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IV.


La camera, assai grande, era posta in un angolo dell’immenso edificio; aveva due finestre piccole, dalle quali si vedeva giù nella notte una zona biancastra e poi uno spazio nero, che si confondeva con le tenebre fitte del cielo. Continuava a nevicare, e tirava vento. Il letto alto e larghissimo aveva l’ampio padiglione di damasco cremisi a fiorami gialli, con quattro angioletti dorati sulle aste torte; la coperta, che scendeva sino a terra, era di raso giallo con disegni verdi, orlata di pizzo bianco. Accanto al letto stava l’inginocchiatoio, e sull’inginocchiatoio spiccava dal parato del muro un crocifisso d’ebano. Una delle pareti era ornata di un quadro assai bello, che figurava un santo col bambino Gesù; nelle altre si vedevano in piccole cornici alquante riproduzioni della sacra Immagine, qua ricamata a fili di seta rossa in raso bianco, lì eseguita a bucherelli e ritagli in cartoncino, o modellata in cera tramezzo a nuvole di cherubini e a ghirlande di frutta e fiori. Nella camera reverendissima stonava la scatola di cerini, che Pasquale aveva lasciato, dove dall’una parte si vedeva un caporale, che fa la sua brava dichiarazione alla cuoca, e dall’altra una silfide molto scollacciata e sbracciata.

Mi sdraiai nel seggiolone, e m’occupai un pezzo a guardare le scintille del fuoco, che scoppiettava. Non volevo andare a letto prima che l’orologio segnasse le dodici. Nell’animo pieno di una vaga afflizione mi sentii nascere il desiderio acuto dei miei parenti, de’ miei amici, che avevo lasciato pochi giorni addietro, ma che avrei voluto vedere in quell’ora appunto, nella quale l’anno vecchio spirava e il novello vedeva la luce. Poi dicevo tra me: — Sono ubbie. Non ci ho pensato fino a questo momento, ed ora perchè ci penso? Che differenza c’è egli tra l’una e l’altra mezzanotte? Non sono forse tutti uguali i giorni dell’anno? — E non ostante provavo dentro un certo stringimento: mi pareva di essere rimasto a un tratto solo in questo mondo, e sentivo un vuoto nuovo nella mia vita, un nuovo e lacerante distacco dagli affetti mortali. Pensavo ad altre prime notti dell’anno: alle speranze, che si spingevano audaci nei campi allettatori dell’avvenire, ai rinnovamenti del cuore umano, che, pure invecchiando, crede di ringiovanirsi; e fra tutte quelle notti, ce n’era una, una, che mi tornava con tenace insistenza nella memoria, come il ricordo straziante d’una gran gioia irremissibilmente perduta.

Il minuto in cui un anno si connette ad un altro è una pietra miliare nell’esistenza dell’uomo, o è la cifra d’un numero, che si muta? Guardavo la lancetta ed ascoltavo il tic tac del mio oriuolo nel silenzio profondo. Non si sentì neanche un rintocco, neanche un botto di campana in quell’ora in cui la immaginazione dei poeti e dei bambini evoca le streghe e gli spettri.

Mezzanotte era passata da un po’ di tempo, quando udii un fruscìo, come di persona che si muovesse fuori, ed un bisbiglio, come di voce che parlasse sommessa. Tesi l’orecchio: il romore continuava. Pigliai allora la candela, e, spalancando l’uscio della camera, guardai nella vasta, ricca e freddissima sala, che la precedeva.

I grandi ritratti appesi alle pareti, nel lume pallido sembravano vivi. Forse quei personaggi che, dopo visitato il Santuario, avevano mandato in larghe cornici dorate le loro gravi immagini, conversavano insieme: erano dame in abito da corte, magistrati in divisa, marescialli in uniformi, principi, due re, tre regine. La porta della sala dava sulla loggia: nella loggia, sullo scalone non c’era un’anima. — Oh sta a vedere che ho da far con gli spiriti! — brontolai fra me stesso. Rientrai nella camera risoluto a lasciare che si sbizzarrissero a loro posta, e, non avendo sonno, mi sdraiai daccapo nel seggiolone. Il fuoco s’andava spegnendo, e la candela mi lasciava quasi al buio. Buttai nel camino un fascio di legne grosse.

