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I.
Il prete aveva i gomiti poggiati sul davanzale; stava immobile, con lo sguardo fisso. Era la prima volta in dieci anni che vedeva dalla canonica del villaggio (il più alto villaggio del Trentino) la tempesta sotto i suoi piedi, intanto che il sole, un sole pallido, quasi intimorito, brillava sulle case del paesello e sulle cime delle montagne circostanti.
Il giovine prete, a intervalli, tossiva. Il suo collo scoperto era candido e magro; la sua bella faccia affilata in quel momento sembrava impassibile. Eppure, studiando bene i lineamenti del volto, si avrebbe potuto indovinare il di dentro: tra le narici e gli angoli delle labbra pallide nascevano due solchi dritti; la fronte alta ed aperta aveva una ruga profonda, che contrastava con la espressione dolce, quasi infantile degli occhi d’un colore celeste d’oltremare, simile a quello dell’acqua nel Lago di Garda. L’arteria del collo batteva forte; le mani delicate si stringevano febbrilmente; i capelli biondi, cacciati indietro dal vento, coprivano la chierica. E intanto le nubi si agglomeravano, s’aggomitolavano, quali onde di una burrasca fantastica. Era un lago, che, riempiendo tutta l’ampia vallata, urtava contro la corona dei monti, come se volesse rovesciarne le roccie, i boschi, i ghiacciai per inghiottire ogni cosa nel proprio fondo, nero più d’una tomba. Si vedeva quel fondo a intervalli qua e là secondo gli scherzi del turbine, quando nei flutti delle nubi s’apriva uno squarcio; e allora l’occhio piombava dentro nella valle, dove lampeggiavano i fulmini, mentre sul dorso ai mucchi bianchi dei densi vapori le saette sembravano appena scintille. Uno dei buchi tenebrosi lasciò indovinare il villaggio di Cogo; poi quel baratro si chiuse, e se n’aperse un altro di lontano, che mostrò per un istante la torre del castello di Sanna.
E il prete guardava sospirando, sempre coi pugni stretti. Sul davanzale aveva lasciato aperto il Breviario, che il vento si divertiva a scartabellare. Ma il vecchio Menico, il quale stava da un po’ di tempo borbottando dietro il curato, prese il libro con un certo suo gesto dispettoso, lo chiuse e lo depose sulla scrivania. Poi, raccogliendo le carte, che il vento aveva sparpagliate sul suolo, disse ad alta voce: — Un bel gusto davvero, pigliarsi un raffreddore! Senza niente sul capo, senza un fazzoletto al collo. — E aggiunse un po’ più basso: — La è da matto, proprio da matto. — Uscì di camera sbattendo l’imposta; ma poco dopo rientrò, andò a pigliare sul letto il calottino del padrone e, alzandosi in punta di piedi, glielo mise sulla chierica. Il prete si voltò irritato e, agguantato il calottino, lo buttò in terra dinanzi a Menico, gridando: — Ho caldo, vattene via. —
Tornò a guardare le nuvole; ma non erano scorsi due minuti che si voltò di nuovo, cercando con gli occhi Menico. Non c’era; andò in cucina, non c’era; andò nel piano superiore, una specie di soffitta mezzo aperta all’acqua ed alla neve, non c’era. Lo trovò a’ piedi della stretta e scricchiolante scala di legno, che dal piano, per così dire, nobile dell’edificio scendeva esternamente al sagrato della chiesa, dove cinque o sei contadini, ragionando sulla novità del temporale, guardavano ancora con tanto d’occhi alla valle, in cui le folgori avevano cessato di scoppiare, i lampi avevano smesso di balenare, e le nubi s’andavano via via diradando. Il prete si accostò al vecchio e, nello stendergli la mano, gli disse in modo che i contadini potessero udire: — Menico, perdonami. — Il vecchio girò il viso dall’altro lato, alzando le spalle e tenendo le mani in tasca. Era piccolo, magro, sparuto; aveva la barba meno grigia che bianca, rasa la settimana innanzi, irta come spilli, ma le folte sopracciglia, sugli occhietti piccoli, erano ancora d’un nero d’inchiostro. Il sacerdote piegò il corpo alto ed esile, e, umilmente, con voce tranquilla, dolce, ripeteva: — Menico, ti prego di scusarmi. — I contadini ridevano sotto i baffi. A un tratto il vecchio, afferrata la mano del padrone, senza lasciare a questi il tempo di ritrarla, gliela baciò più volte; e gli occhietti piccoli erano lustri di lagrime.
