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Santuario - 4 Quattr'ore al lido


V.


Quel dolore, svanito nelle memorie e nelle speranze, mi aveva straziato l’anima. M’accorsi di essere assiderato, e andai a letto, dove, tremando dal freddo tutta la notte, non mi riuscì di chiudere occhio neanche un minuto.

Alle nove uscivo dal Santuario per arrampicarmi sul monte. Nel passare dall’atrio scansai Pasquale, che dianzi, portandomi il caffè, con la gamba destra zoppicante e col muso ingrugnato, non aveva neanche avuto la degnazione di darmi il buon giorno. Vedendomi andare in fretta, mi chiamò: — Scusi, signore, se incontrasse suor Maria la rimandi all’ospizio.

— Suor Maria, chi è?

La chiamiamo così tanto per intenderci. È la signora bionda, vestita con l’abito delle Figlie di Gesù, ch’ella vide qui ieri a sera.

— È uscita?

— Pur troppo. Non la ho trovata nè in chiesa, nè in nessun altro luogo. Un contadino dice di aver incontrato alle sette circa una Figlia di Gesù sulla strada delle cappelle. È la prima volta in tre settimane che suor Maria s’allontana così dall’ospizio. Dio voglia che non le accada una disgrazia su queste rupi, con questa neve. Lo predicavo io che lasciarla così sola e libera era un’imprudenza. — Due grosse lagrime scendevano sulle ruvide guance di Pasquale, e sospirava forte.

— Sentite, Pasquale, non ha parenti quella poveretta?

— Ha padre e madre; ma non vogliono veder la figliuola, perchè si maritò senza il loro consenso: gente cattiva, malvista da tutto il paese.

— E il marito?

— Un poco di buono. Le mangiò quel po’ di dote, e un bel giorno se ne scappò via, in America, pare, piantandola senza un soldo, con un bambino di cinque mesi.

— E il bambino?

— Tre giorni dopo fuggito il padre, morì. Allora la disgraziata.... — e Pasquale agitò due volte la mano destra innanzi alla fronte, poi continuò: — Il nostro rettore, sant’uomo, ch’era il suo confessore e non voleva fosse consegnata ai cattivi genitori, la fece venire qui, affidandola alle Figlie di Gesù. Per carità, signore, veda se può trovarla sulla china del monte, verso le cappelle. Io non mi posso muovere.

— State quieto, buon uomo, cercherò, dappertutto. Ma tornerà senza dubbio da sè.

— Dio lo voglia. Ho un brutto presentimento. —

Mi fermai fuori della cancellata un poco a studiare le orme. Cercavo quelle di due piedi piccoli, e mi parve di trovarle. La neve alta, non essendo gelata alla superficie, serbava le impronte. Scintillava come se fosse tutta cosparsa di brillantini; raddolciva gli avvallamenti del terreno, i precipizii, i burroni, ma li mascherava, e le tortuosità della viuzza erta, che, tagliata nel masso, conduceva su su alle cappelle, s’indovinava appena. Non solo aveva smesso di nevicare, ma il cielo, in gran parte sereno, con quel contrasto del bianco della terra, che abbagliava gli occhi, appariva d’un colore turchino splendido.

Camminavo seguendo le peste leggiere, le quali ora, per un buon tratto, si seguivano regolarmente, ora si smarrivano di qua o di là per rientrare poco dopo sulla linea torta della via, e nello stesso tempo guardavo in basso alla valle, alla pianura. Sulla pianura stava, immobile, una massa non interrotta, lunghissima di nubi dense, che si vedevano dall’alto al basso. Illuminate dal vivo sole parevano candide sul dorso, d’un candore argenteo, e coperte come di ondulazioni, di vette, di punte strane, che le facevano somigliare a catene di monti nevosi, e sembrava di potervi camminare sopra; ma di giù erano brune, tenebrose, fracide di folgori e di tempeste, e mettevano in un’ombra triste e nera i paeselli e i campi della vallata lontana. Sotto a quella coltre, a quella cappa plumbea doveva farci notte.

