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IV.
Il prete girò, senza saperlo, a sinistra, dove la strada sale e s’interna nella montagna; passò a’ piedi della chiesetta di San Rocco, posta sul vertice di una rupe acuta, e camminò verso il prato così detto del Lago. Incontrava parecchi di quei carri alpini che, formati delle sole ruote dinanzi e di due lunghissime stanghe, le quali si trascinano per terra con la loro estremità posteriore, servono a portare il carico voluminoso di una erba appena tagliata, olezzante d’ogni grato profumo e tempestata de’ fiorellini d’ogni allegro colore. I poveri buoi, scendendo lenti e gravi dall’erta ripidissima, puntavano vigorosamente le zampe tra i sassi enormi, docili alla parola delle montanine che li guidavano, maestosi e rassegnati, con l’occhio umido, un poco inquieto e assai mesto. Le donne salutavano, ma il curato non rispondeva. Una volta rischiò di rimanere schiacciato sotto a un carro, che non aveva scansato in tempo. Lasciò la strada; andò su per i sentieri, su per le roccie nude. La notte era diventata scura, e il prete andava senza sapere dove mettesse i piedi. Si trovò a un tratto sulla riva dell’alto lago, uno scolo de’ ghiacciai, dove finalmente il rumore di due torrentelli, che precipitavano dalle cime e si frangevano tra i sassi, e il vento rigido delle gole, e la tosse, che gli spezzava il petto, richiamarono in sè il curato, il quale cadde con le ginocchia a terra e, giungendo le mani e fissando gli occhi nella vòlta tutta nera del cielo, ringraziò con una lunga preghiera il figliuolo di Dio.
In Menico frattanto crescevano le ansie. L’orologio della canonica aveva suonato la mezza dopo le dodici, e il padrone non ritornava. Il vecchietto aveva visto spegnersi i lumi nella villa del barone e sapeva bene che non c’erano moribondi nel paese: dove diamine quella testa sventata era dunque andato a passar la notte? Non s’attentava di allontanarsi troppo di casa; guardava dalle finestre, ma non vedeva altro che tenebre fitte. Se non fosse stato il servo di un sacerdote si sarebbe sfogato assai volentieri con qualche grossa bestemmia. Tendeva le orecchie, un cane aveva abbaiato, nulla; si sentiva un calpestio lontano, ascoltava, nulla. — O il reverendo l’avrà da fare con me. Starsene via tutta notte senza neanche avvisare! Siamo cani? E poi, col rischio di pigliarsi un nuovo malanno in tali disordini da scomunicati, e con quella maledettissima tosse, che non lo lascia mai stare. Figurarsi, sono ore queste da gironzare per le strade e da tenere alzati i galantuomini? Gliele voglio cantare secche, ma secche. Farebbe perdere la pazienza a san Luigi Gonzaga. — Tornava a guardare nell’oscurità e ad origliare; niente. Alla fine gli parve di udire in su, distante, il passo di un uomo; era un uomo, certo, che scendeva dalla montagna; il passo s’affrettava, rintronava; i cani abbaiavano: era il passo del curato. Allora il piccolo vecchio si pose dinanzi alla porta con il muso arcigno e gli occhi da cui schizzavano scintille di rabbia; aveva i pugni piantati sulle anche in atto di sfida, come se volesse impedire al prete l’ingresso della canonica, e già schiudeva le labbra per cominciare la ramanzina quando, vista la faccia del padrone, ammutolì e lo lasciò passare.
Borbottava tra i denti o per meglio dire tra le gengive: — Dio santo, che mutria! E come ha conciato i panni! Mi ci vorrà un mese a ricucirli e a rimetterli un po’ in assetto. Bella carità cristiana. —
Il curato passò il resto della notte all’inginocchiatoio, davanti al Crocifisso, che lo aveva salvato. L’alba fece parere più livido, più macilento, più contorto e più sanguinoso quel Cristo in croce, con la sua testa china incoronata di spine.
