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III.
Aperto l’uscio della camera e fatto un profondo inchino, il servo si ritirò, lasciando il prete solo con la donna. Nel primo istante non la vide, perchè la camera sembrava un grazioso incendio, e gli occhi restavano abbacinati. Le tappezzerie, i canapè, le poltrone, tutto era di stoffa rossa, d’un rosso roseo brillante, con certi disegni gialli sinuosi, come a fiamma; e il sole del tramonto, caldo, vivo, d’oro, entrava dalle due finestre spalancate, gettando sul rosso e sul giallo della stanza certi lumi incandescenti e certi lustri, che somigliavano a fuochi e a scintille. Un odore di essenze, acuto, inebbriante, si effondeva dalla toletta a trine e a ricami, dove, sotto al baldacchino, tenuto in aria volando da un putto alato, luccicavano dinanzi alla cornice dello specchio, tutta a fiori di vetro, innumerevoli vasetti di metallo bianco e pettiniere e saponiere e ampollette di cristallo terso e ninnoli d’ogni maniera.
Il prete, entrando, si sentì una vampa alla testa: avrebbe voluto fuggire. La donna lo chiamò con voce soave come un liuto lontano.
Era sdraiata sopra un sofà nel solo angolo ombroso della stanza, lungo il lato delle finestre, in fondo, lì dove le pieghe delle ampie tende scemavano sui fianchi la luce e lasciavano come una insenatura fra il parato ed il muro.
— Si metta qui, signor curato, qui accanto, in questo seggiolone. Mi sento così debole, che appena appena posso parlar sottovoce.
Il prete rispose ruvido: — Scusi, ho fretta. Sono venuto perchè il medico mi aveva detto ch’ella era malata e aveva bisogno di me. Posso servirla in qualcosa?
— Sono malata, e come! Ma quel dottore sventato non capisce nulla. Ella, signor curato, dotto e santo com’è, può dirmi una parola, che mi conforti, che mi rianimi e, col ridonarmi la fede in me stessa e nelle cose del mondo, tornarmi forse la salute del corpo. Il mio male sta qui — . Si toccò il seno.
Era coperta d’una vesta a fiorami, che lasciava vedere tutto il collo, una parte del petto candido e il principio delle spalle rotonde, sulle quali cadevano, sciolti, i suoi capelli increspati, d’un biondo rossigno. Principiavano bassi, in riccioletti matti. Il naso appiccicato alla fronte, quasi senza incavo, con un piano vigoroso e largo; le narici gonfie, da cui la donna sbuffava alle volte al pari d’una cavalla araba; le labbra tumide, le gote piene, e il mento rientrante davano a quel viso un non so che di pecorino e lascivo. Il cinabro della bocca era anzi un poco troppo vivace, il roseo delle guance un poco troppo sfumato, e la forma delle brune sopracciglia un poco troppo sottilmente arcuata per poter credere che l’arte non ci entrasse in nulla. E sotto gli occhi cerulei stava un lividetto, che li faceva sembrare più grandi. Era bella insomma alla sua maniera e carnale.
Il prete rimaneva in piedi. Ella si alzò con fatica, andò verso di lui, lo prese per mano e, condottolo due passi innanzi, lo fece sedere nel seggiolone. Poi, guardandolo fisso, come se ella si destasse in quel punto, stirò le braccia, che le maniche larghe lasciarono vedere quasi fino alle ascelle; e il petto si arrotondò fieramente.
Tornò a buttarsi sul sofà, lasciando cadere a terra dal piede destro la pantofola ricamata. Gli occhi cerulei erano diventati di bragia.
La voce non aveva più la stanchezza e la dolcezza di prima. Vi dominava un timbro secco, strozzato, rabbioso, quando disse al prete interrottamente: — Mi dica un po’, Don Giuseppe, perchè mi sfugge? Perchè non vuole vedermi più? Quand’io passo nel villaggio a cavallo della mia mula, perchè mi chiude in faccia le imposte della sua casa? Dopo avermi ricevuta in principio quattro volte nella canonica, perchè ha ora dato l’ordine di non lasciarmi entrare, nemmeno quando io reco il denaro dei poveri? Non posso metter piede in sagrestia; è molto che non mi caccino, come un cane, fuori di chiesa. Mi si rimandano i doni che faccio al tempio. Con qual diritto? Chi può mai rifiutare le offerte che si porgono a Dio? — Sbalzò in piedi e si piantò di contro il prete, domandando: — L’odio, signor curato, è forse una virtù cristiana? —
Il curato affermò pacatamente, ma con la voce che tremolava: — L’odio del male è una virtù cristiana.
— Virtù cristiana, reverendo, è l’amore. Me lo insegnarono da fanciulla, quando andava in chiesa alla dottrina; me lo hanno ripetuto al confessionale. Poi, divenuta donna, vidi che l’amor vero mi rialzava l’anima, mi purificava lo spirito, mi avvicinava al cielo. L’amor vero passò, e, giuro, senza mia colpa. Allora, abbandonata, povera, gettata in una società piena di seduzioni e di corruzioni, cascai nella finzione dell’amore. Ma la finzione dell’amore, non è amore, è odio; è l’odio anzi più vile, abbietto, pauroso, straziante che si possa provare. Quest’odio m’uccide. Il cuore intanto arde, e cerca da molti anni invano il refrigerio di un affetto violento e sincero. Ho bisogno dell’amore che brucia. —
Il prete, afferrando con un supremo sforzo di volontà i pensieri, che svanivano dalla sua testa, mormorò: — Calmatevi, poverina, mettete in pace la fantasia eccitata dalle sventure e dalle colpe della vostra vita. Fate di desiderare una sola cosa, il bene. Uscite da queste sozzure d’inganni e di vizii, in cui si trascina e imbratta la vostra esistenza. Tornate sola e povera, ma pentita e buona. Allora tutti vi dovranno amare, perchè, amando voi, ameranno la virtù.
— Anche voi, Don Giuseppe, mi amerete anche voi? —
E gli prese la mano, e la strinse, e il prete s’avvicinò.
La donna continuava sommessamente: — Don Giuseppe, guidatemi. Insegnatemi la via, conducetemi dove vi piace. Sarò la vostra schiava. Sarò, se vorrete, la vostra santa. Il vostro cuore dev’essere grande e nobile, deve specchiare il cielo, come i vostri occhi. Mi piacete perchè siete bello, perchè siete candido, perchè indovino che non avete mai amato, perchè voglio essere il vostro primo peccato, il vostro primo rimorso. Datemi il vostro amore, Don Giuseppe, il vostro amore.
La donna, arrovesciata sul sofà, teneva sempre con le due mani la mano del prete, il quale tremava dalla testa ai piedi. Il sole era tramontato; la camera diventava buia.
Ma, mentre la femmina ripeteva le ultime parole, sembrò al curato che d’improvviso un soffio fresco gli passasse sul fronte; e di repente gli comparve davanti la figura tetra e sanguinosa del suo Cristo dell’inginocchiatoio, solo che il volto, anzichè piegato e morto, era vivo e guardava minaccioso e fierissimo. Il prete scattò e, prima che la donna potesse pronunziare una sillaba, era uscito dalla stanza.
Quando il servo con la livrea turchina e con le mostre cremisi vide scappare il prete dalla villa, quasi correndo, senza voltarsi, come se dietro le spalle lo minacciasse il demonio, sorrise maliziosamente, ponendosi l’indice della mano destra sulla punta del naso.