Il prete, ritornato nella sua camera, aveva ripreso il Breviario. Lette appena due facce, seguendo, come vuole la Chiesa, con gli occhi intenti lo scritto e pronunciando sottovoce ogni sillaba, chiuse sconfortato il volume. — Non posso — mormorò — non posso. L’Officio si deve recitare con attenzione e devozione: Officium recitandum est attente et devote... Or io sento in tutte le membra una inquietudine di cui non so capire il perchè, come se migliaia di formiche girassero e rigirassero sulla mia pelle. Cerco di fissare la mente all’un pensiero od all’altro, e la mente scappa dove le garba, compiacendosi in cento nuove immagini strane e puerili. Sarà forse l’aria, così carica oggi d’elettricità. Forse la mia consueta febbriciattola va peggiorando. — Si pose all’inginocchiatoio, davanti ad un Crocifisso allampanato. Vi stette qualche minuto con le mani giunte, il capo chino, bisbigliando preghiere: poi, alzatosi di botto, disse: — Oratio sine attentione interna non est oratio. —
In quel mentre, spalancando l’uscio, comparve il cane del curato, un bel cane da caccia, e si mise a saltellare intorno al caro padrone. Questi lo accarezzò distrattamente, e ripeteva tra sè, intanto che con il pugno serrato continuava a picchiarsi forte il petto indolenzito: — Il sacerdote dovrebb’essere sempre come il sole sereno di poco fa: dovrebbe contemplare la tempesta dall’alto, quieto, puro, intangibile. —
Entrò, senza bussare, il medico dei tre villaggi della Val Castra, bene sbarbato e vestito appuntino: — Buon giorno, signor curato. Presto, levi di dosso quella giacchetta, metta il collarino, infili la sua vesta più bella, e venga con me. Il demonio la vuole, reverendo; ma che caro demonio. M’ha detto in furia queste precise parole: “Corra subito, mio caro dottore (ha proprio detto mio caro dottore), corra subito dal signor curato; gli racconti il mio male, aggiunga che ho bisogno di sentire la voce del cielo, che sono una pecorella pronta a rientrare all’ovile„. E ripeteva: “Voglio il curato, voglio Don Giuseppe.„ —
Il prete diventò bianco e grave. — È in pericolo di morte? — chiese.
Il dottore uscì in uno scoppio di riso: — Ci vuol sotterrare tutti, reverendo. È uno scherzo di nervi: roba di donne galanti. Non ho potuto neanche toccarle il polso. Mi ha cacciato qui senza lasciarmi tempo di fiatare: e noti che venivo dritto, sotto le nubi e i fulmini, da Ledizzo, e sull’asino. Manco male che avevo l’ombrello e il pastrano. Insomma, Don Giuseppe, si va o non si va?
— Non vengo, — rispose il prete, a cui la fronte e le gote erano diventate rosse infiammate; e, alzando i pugni, con voce da far tremare le muraglie, soggiunse: — Quella donna e i suoi drudi sono l’infamia, e saranno l’ultima rovina di questa valle. Dio li maledica!
Il dottore, scandolezzato, guardò l’altro negli occhi, mormorando: — Signor curato, la carità cristiana!