All’aurora principiò il concerto delle campane. Le suonava Menico, facendosi aiutare durante i suoi servigii di sagrestia e di chiesa, o quando si sentiva le braccia stanche, da un ragazzotto, che per solito era uno dei due monelli trionfatori del giorno innanzi, e propriamente quello bruno, il quale della metà dei trentasette fiorini guadagnati per l’uccisione dell’orsacchiotta non aveva visto il becco di un soldo, tanto i suoi parenti erano stati lesti a mangiarli tutti ed a berli.
Era la domenica, e la messa del curato doveva principiare alle dieci. Verso le otto un contadino, che veniva dalla valle, consegnò a Menico una lettera per il suo padrone. L’indirizzo, scritto in calligrafia sottile, snella, elegante, palesava una mano di donna. Il prete pigliò la lettera, la guardò; le dita gli bruciavano, le mani gli tremavano; una visione terribilmente allettevole di donna mezza nuda gli passò nella fantasia, e gli parve di udire nelle orecchie l’eco seducente e paurosa di una voce che bisbigliasse: Datemi il vostro amore, Don Giuseppe, il vostro amore! — Il curato voleva ad ogni costo sapere chi avesse mandata la lettera: ma il contadino doveva essere già lontano, nè Menico aveva avvertito da che parte fosse andato via. — Del resto, — osservò il vecchietto, alzando le spalle, — apra e vedrà chi scrive. — Il prete stracciò in fatti la busta e spiegò i fogli, ch’erano parecchi, con un gesto d’angoscia; ma tosto si rasserenò, si mise a sedere e a leggere. La lettera era della signora Carlina, la moglie del dottore.
- “Reverendo signor curato,
Ho bisogno di tutta la pazienza, di tutta la indulgenza del suo cuore. Il mio buon Don Giuseppe si è mostrato in questi mesi tanto dolce verso di me, ch’io non esito ad aprirgli la mia anima intera, con le sue tristezze, i suoi dubbii e le sue paure. Mi pare anche di non agire come dovrei; ed ella mi rimproveri o mi conforti, ma sopra tutto mi consigli, giacchè la mia esperienza è così piccola e la mia natura, pur troppo, così timida, ch’io non solo non so risolvermi a operare, ma spesso non distinguo bene quale sia il cammino da scegliere. Mi compatisca, signor curato.
Ho diciott’anni compiuti: dovrei essere quasi una matrona: però sino a tre mesi addietro, sino al giorno del mio matrimonio, io era vissuta come una bambina, fra mio padre, ottimo uomo, ma severissimo, e mia madre, donna tutta di casa. Non si vedeva nessuno, io non aveva passione per la lettura; ricamava, teneva i libri di cucina volentieri, mettendo nell’arte della cuoca, massime ne’ piattini dolci (bisogna, Don Giuseppe, ch’ella venga ad assaggiarne uno il primo giorno che avrà tempo. S’intenda con Amilcare), mettendoci, confesso, un poco d’ambizione. Del resto dicevano che la mia salute era delicata. Ella, signor curato, mi guarda qualche volta in faccia con un cert’occhio compassionevole, come se dicesse: poveraccia, è tanto magra, tanto pallida! Amilcare mi ha, come dice lui, ascoltata più volte: non ha trovato, dice lui, neanche l’ombra del male. Fatto sta che io non sono mai obbligata a rimanere a letto, e che posso dichiararmi sul serio una grande camminatrice, una vera alpinista. Anzi, a questo proposito, vorrei ch’ella persuadesse Amilcare a farmi camminare meno. Quand’egli va nelle montagne alla visita de’ suoi malati, vuole, quasi ogni volta, ch’io lo accompagni; ieri mi condusse con quel sole, verso le due, sino a Masine dalle scorciatoie dei viottoli; un’ora e mezzo di salita, e che salita, e che sassi! Giunta nel paese, mi cacciai a sedere in un angolo della chiesa, una chiesa umida e melanconica, dove mi toccò attendere due orette buone che Amilcare avesse finito di dar ricette e di cavar sangue, e intanto mi sentiva tutta intirizzita da un’aria fredda gelata. Non ho coraggio di dir di no. Amilcare osserva giustamente che il camminare desta l’appetito, e che io, avendo