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II.
La villa del barone banchiere era sorta all’improvviso. A un tiro di schioppo fuori del paese si vedeva dianzi una casa costrutta in sasso e in cemento, miracolo in quel villaggio fatto tutto di legno. Era stata alzata dieci anni addietro da un brav’uomo, il quale, essendo andato per mezzo secolo a lavorare giù per l’Italia da calderaio, e avendo raggruzzolato molte migliaia di lire, voleva godersele con la famiglia in santa pace nell’aria pura e nelle lunghe nevi del suo caro luogo natale. Non l’avesse pensato mai! Il dì che fu messa la prima pietra, ecco gli muore la figliuola; appena finito il solaio del primo piano, ecco gli si ammazza giù per una rupe il figliuolo; appena compiuto il tetto, passa a miglior vita la moglie. Il misero signorotto, solo, disperato, pieno di acciacchi e di paure, camminò un anno nelle stanze vuote, meditando con desiderio ineffabile al tempo della sua miseria, quando la moglie ed i figli, sani e robusti, mangiavano polenta asciutta, ed egli martellava quindici ore della giornata su caldaie e padelle. Morì di settant’anni lasciando la sua casa al Comune, il quale vi teneva il fieno, giacchè, un poco per cagione dell’uso di abitare in isconquassate catapecchie di legno, un poco per l’idea che quell’edificio fosse stregato e recasse sventura, nessuno offriva un quattrino per andarvi a prendere alloggio.
I vetri delle finestre non c’erano più, le imposte cominciavano a sconnettersi; ma il palazzotto così bianco e alto e regolare, con la sua bella cornice e i suoi balconi sporgenti, rallegrava la vista, in mezzo alle capanne ed ai tugurii neri della valle. S’aggiunga ch’era piantato in uno dei più bei siti: sul contrafforte del monte, dove i paeselli della vallata di qua e di là si vedono tutti, e l’occhio si spinge sino al piano verde ed al castello di Sanna; e di dietro l’ombreggiava una folta macchia di larici antichi, mentre dinanzi lo rallegrava una prateria quasi orizzontale, piena di grandi arbusti di sambuco rosso, con i suoi grappoli che sembravano coralli infiammati, e ricca di fiori color di rosa, dondolanti sui gambi altissimi, di fiori gialli, violetti, bianchi, da farne la più gentile e variopinta corona per una vergine sposa.
La casa del calderaio, già bella, era diventata un incanto. Sulla fronte, nel piano terreno, sporgeva una nuova loggia, chiusa durante le ore del sole da tende che parevano di splendido drappo persiano; nei fianchi uscivano fuori due nuove ali in forma di padiglione, da cui quattro gradinate esterne scendevano alla prateria trasformata in giardino, dove non mancavano le zolle simmetriche, l’ampia vasca circolare con l’acqua limpida e i pesci d’oro, nè i sedili dondolanti sparsi nei luoghi più misteriosi ed ombrati. Nel lato posteriore dell’edificio un nuovo portico riparava le cavalcature mentre aspettavano i cavalieri; la cucina, la scuderia de’ muli, l’abitazione dei servi ed altri luoghi di basso uso avevano trovato posto in una specie di casa rustica, unita alla palazzina per mezzo di una lunga tettoia, la quale veniva tutta nascosta da piante arrampicanti e da arboscelli trapiantati.
Queste nuove fabbriche erano di legno, alzate su in fretta e destinate alla vita di tre mesi: non importava che le prossime nevi ed i geli le sfasciassero tutte.
Ai lavori aveva presieduto il vero scopritore, o, per meglio dire, inventore delle miniere, un farabutto matricolato, al paragone del quale il presidente della Società siderurgica, il barone banchiere, poteva dirsi una perla. Lo chiamavano Gregorio Viorz, e si bucinava che fosse stato due volte in carcere per truffa; gli attribuivano anche un veneficio, commesso per interesse, ma le prove mancavano e la giustizia non se n’era impacciata. Comunque sia, ad Innsbruck, sua città natale, n’aveva fatte tante, che non poteva più rimettervi il piede.