— La carità cristiana? Io mangio polenta e cacio, qualche volta un po’ di carne di maiale, mentre il mio corpo fragile, estenuato, roso, com’ella sa, dottore, da una malattia che aspetta ma non risparmia, avrebbe bisogno d’altri sostentamenti. Io vivo in mezzo al sudiciume di questo paese, alle miserie di questi montanari, a’ quali ho dato quel poco che ho guadagnato in dieci anni. La sera negli otto mesi d’inverno mi faccio piccolo per insegnare ai bimbi del villaggio; non c’è fanciullo o ragazza dai sette anni in su che non sappia leggere e scrivere e distinguere il bene dal male. Al vescovo, che mi voleva parroco nella pianura, ho risposto: “Monsignore, amo oramai la solitudine e la neve, le privazioni e l’ingratitudine„. Amo infatti queste grandezze della natura selvaggia, nelle quali il mio corpo è rimasto puro e sono vissuto fino ad ora in una cara povertà di spirito. Ho dovuto abbandonare da un po’ di tempo il mio più vivo conforto mondano, la caccia, e rinunciare alle lunghe passeggiate solitarie su per i dorsi dei monti. La mia pelle già ruvida e bruna — e il prete guardava pietosamente le proprie mani — è diventata morbida e bianca, come quella di una donna galante. Dicono che, così magro e così smorto, sembro ringiovanito: ho trent’anni e ne mostro venti: torno fanciullo. Chi mi ridà la salute e la forza? — Il dottore sorrise, e il prete continuò: — Un giorno a Trento il vicario del vescovo mi disse con ironia: “Ella, reverendo, è un montanaro d’Arcadia.„ I miei parrocchiani, salvo pochi, mi guardano di traverso. La carità cristiana! Ecco che in questo paese, il più alto e il più povero del Trentino, dove gli uomini sono attivi, sobrii, leali, e le donne non hanno altra bellezza che la loro virtù, viene a piantarsi una masnada di truffatori e sgualdrine. Inventano delle miniere; gridano a tutti i venti che nel nostro suolo la natura ha deposto i suoi tesori di ferro; le Gazzette del Tirolo, della Germania, sono piene di annunzii e di lodi sulla famosa Compagnia siderurgica della valle di Castra; cinquemila azioni da cinquecento lire ciascuna, interessi, dividendi, almeno il cento per cento! Troveranno i gonzi, intascheranno i milioni, una parte almeno, e scapperanno, lasciando alle nostre montagne due grotte di più, due buchi. Ma intanto si pianta qui, per alcune settimane, in un palazzo improvvisato, il capo dell’impresa con la sua ganza; e servi e operai e donnacce riempiono il villaggio di scandali; s’aprono bettole, si balla tutta notte, ci si ubbriaca e peggio. Alle miniere, alle ferrovie ci pensa pincone. Tre famiglie del paese hanno già venduto le loro giovenche per barattarle con le mirifiche azioni siderurgiche: altre seguiranno l’esempio. Alla rovina materiale si rimedierà, ma l’abiezione morale sarà senza riparo. Due delle più ingenue paesanelle, l’una di diciotto, l’altra di sedici anni, la Giulia di Pietro... —
La voce del prete, rauca e fiera, s’interruppe di botto. Era stato un torrente di parole: sembrava che non dovesse fermarsi più; non aveva tossito neanche una volta. L’indignazione bolliva da un pezzo in quello spirito ingenuo, ed era scoppiata; ma dopo l’ultima frase Don Giuseppe rimase improvvisamente impacciato, mortificato. Guardò in volto il dottore per ispiare se questi avesse potuto intendere il senso del periodo appena incominciato; e si confortò un poco, vedendo che teneva la testa bassa, come sbalordito dalla foga del lungo sermone. Il curato girò gli occhi ad un angolo della stanza, li fissò un istante sul Crocifisso, che gli parve più sanguinolento, più addolorato del solito, e recitò un’orazione interna, breve, ma fervidissima. Un sordo, esercitato a leggere sulle labbra, avrebbe colto dai moti convulsi di quelle del prete alcune voci spezzate: Strictissima obligatio... inviolabiliter... sigillum confessionis.
Frattanto il dottore sorrideva, pensando alla rusticità del curato. Aveva compiuto egli i suoi studi di scienza medica niente meno che a Vienna, e in quegli otto mesi n’aveva proprio viste di belline. Le raccontava, adombrate appena di un velo, persino a sua moglie. Sì, signori, per allargarsi la mente, per non lasciarsi afferrare dalle idee storte e sentimentali, per acquistare l’esperienza del mondo, per imparare i modi garbati, è necessario vivere, almeno un certo tempo, nella capitale. Fra le montagne non si possono educare che gli orsi. Povero curato, il suo massimo viaggio era stato quello di Trento!