bisogno di rinvigorirmi, devo mangiare, carne sopra tutto, e bere almeno un bicchiere di vino; ma il vino proprio mi ripugna, non lo dico per affettazione, e la stanchezza mi toglie anche quella poca voglia di mangiare che aveva dianzi. “Signor curato, ella non ignora come fu il caso delle mie nozze. Amilcare è il mio solo cugino; era, si può dire, il solo giovinotto che, ne’ mesi d’autunno, frequentasse la nostra casa; e poi buono, bello, di bei modi cortesi, e con una vivacità di parlare tutta sua; studiava molto; a Vienna si faceva onore; era diventato dottore, e poi medico condotto in questa valle. In somma, quanti sogni io andava mulinando nel mio cervello! Stava desta la notte per poter continuare le belle fantasie, parendomi che la intera giornata non bastasse a tante care e interminabili meditazioni. Mio padre si mostrava poco contento; gli piaceva poco ch’io dovessi sposare un medico; diceva che i medici sono tutti materialisti, parola ch’io non capiva bene, ma che non mi piaceva affatto; e mi dipingeva la vita di questa valle come una specie di sepoltura: otto mesi d’inverno, la neve alta sei piedi, tredici gradi di freddo, impossibile a una donna l’uscir di casa, le ansie per il marito, un mondo di guai. Ed io pensavo all’opposto dentro di me; l’inverno sarà il mio paradiso; due stanzette ben calde, fiori accanto alle stufe, i miei ricami, la mia cucinetta, qualche lettera alla mamma, e poi, anzi prima di tutto, sopra tutto, il mio Amilcare sempre indulgente, sempre grazioso, sempre allegro, e che lunghi discorsi, e come sarà contento di tornare nella sua casina, presso la sua Carluccia, che gli vorrà tanto bene! Scusi, signor curato: sono una vera sciocca. Dunque ci siamo sposati; il viaggetto di nozze, un incanto; il primo mese in questa valle una delizia. A dirgliela però Amilcare fumava un poco troppo anche in principio, e mi appestava la camera.
Io non diceva niente; ma qualche volta mi mancava il respiro, mi sentiva un tantino di mal di stomaco. Cose da nulla. Il mio sposo mi amava; discorreva sempre del futuro, quando ci pianteremo in una città, e il suo nome diventerà celebre, e guadagnerà tanti quattrini, e gli pioveranno addosso tanti onori, e darà delle grandi feste, nelle quali io dovrò essere acconciata da vera regina. Quest’ultima parte non mi andava a’ versi; ho sempre avuta poca inclinazione a figurar nella gente. Certe piccolezze mi davano già ombra, m’offendevano un poco; aveva torto.
“Il male è cominciato quasi ad un tratto, quando venne ad abitare nella villa accanto a lei, signor curato, quella donna che dicono la baronessa, e quando, fino dal primo giorno del suo arrivo, mandò in gran furia a chiamar mio marito. Da quel momento non è stato più lui. Ha cento fumi per la testa; pare che si vergogni di me; e non ostante mi sforza a seguirlo nelle sue camminate sui monti, ma non mi guarda, non mi parla, non m’aiuta nemmeno a salire un’erta o a passare un’acqua. Anche in casa, se gli parlo, mi risponde sì o no, o non risponde affatto; ogni sua parola, quando finalmente la dice, è un rimprovero o, che mi duole ancora più, un sarcasmo: non so più nè vestirmi, nè pettinarmi, nè quasi mettere alla bocca il cucchiaio, nè adoperare la forchetta e il coltello. La casa gli sembra piccola; non gli piace nè il desinare nè la cena, per quanto io mi lambicchi nell’indovinare i suoi gusti e nel condire e cuocere le vivande. È andato quattro volte a cenare all’osteria con i carrettieri, ed anche le altre sere, quando non è alla villa o non esce per i suoi malati, va a bere la genziana, e ne beve (mi vergogno) più di un bicchierino di certo. Allora poi! Mio signor curato, mio buon Don Giuseppe, mi aiuti: io ci perdo la testa e ci muoio. A mio padre, alla mamma non posso dir nulla; ella, Don Giuseppe, è la sola persona sulla terra che mi sappia compatire e soccorrere.