Dio l'aveva dotato, per disgrazia degli uomini, di un ingegno feracissimo e di un'attività senza pari; tanto che con la metà della fatica e del cervello, ch'egli impiegava nelle vie torte e buie, avrebbe potuto lungo la strada dritta rendersi ricco e stimato e sicuro della propria fortuna. Ma dall'animo perverso nascono inevitabilmente certe debolezze fatali, le quali sciupano tutto; e il Viorz n'aveva due. Prima: assottigliava troppo, sicchè, studiando nelle imprese tutti i pericoli e industriandosi di mettere a tutti un anticipato rimedio, creava spesso le difficoltà nell'atto in cui voleva prevenirle. Seconda: man mano che si avvicinava il momento di raccogliere il frutto delle sue iniquità, la gioia e l'orgoglio del buon successo gli scemavano la calma, lo inebbriavano, e la prima cautela volpina si trasformava, nella lotta contro gli ultimi intoppi, in violenza brutale.
Un così fatto personaggio non poteva dare il suo nome a nessun affare d'industria o di banca; anzi si doveva tenere avvolto, almeno sul principio, in un prudente mistero. Aveva dunque bisogno di qualcuno da mettere in mostra: un galantuomo no, perchè non si sarebbe prestato a simili birbonate; un noto birbante no, perchè avrebbe, invece di adescarla, fatto scappare la gente. Ci voleva, per esempio, un signore che si fosse mangiato il patrimonio: vizioso e in urgente necessità di quattrini; d’intelletto bastevole per capire e secondare le finezze dell’impresa, ma di poca inventiva, perchè non gli saltasse un giorno il ghiribizzo di fare da sè; di bei modi signorili, con un bel nome e un titolo sonoro. A tutte le indicate qualità bisognava unirne un’ultima: quella di non essere punto conosciuto nella classe degli uomini di banca, o, meglio, di esservi conosciuto favorevolmente. Questa prerogativa s’univa alle altre nel barone di Steinach.
Era piuttosto un uomo scettico e leggiero, che propriamente perverso. L’uso della società galante di Vienna e di Parigi l’aveva rotto ad ogni vizio, senza fargli perdere il garbo delle maniere aristocratiche ed una certa sensibilità di natura. S’era impacciato tre o quattro volte in affari grossi e romorosi, ma, puntualmente, con indifferenza, aveva pagato le perdite, rimettendoci sino all’ultimo soldo. Allora, dopo avere conosciuto Gregorio Viorz, che non lo perdette mai più di vista e che lo richiamò in gran fretta, qualche anno appresso, appena avuta la prima ispirazione della Compagnia siderurgica, andò a Monaco al giuoco, facendosi prestare la posta, e guadagnò; e con quel guadagno, piantatosi a Parigi, cominciò la vita del cavaliere d’industria.
In un modo o in un altro se la campava, sempre abbigliato, benchè con un’ombra di gofferia teutonica, secondo l’ultima voga in un quartierino di nobile apparenza e pieno di gingilli artistici, dove regnava questa o quella signora, bruna, bionda, fulva o rossa, ch’egli ripescava qua o là e rimutava, al più, ogni sei mesi. Così era giunto al sessantesimo anno, robusto ancora e pieno di vita, che pareva un miracolo pensando a’ suoi vizi e disordini; nè l’età si manifestava in lui altrimenti che in due cose: nella rotondità del ventre, che con il suo consueto panciotto bianco diventava anche più maestoso, e nel serbare com’egli faceva presso di sè da un anno l’ultima baronessa, rossa di capelli, senza provare nessun desiderio di sostituirne una nuova.
Il curato non aveva aperto bocca nel cammino da casa sua alla villa, sebbene il dottore lo andasse stuzzicando. Pareva distratto; guardava le nubi strane, che imbiancavano una parte del cielo.
Un domestico, in livrea turchina con la pistagna color cremisi e i gran bottoni dorati, fece entrare i due visitatori nella sala, dove il barone faceva il chilo col resto della compagnia, pregandoli di aspettare che la signora baronessa li potesse ricevere. Il barone, che fumava il sigaro immerso in una larga poltrona, s’alzò, andò incontro al prete, e, stringendogli la mano, gli disse un mondo di belle cose. Aveva bisogno di vederlo, conosceva le sue virtù, desiderava aiutare i poveri del paese, sapeva che la baronessa ne’ primi dì del suo soggiorno in villa era stata alla canonica a portare delle elemosine; egli voleva fare qualcosa di più durevole, cento idee di carità gli frullavano nel cervello, ma per metterle in atto attendeva il consiglio del savio e sant’uomo, che lo guidasse, che gl’insegnasse a fare il bene utilmente.
