santo uomo. Parliamo di religione, e la mia vecchia fede si ravviva. Ieri mi diceva: — Signor Carlo, si prepari alla felicità del Paradiso. Si stacchi dalle cose di questa terra. Pensi a Dio. —
Non ho rimorsi, eppure un certo stringimento di cuore mi dice forse che c’è una macchia nella mia vita. Quando sono seduto al fuoco nell’interno del gran camino della sala, e vedo sulla parete di contro il ritratto del Beato Antonio, smorto, severo, minaccioso, mi sembra ch’egli apra le labbra ed alzi la mano per rimproverarmi qualcosa. Che cosa? Non ho mai fatto male apposta a nessuno. Ho amato i miei genitori, i miei parenti, la mia Menica. Ho seguito la dottrina e i riti della Chiesa. E non ostante, gli occhi dipinti del ritratto di Don Antonio, che sono vivi, mi scrutano dentro nelle viscere, mi strappano fuori un non so che dall’anima. È uno scavo nella coscienza. Forse il mio Demonio muto.
Chi lo sa? Forse quell’oggetto di profano piacere, che io vagheggiavo, e che può avermi distolto spesso dalla contemplazione di Dio! Sì, quel maledetto strumento, rubato da un sicario e destinato al rogo, poi di nuovo rubato da una femmina iniqua.
Certo, a quello sguardo, che scintilla fuor della tela, ci deve essere una profonda cagione. Don Antonio, bisogna ch’io ti plachi.
Interrogai il Curato. Perdonami, nipote mio: ho già provvisto a te nel codicillo del testamento, ma ritiro il dono, che ti avevo fatto. Il buon prete mi consiglia di distruggere quella mia vecchia gioia mondana, che oggi mi è occasione di rimorsi e di paure.
*
Ieri sera nevicava, tirava vento, si sentivano certe voci lugubri a tutte le finestre ed a tutti gli usci. Non avevo dormito da una settimana. Andai nella cappella a staccar la chitarra e la portai nella sala. Al lume del fuoco le perlette e l’oro brillavano, e la figuretta di Apollo sorrideva. Il demonio mi tentò e toccai le corde. Un suono rauco e terribile uscì dallo strumento scordato. Allora feci aggiungere molta legna sul fuoco, e quando la vampa toccò la cappa altissima del camino, fatto un supremo sforzo, gettai la chitarra sul rogo, seguendola attentamente con gli occhi. Le corde si contorsero come serpi, mandando un sibilo di dolore; il legno sottile della cassa armonica diventò nero, si spaccò in più luoghi, e, senza infiammarsi, si ridusse a carbone; le perlette sparirono; il manico durò un gran pezzo a bruciare, e le figurette della caccia, staccandosi ad una ad una, caddero nelle brace. Chiamai la serva, che gettasse dell’altra legna sul fuoco.
Tutto fu consumato. Nell’uscire dalla sala, passando innanzi al ritratto di Don Antonio, mentre le ultime brace ardenti lo irradiavano di una luce oscillante e sanguigna, credetti che lo sguardo del Santo mi seguisse ancora tenace, torvo, implacabile. Gelai tutto e svenni.
Mando un addio a te, a tua sorella ed ai suoi figliuoli; e mi dolgo che siate troppo lontani, perch’io vi possa vedere mai più.
Sono alzato e ti scrivo dal tavolino; ma sento dentro di me come un presentimento felice. Ho chiamato per questa sera il mio buon Curato. Mi confesserà e mi darà l’olio santo.