Le traccie si perdevano. A destra, dalla parte del mezzodì, il monte alzandosi a picco sopra la strada, serbava in essa la neve tanto ghiacciata, lustra, sdrucciolevole, che non si poteva reggersi in piedi. Poco appresso le pedate ricomparivano.

Giunto a’ piedi della prima cappella, m’arrampicai più lesto: guardai dentro, non v’era nessuno, ma si vedeva sul suolo il segno della neve portata di fresco dalle scarpe d’una persona, la quale era andata fino al cancello, che divide la parte destinata ai preganti dalla parte destinata alle immagini. La scena rappresentava in molte figure grandi al naturale, eseguite in terra cotta e dipinte a briosi colori, la Natività di nostro Signore; personaggi sacri e personaggi profani, animali e prospettive, tutto sembrava il vero tale e quale, un vero che stupiva e che disgustava.

Tornai a camminare con l’animo sempre più inquieto e con ansia sempre più affannata. Mi asciugavo la fronte, da cui gocciolava il sudore; sbottonavo la pelliccia; le ginocchia mi tremavano; dovetti fermarmi un istante a riprender fiato. In quel mentre si distendeva giù, dal Santuario verso il piccolo cimitero, l’accompagnamento funebre del barbiere. Innanzi alla bara, portata da quattro contadini, camminavano il sagrestano col crocifisso, il rettore, più dritto, più lungo, più magro della sera innanzi e occupato a tenere in freno le sue gambe interminabili ed impazienti, e due preti vecchi, i quali stropicciavano i piedi sulla neve, temendo di scivolare a ogni passo. Dietro alla bara venivano sei Figlie di Gesù, delle quali le voci limpide, soavemente accordate insieme, destavano gli echi lenti della montagna. Dieci o dodici persone chiudevano il breve corteo, che andava strisciando come un serpe le curve della strada stretta.

Intanto io giungevo alla seconda cappella, poi alla terza, alla quarta. Le orme si fermavano alla porta di questa ultima. Esclamai con gioia: — È salva, — e mi precipitai nell’interno dell’oratorio. Chiamavo: — Suor Maria, suor Maria. —

Tutto era sossopra. Una parte del cancello, scassinata a forza, stava rovesciata sul pavimento; le figure in terra cotta rappresentavano la Strage degli Innocenti. Tutti i bimbi erano stati strappati dalle branche dei carnefici, e deposti regolarmente l’uno accanto all’altro sul gradino del parapetto. Ai manigoldi mancavano la testa, le mani o le braccia, e codeste membra si vedevano sparse sul suolo. Erode, circondato dai grandi satrapi e dalle sue cortigiane, guardava impassibile dall’alto del trono alla bizzarra punizione dei proprii sgherri; e costoro, in attitudini furiosamente crudeli, mutilati a quel modo, apparivano anche più spaventosi, mentre le donne discinte, disperate, continuavano a trascinarsi alle loro ginocchia, implorando pietà.

Mi cacciai per entro alla confusione. Fra quelle sculture, che parevano la verità viva, fra quelle madri nel parossismo del dolore, fra quei fanciulli squartati, vidi finalmente una figura di donna stesa a terra con le mani insanguinate, con le vesti a brandelli, coi capelli biondi, ed un sorriso angelico sulle labbra bianche, e nel volto una espressione di beatitudine soprannaturale. Stringeva al petto uno dei putti di terra cotta, roseo e ricciuto. Era gelata, il suo cuore non batteva più, viveva unicamente nel suo sorriso. La coprii con la mia pelliccia, e corsi fuori per cercare aiuto.

Passava giù nella strada del cimitero, quasi a piombo, il funerale del barbiere. Mi posi a gridare con tutta la forza de’ miei polmoni: — Signor rettore, signor rettore, suor Maria è moribonda qui nella cappella; non c’è un minuto da perdere; venga, per carità, venga subito. — Il rettore diede uno sbalzo, piantò lì la bara, e principiò a salire con quelle sue gambe a pertica, saltando sulla neve, facendo passi da gigante, aiutandosi con le ginocchia, con le mani, affrontando senza esitare gli ostacoli, non curando i pericoli, volando. Quando giunse all’oratorio, la bella bionda, ch’era morta, sorrideva ancora.

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