Quei modi cortesi, quel sorriso aperto, sopra tutto quelle liberali profferte, mettevano il povero prete in un terribile impaccio. Già rinasceva nella sua mente la solita tenzone: posso io respingere il danaro del diavolo? Posso io togliere a’ poverelli i soccorsi di cui hanno tanto bisogno? Non devo io anzi sollecitare codeste larghezze, qualunque sia la lor causa, lasciando a Dio di entrare nell’anima dei peccatori?
Il barone continuava a discorrere in piedi, davanti alla finestra, da cui si scorgeva tutta intiera la valle e si vedeva in fondo ad essa il torrente, sinuoso e lucido, come un nastro d’argento puro, svolazzante al sole. Intanto gli ospiti del barone chiacchieravano intorno ad una tavola rotonda piena di libri e giornali, nell’angolo opposto della sala. A un tratto il maestro di pianoforte della baronessa, un giovinetto piccolo, con gli occhiali sul naso a ballotta, allievo poco fortunato del Conservatorio di Dresda, tolta la fascia ad uno dei giornali illustrati, guardando la prima pagina, esclama: — Oh bello, magnifico stupendo davvero! — Poi, fatta vedere l’incisione agli altri, che s’accordano negli ah e negli oh ammirativi, sbalza accanto al barone per mostrargli niente meno che la veduta della sua villa. C’era la loggia con i panneggiamenti; c’erano i padiglioni con le quattro gradinate, ma con l’aggiunta, per verità, di due cupole e di due Fortune sulla cima, rimaste, pare, nella fantasia dell’architetto restauratore; c’erano le fontane con nuovi getti d’acqua: insomma una reggia.
Si leggeva sotto: Residenza del direttore della Compagnia siderurgica nella valle di Castra. Il barone, dopo avere gettato uno sguardo sul disegno, mormorò tra se stesso: — Astuzie di quella volpe del Viorz — e restituì il foglio al maestro di cembalo, il quale si mise a leggere l’articolo che accompagnava e spiegava l’incisione. Era un inno alla nuova impresa: le miniere gonfie di metallo; le ferriere vulcani; e già le braccia non bastavano più al lavoro, e le richieste del commercio soverchiavano venti volte la produzione dell’industria; bisognava praticare dei nuovi squarci nei fianchi del monte miracoloso, moltiplicare le fucine, emettere nuove azioni alla banca. Seguivano la parte artistica e la parte sentimentale: le descrizioni del palazzo e del giardino; le beneficenze del direttore, vera provvidenza, vero Messia della valle: asili d’infanzia fondati e già frequentati da trecento bimbi, che, oltre all’insegnamento, vi ricevevano gratis la colazione e il desinare; nuove strade in lavoro; farmacie aperte, eccetera, eccetera: una rigenerazione.
Il maestro di pianoforte leggeva ad alta voce, con enfasi, facendo spiccare le più belle frasi; nè badava punto al barone, il quale, interrompendo il suo ragionamento col prete, gridava: — Basta, basta; leggerete poi. — Ma il prete non porgeva più nessuna attenzione alle lusinghe dell’altro; tendeva invece le orecchie per udir la lettura, avvicinandosi anzi passo passo alla tavola tonda. A un certo punto, senz’aspettare la fine, strappò dalle mani del leggitore il foglio e lo stracciò in più brani, ripetendo: — Sono tutte menzogne, tutte menzogne.—
Il barone uscì dalla stanza, il medico scomparve. Ci fu un mezzo minuto di silenzio e d’immobilità generale; poi si vide alzarsi un ufficiale dei cacciatori, che stava accanto al maestro di pianoforte. S’accostò al prete e, dopo un formidabile ruggito d’ira, gridò: — Ringrazii la sua chierica ed il suo collare se questo braccio.... — e alzava il braccio in atto di minaccia.
In quel momento il servo in livrea turchina con le mostre cremisi e i gran bottoni dorati entrò e annunziò dall’uscio: — La signora baronessa prega il reverendo signor curato di passare nella sua camera. —
Il curato piegò la testa in atto di saluto e, lentamente, uscì dalla sala.