— Don Giuseppe, mi permetta di parlarle schietto: ella, scusi, mi sembra un tantino pessimista. — Dette queste parole quasi per tentare il terreno, il medico ristette, aspettando una risposta. La risposta non venne: Don Giuseppe aveva assunto un’attitudine raccolta e placida.
Fattosi coraggio, il dottore continuò: — Può darsi, non lo nego, che le cose previste da lei, reverendo, sieno tutte vangelo, e che una brutta catastrofe sovrasti alla povera valle; ma potrebbe anche darsi, chi lo sa? che le faccende andassero lisce. Lavorano negli scavi, hanno fatto gli assaggi; nè sarebbe impossibile che il metallo sbucasse fuori, tanto più che si trovano nei nostri monti le tracce di molte vecchie ferriere. Se l’impresa andasse bene, quanta ricchezza non ne verrebbe egli a tutti i luoghi qui intorno? Dall’altra parte questo signor banchiere e barone, avviato l’affare e toltosi il ghiribizzo della vita montanina, andrà via con il suo codazzo, lasciando i veri lavoratori, gli onesti operai; e tutto rientrerà nell’ordine consueto, con qualche soldo e qualche comodità di più, che ce n’è di bisogno.
— Dio voglia! — Era un Dio voglia buttato là tanto per mutare discorso. Il curato chiese infatti senza interruzione al dottore: — Mi dica un po’, come sta oggi la signora Carlina?
— Non c’è male, grazie. Mangia poco, quasi niente, sebbene io la faccia sgambettare dietro di me il più possibile.
— E di umore?
— Così così. Quando esco la mattina o dopo il desinare per le mie passeggiate mediche, potrei dire per i miei viaggi quotidiani, m’abbraccia e si mette a piangere. Qualche volta, confesso, perdo un po’ la pazienza.
— Tolleri, dottore. È una bambina, e le vuol tanto bene. Dirò di più, veda di trattarla con infinita indulgenza, con ogni sorta di amorevolezze e di cure. La tenga come una pianticella tenera, delicata e sottile, trapiantata da tre mesi soltanto, e che vuole essere irrorata d’affetto.
— In fondo non è mai malata. Qualche dolor di capo, nient’altro; ma non ingrassa. E poi è tanto rustica: vorrebbe stare sempre sola o con me. Detesta la gente nuova; anzi, a dirgliela, Don Giuseppe, sono impacciato. La bella baronessa vuole vedere mia moglie a ogni costo. Appena entro nella sua camera grida: E la sposina?
— Per amor della Vergine Maria non gliela conduca. Profanare il candore, il pudore della giovinetta semplice, della colomba di diciott’anni con l’alito della donna infame!
— Reverendo, ella dice bene; ma io ho pur bisogno di tutti. Nato in questa valle, non ho intenzione di morirvi. Per guadagnarmi da vivere devo fare sulle scorciatoie dei monti tre o quattro ore di cammino ogni giorno al rischio di cadere in un precipizio, di gelare l’inverno in mezzo alla neve o di crepare giovine d’un vizio di cuore. Risparmio il mulo ed il ciuco, tiranneggio me e anche un poco mia moglie per mettere da parte qualche danaro, che mi permetta di piantarmi in una città, dov’io possa fare il medico davvero. Cavar sangue, strappar denti, aggiustar ossa a questi villani non è poi un mestiere decente per chi ha studiato nella capitale e s’è assuefatto a nobili desiderii.
— La nobiltà del desiderio consiste, dottore, nella volontà del bene; e il bene è tanto più difficile a farsi, ma tanto più meritorio quanto è più basso e, aggiungerò, più schifoso l’oggetto a cui si rivolge.
— Ella parla d’oro, signor curato. Ammiro la virtù sublime, ma tutti non hanno, neanche secondo il Vangelo, l’obbligo di esser santi. Si può vivere da galantuomini, si può beneficare il prossimo anche nelle città, ed io mi sento nato per la vita civile. Ora veda, Don Giuseppe, quella signora, chiamiamola baronessa o altrimenti, mi dà quattro fiorini per visita e mi chiama quasi ogni giorno. Il mio salvadanaio ne gongola.
— Dottore, la signora Carlina non approverebbe questi sentimenti.