E divento anche cattiva. M’affatico a stargli intorno con le carezze, con le dolcezze; mi respinge, ed io torno più mansueta che mai; ma qualche volta non posso; sento nascermi dentro come uno spirito fiero di ribellione, nuovissimo, incomprensibile, e ch’è pure tanto contrario alla pieghevolezza della mia natura. Provo una sensazione che non aveva provata mai: un’agrezza, un’amarezza profonda. Oramai conosco il sapore del fiele. Comprendo tante cose di cui prima non capiva nulla: un mondo brutto mi si apre dinanzi. Mi sono guardata bene nello specchio. Sì, sono magra; sì, sono pallida; ma i miei occhi mi paiono neri e grandi, la mia fronte, la mia bocca, tutti i miei lineamenti sono regolari, e il mio corpo non è poi uno scheletro. Non ostante, al mio marito di tre mesi, al mio sposo non piaccio più. Cita le bellezze tonde della baronessa. Le ho viste io quelle sfacciate bellezze: è passata tre volte sotto le mie finestre, seguìta da corteggiatori e da servi, sulla sua mula bianca. Le ho piantato gli occhi in faccia e la ho studiata bene: sulle guance ha il rossetto, sulle labbra la polvere di corallo, e le sue magnifiche sopracciglia sono tracciate col pennello.
Falsa al di fuori come dev’essere bugiarda al di dentro. E mi ha rubata la stima, mi ha rubata l’affezione di Amilcare! Ora, un’ultima parola, signor curato. Amilcare vuole che io vada a visitar la sua ganza. Ho detto di no, ed egli insiste, ed io, caschi il mondo, non voglio. Ho ragione? Ho torto?
Don Giuseppe, mi pigli per la mano. Ella che vede le cose di questo mondo dall’altezza della sua santa pace; m’insegni a uscire dalle bassezze di questi miei nuovi sospetti e dalle viltà di queste mie nuove angoscie. In un mese come è mutata
“La sua disgraziatissima
Carlina.„
Il prete aveva letto la lettera attentamente, sospirando in principio, fremendo alla fine. — Povera santa! — esclamò; e scrisse questo polizzino con la sua scrittura larga e affrettata: “Verrò domani. Discorreremo, e vedrà che i suoi dubbii non sono giusti. Pazienza, indulgenza, dolcezza: ecco i rimedii. Preghi la Santissima Vergine Maria, che conosce le debolezze e le ambascie dei mortali. A rivederci domani„.
Menico aveva annunziato da un po’ di tempo, che una donna, la Pina del Rosso, ed il vecchio padre di lei chiedevano di parlare al reverendo signor curato. Entrarono con gli occhi pieni di lagrime; e la donna, singhiozzando, raccontò che il suo marito voleva vendere le giovenche, tutte, una ventina, l’unica loro ricchezza, per impiegare il denaro nella impresa delle ferriere: — Deve condurre le bestie doman l’altro al mercato di Malè, e ci andranno con le loro mandre altri cinque o sei di questi indemoniati. Daranno via il bestiame per niente: e poi a tali imprese, che il diavolo se le porti, io non ci credo. Sono trufferie; lo dice anche mio padre, che sa il vivere del mondo. — E il povero vecchio mezzo paralitico accennava di sì, crollando mestamente il capo. — Non glielo avessi mai detto al mio uomo! S’è infuriato, mi ha picchiata; veda queste lividure — e mostrava le spalle maculate. — Ma io insisteva, e lui giù botte da orbo. Non ho potuto rimuoverlo di un ette. Ci salvi lei, signor curato; scriva a Trento, scriva all’imperatore; impedisca la distruzione del villaggio, per carità. —
Il prete s’era alzato e, ascoltando la donna, camminava su e giù per la stanza, in preda ad un’agitazione vivissima. Ripeteva: — Infami. — Poi disse ad alta voce: Parlerò al Capocomune, m’intenderò con lui, e qualcosa, se Dio ci aiuta, riusciremo a fare.