Ma ecco che il bisbiglio ed il fruscìo vanno crescendo, e in un angolo della camera s’apre un uscio a muro, ch’io non avevo visto, ed entra col lume in mano, parlando tra sè a frasi lente e brevi, la bella bionda.

Mi sentii pietrificare. La donna, che doveva essere ben pratica di quella stanza come dell’intiero ospizio, dove, tutto essendo affidato all’onestà e alla decenza, gli usci mancavano di serrature, andò dritta alla parete sulla quale stava appeso il quadro, e, posata innanzi ad esso, sopra un tavolino, la lampada con cui era venuta, si mise a guardarlo fissamente con quel suo occhio che trapassava gli oggetti. La tela rappresentava un santo giovane, di volto pallido, delicato, soave; aveva la barba alla nazarena, i capelli neri, lo sguardo tenero e le labbra socchiuse, come se pronunciasse flebilmente una parola d’affetto. Accanto, sopra un altare, in mezzo a festoni di allegri fiori, si vedeva il Bambino, tutto nudo, che, alzando i braccini e facendo atto di saltare, pareva volesse uscir di botto dalla cornice per gettarsi nelle braccia di chi lo stava guardando. Era roseo, era paffutello, era gaio, vispo, gentile, carezzevole: un amorino da mangiar di baci.

La bella bionda guardava ora il santo, ora il bambino. Al santo diceva:

— Ti ricordi, Giovanni, la mattina in cui ci siamo sposati? La mamma non voleva, il babbo non voleva; facevano tanti discorsi, che non capivo. Io credeva soltanto a te. Che lieta mattina! Mi stringevi la mano, e mi dicevi una parola... Ripetila, te ne scongiuro. La indovino dalla tua bocca. Eravamo in paradiso, seduti l’uno accanto all’altra sotto un baldacchino, in mezzo a un prato fiorito, e le fanciulle e i giovinetti ci venivano intorno a cantare, a suonare, a ballare; ci facevano una riverenza, e noi salivamo nel nostro trono un gradino più in su, poi un altro gradino e un altro gradino ancora: era la scala di Giacobbe. Quando fummo arrivati al più alto di tutti i cieli, mentre ti davo un bacio, una mano di ferro mi buttò giù d’un colpo, e allora precipitai dalle nuvole a capo fitto, e scendevo, scendevo sempre, e il viaggio non terminava mai. Era un sogno. Ti ho ritrovato; eppure non somigli a quello di prima. Prima mi parlavi, mi baciavi, mi stringevi fra le tue braccia; eravamo in festa tutta la settimana; ora sì, mi vuoi bene, non dico di no, ma sei tutto misteri. Vuoi che aspetti? Sempre aspettare, sempre. Domani, doman l’altro, non ti risolvi mai. T’amo tanto, che mi contento di guardarti, Giovanni, Giovanni. —

Aveva un sorriso pieno di lagrime; la sua voce insinuante, rispettosa, timida, avrebbe rammollito una rupe. Continuò a guardare e tacque per un istante; poi, mutando espressione, si volse al putto: — Bambino mio, anche tu mi dici di attendere. Domani, doman l’altro! Sei cattivo. La tua mamma t’adora, luce degli occhi miei, sangue del mio sangue, carino, diavolino mio; e tu mi stendi le manine care e ti rivolgi verso di me, ma non t’affretti a ricadere sul seno che t’ha nutrito. Non ingannarmi, monello. Dormivi in una cuna ornata di brillanti, e gli angioletti ti cantavano la ninna nanna, e le farfalle con le loro ali di tutti quanti i colori ti svolazzavano intorno; ma un dì sei scomparso, non t’ho trovato più, sparito sotto un monte di fiori, sotto un manto ricamato d’oro e d’argento, in mezzo ai ceri, ai bimbi, ai canti... Ora che sei tornato, perchè non mi balzi in grembo? Non l’ami più questo petto? — e si sbottonava dinanzi il vestito azzurro, e mostrava al figliuolo il seno ignudo, mentre la immagine dipinta del fanciullo continuava a sogguardarla e a ridere.