— E avrebbe torto. Posso io rifiutare a colui che invoca il mio ministero l’aiuto della mia scienza? Non ci sono altri medici nella valle; occorrerebbero sette ore od otto per averne uno: intanto il malato rischia di crepar come un cane. È poi lecito il distinguere un contadino da un signore, una donna onesta da una bagascia, o non si devono soccorrere tutti ugualmente? Mi dica lei, Don Giuseppe, se un peccatore, se una peccatrice implorasse, anche senza sentirsi in punto di morte, una parola dal ministro di Dio, una parola che potesse confortare, migliorare, illuminare un’anima sviata, avrebb’ella il diritto di dir di no? Stendere la mano al prossimo smarrito o perverso, aiutarlo a ritrovare la via diritta, non è forse il primo, il più sacro dovere del pastor buono? —
Queste ultime parole vennero pronunciate con molta enfasi dal dottore, il quale teneva i suoi occhi furbi fissi negli occhi ingenui del prete. Seguì un silenzio, in cui si potevano udire i canti e le risa della gente del villaggio raccolta nella piazzetta della fontana. Il curato meditava. Fece un gesto risoluto, andò a pigliare il collarino nell’armadio, se lo affibbiò senza guardarsi nello specchietto che, appeso ad un chiodo sul telaio della finestra, gli serviva per radersi la barba, e infilò la sua veste nera, l’unica che avesse; poi disse: — Andiamo. —
In quel punto al baccano sempre crescente dei villani s’unì un gran frastuono di trombe, di corni, di cornette e d’altri strumenti d’ottone, i quali stonavano e scroccavano maledettamente; e, fuori del paese, sul dorso del monte, rispondevano gli spari dei mortaletti. Era una festa solenne: avevano fatto venire la banda musicale dal capoluogo del circondario, niente meno; ed il Capocomune presiedeva alla cerimonia. Si trattava anzi di una vera marcia trionfale. Gli eroi erano due ragazzi in sui dodici anni, l’uno bruno, l’altro biondo, incoronati di fiori selvatici, e tirati in uno di quei veicoli, i quali servono in montagna a trasportare il letame, ed hanno, curvi come sono al dinanzi, un certo aspetto d’antica biga romana. Il carro, tutto a ghirlande e a festoni, era tirato da due maestosi buoi bianchi, ma i due fanciulli, anzichè mostrare la baldanza de’ conquistatori, mostravano una gran paura di essere sbalzati a terra, quando le ruote o si alzavano sugli enormi sassi, di cui sono sparse le tortuose, strette ed erte vie del paesello, o si sprofondavano nelle buche di pantano, da cui schizzava intorno la melma. I due monelli guardavano in giro, confusi di tanto chiasso, desiderosi d’una cosa soltanto, di saltar giù dal carro trionfale per unirsi a’ loro compagni e dimenarsi liberamente e gridare anch’essi: Viva, viva!
La cagione della loro gran gloria era spiegata da Menico ad un vecchio, venditore ambulante di quegli enormi ombrelloni rossi e azzurri, i quali mettono nella malinconia del paesaggio, quando piove, una pennellata allegra. Il caso dunque era stato questo: i due ragazzi, nel principio della passata primavera, andavano a raccogliere sul monte della Malga, quello che manda la più lunga ombra nella Val della Castra, le radici di una certa erba medicinale. È uno dei piccoli guadagni dei montanari, i quali per un grosso peso di arnica, di genziana, di aconito, di lichene, o che so io, racimolati sulle roccie, alla cima dei dirupi, col rischio di rompersi il cranio nella voragine, pigliano qualche soldo. La neve al basso si andava squagliando, ma i due fanciulli, raspandola via via, senza pensare ad altro, salivano sempre più in un luogo che da otto mesi non vedeva anima nata. All’improvviso, sotto ad un pino, che il vento aveva gettato a terra e che su quel lenzuolo candido con il suo tronco ed i suoi rami secchi pareva uno scheletro, odono un fruscìo. Tendono le orecchie; il fruscìo si rinnova; s’avvicinano, ed ecco che sbuca una bestia bruna, simile ad un cane non grande. La bestia scappa e va a nascondersi di nuovo in una macchia di arbusti; ed i fanciulli dietro. Avevano due bastoni, e si mettono a picchiare con tutta la forza di cui erano capaci, l’uno di qua, l’altro di là della macchia di arbusti, la quale, sebbene priva di foglie, era folta.
Volevano acchiappare il cane. La bestia, in fatti, spaurita, irritata, esce fuori, ma, invece di fuggire, avventandosi alle braccia di uno dei fanciulli, le addenta e ne fa uscire il sangue, che arrossa la neve; ma il fanciullo, niente paura, quanto più si sente mordere tanto più tiene saldo. Ed ecco l’altro che in buon punto dà con la mazza un forte colpo sulla testa dell’animale, ed un secondo colpo, e l’accoppa. Il ferito, più allegro che mai, tiene per un poco le braccia nella neve, poi, con il compagno, scende giù a sbalzi portando la sua preda. Erano incerti se fosse un cane o una volpe. Ma, prima di entrare nel villaggio, incontrano un vecchio di ottant’anni, alto, di corpo asciutto, dritto ancora come un fuso, svelto ancora come un cavriolo, che andava a passeggiare con la sua carabina ad armacollo. La fama di codesto vecchio esce dalla Val della Castra: Trento stessa lo conosce. Nella sua vita ha ucciso venti orsi; l’ultimo, dopo sbagliato il colpo del fucile, l’uccise abbracciandolo, e l’uomo cacciava all’orso il coltello nel ventre, e poi, sempre in un amplesso, arrotolarono un pezzo sulla china del monte, finchè l’orso morì, e l’uomo di ottant’anni s’alzò dritto e placido. Ora quel vecchio chiamò i fanciulli, che gli passavano innanzi, e disse: — Figliuoli, dove avete pescato questa bestiola? — I ragazzi risposero: — L’abbiamo uccisa noi; ma è una volpe od un cane?
— È un’orsacchiotta, fortunati figliuoli: fortunati che non avete trovato la sua madre, e fortunati che vi beccate trentasette fiorini belli d’argento. Fate l’istanza al Capitano. — Dette queste parole ripigliò il cammino, guardando i ghiacciai sul cucuzzolo delle montagne.
Menico mostrò all’ombrellaio, tra la folla, un montanaro che soverchiava gli altri di quasi tutto il capo, e che guardava con serietà i due piccoli trionfatori: era il vecchio degli orsi.
Per farla breve, i ragazzi avevano potuto dopo qualche mese riscuotere i trentasette fiorini, che il Governo dà quale premio per l’uccisione di un’orsa; e la festa era fatta a commemorazione e a rallegramento del caso. Bisogna aggiungere, per amore di verità, che era stata anche pensata da qualche cervello ingegnoso per avere una nuova scusa di ballar con la banda tutta notte nell’osteria e di scialacquare in istravizii e bordelli; e, perchè il curato lo sapeva bene, non aveva voluto ingerirsi nè con la sua chiesa, nè con la sua persona in così fatta commedia. Dall’altro canto la caccia dell’orso aveva lasciato nell’animo del prete un rimorso non piccolo. S’era imbattuto un inverno anch’egli fra le nevi in un orsacchino da poppa; aveva pigliato l’orsacchino e, picchiandolo un poco, l’aveva fatto guaire, perchè l’orsa, che non poteva essere lontana, lo udisse. Venne in fatti, e precipitò furibonda, mentre il prete mirava attento e colpiva giusto. L’orsa, ferita a morte, si trascinò accanto al suo piccino, che continuava a guaire, e lo leccava in atto d’infinito amore. Il prete tornò a casa pensieroso, lasciando nel bosco la madre morta e l’orsacchino libero.
La sera scartabellò i volumi della sua piccola libreria per conoscere se l’inganno è innocente quando si volga contro le bestie feroci; ma non gli riescì di raccapezzar nulla che facesse al suo caso: solo nel secondo volume del Gury, Compendium Theologiae moralis, trovò che al sacerdote è lecita la caccia non clamorosa cum sclopeto et uno cane. Non trovò altro; ma non potè mai dimenticare la generosa, e sviscerata passione di quella madre morente, e, ripensandovi, sentiva nel cuore uno stringimento.
Ripetè ancora al dottore: — Andiamo — ed uscirono, allontanandosi dal frastuono del villaggio in festa.