Un forte scoppiettìo del fuoco, che in quel silenzio da tomba sembrò un fracasso diabolico, le fece voltare il capo, e mi vide. Mi cacciai nel fondo della poltrona, cercando di farmi piccino, di schiacciarmi nella spalliera imbottita, tanto da sfuggire all’occhio tranquillo e tremendo.

Mi si avvicinò piano piano, senza curarsi di allacciare l’abito; mi porse le mani piccole e bianche, facendo segno che le dessi le mie: gliele diedi; allora ella, stringendomele, mi tirò a sè lentamente, ma vigorosamente, sicchè mi alzai ritto di contro a lei, confuso e tremante. Mi prese il capo fra le mani, e si pose ad esaminarmi.

— I tuoi capelli, — bisbigliava, — sono mutati. Mi sembrano meno neri. Ti sei fatto radere la barba — e passava le mani delicate intorno alle mie guance ed al mento. — I tuoi occhi non brillano più del loro fuoco divoratore. Ma io, Giovanni, t’amo tanto, tanto! —

Aggrottava le ciglia come se tentasse di pensare. Avvicinò le sue labbra alle mie; io mi ritrassi; ma ella, che mi stringeva sempre il capo fra le mani, trattenendomi, pose la sua sulla mia bocca. Le labbra erano di ghiaccio, e il respiro di quella larva di donna pareva un lievo soffio gelato. Mormorò: — Dimmi che mi ami. Non sono sempre la tua sposa, la tua cara, la tua bella?

Nello studiarmi di retrocedere quasi insensibilmente e nel tentare di svincolarmi da quella stretta rigida, caddi sulla poltrona. La giovine si mise a sedere sulle mie ginocchia, circondandomi il collo con il braccio sinistro, mentre con l’altra mano m’accarezzava il volto. — Senti, ho freddo, — diceva. — Vieni, vieni a scaldarmi, — e mi sussurrava nell’orecchio delle parole, ch’io non volevo intendere. Intanto il fuoco illuminava di luce rossa e oscillante quei lunghi capelli d’oro, la faccia gentile, il collo, i seni nudi e turgidi.

Sentivo offuscarmi il cervello, come se il vecchio vino bevuto alla cena mi portasse di colpo tutti i suoi fumi alla testa. Non riescivo a liberarmi dal peso e dall’abbraccio di lei, che mi fissava sempre con il suo sguardo di donna innamorata in un mondo vano di spettri, e nella quale i segni della passione terrena prendevano l’aspetto innocente e agghiacciante di una fatalità tutta inconscia. Ripeteva: — Vieni a scaldarmi, vieni, — e m’obbligava a porle una mano sul petto e a baciarla.

Dagli alari cadde sul pavimento un tizzone acceso, che rotolò fino ai piedi della donna. La sollevai di sbalzo e mi precipitai per rimettere con le molle nel focolare il legno ardente, profittando poi subito della confusione per fuggire nella gran sala attigua, senza che la giovane se n’avvedesse. Ascoltai all’uscio: non si sentiva più nulla. Dopo qualche minuto, inquieto di quello stesso silenzio, socchiudendo l’imposta, guardai nella camera. La bionda stava di nuovo immobile rimpetto al quadro, contemplandolo. Non parlava, non sorrideva. Finalmente, sottovoce, ma con accento di fiducia sublime, ripetè più volte: — Tornerò domani, tornerò domani — , e, ripreso il lume, senza guardare intorno, lenta, grave, se n’andò via dall’uscio dond’era entrata.

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