— Il Capocomune! Un bel soccorso! — ripigliò la donna. — È lui che ha fatto impazzir la gente; è lui che suggerisce a tutti di barattare il bestiame, il quale dà tanti pensieri, come dice, e così poco profitto, con quei fogli di carta che fruttano del bell’oro solo a guardarli. L’ho sentito io con le mie orecchie, signor curato. Povero il nostro armento! E poi (la ho da dire?) a quelli che rispondevano che Don Giuseppe non crede a così fatti miracoli, il Capocomune replicava: “Ah sì! Quel... (la taccio per rispetto) quel... lo caccieremo via, e presto. È ora di finirla con quel... Non vede più là del naso e pretende d’insegnare alla gente.„ Poi, sottovoce, aggiungeva: “Sappiate che durerà poco, una settimana al più; lo so io, e basta.„ —
Il prete continuava a camminare, invaso dall’ira: — Ebbene, andrò domani dal capitano a Malè, chiamerò il signor giudice, farò processare tutta questa canaglia. — Ma Menico, dalla soglia della camera, diceva: — Signor curato, sono quasi le dieci: venga a vestirsi per la messa. — Dovette avvicinarsi al padrone e ripeterglielo più volte, tanto il prete era fuori di sè.
Don Giuseppe cercò di ricomporsi un poco, salutò la donna e il vecchio contadino, uscì dalla canonica e, traversando il sagrato, entrò dalla porticina esterna in sagrestia, intanto che il ragazzotto uccisore dell’orsa suonava a distesa l’ultima chiamata.
Mentre Menico s’affaccendava nell’aiutare il padrone a vestirsi, questi premeva violentemente il petto con la mano lì dove il cuore pulsa, come se avesse voluto impedirgli di battere, e bisbigliava le preci.
Mosse all’altare con gli occhi a terra, senza veder nessuno; s’inchinò dinanzi ai gradini, poi andò a baciare la tavola consacrata; e nello stesso tempo ch’egli pronunciava le parole rituali faceva nell’interno queste giaculatorie: — Io sono indegno di avvicinarmi all’ara dove stanno le reliquie dei Santi; io sono indegno di essere ammesso al divin desco dove s’imbandisce il Santo dei Santi. Fate, oh Signore, ch’io non vi porga un bacio simile a quello di Giuda. Ah, Signore, salvatemi da tanta nefandità purificando il mio spirito.... Oramus te Domine.... Kyrie eleison.... Oh, dolce Signore, quanti beni avete dato agli uomini, e come questi vi restituiscono il male. Eccovi in faccia il più ingrato, il più colpevole di tutti. Perdonatemi, Signore; compatite alla mia miseria; abbiate pietà di me.... Gloria in excelsis Deo.... —
Il prete, sempre con gli occhi a terra, si voltò verso il popolo; e mentre con la bocca leggeva l’Epistola dalla parte destra dell’altare, mormorava dentro: — Agnello senza colpa, che avete voluto essere calunniato, deriso, offeso per compiere gli oracoli della Scrittura, fate ch’io possa imitare la vostra innocenza negli atti e la vostra pazienza nelle afflizioni. — Tornò alla sinistra e cominciò la lettura del Vangelo: — Munda cor meum.... Verbo grazioso nella dolcezza e nell’umiltà, fate che la dolcezza e l’umiltà non abbandonino mai il mio cuore.... Credo in unum Deum.... —
Il prete scopre il calice, lo ricopre, si purifica le mani a lato dell’altare, mostra il volto a’ credenti, e, sempre con lo sguardo basso, dice: — Orates frates. — Alza poi l’ostia, come immagine di Gesù alzato sulla croce, e, consacrato il vino, solleva il calice. — Oh sangue prezioso, sgorga insino a me quale nuovo battesimo. Oh se potessi versare il mio sangue tutto per te, il mio sangue fino all’ultima stilla.... per omnia saecula....
Il prete spezza in due parti l’ostia santa, a similitudine dell’anima di Gesù che si stacca dal corpo; mette una parte dell’ostia nel calice e la consuma picchiandosi il petto: — Domine non sum dignus.... — Indi riceve il sangue prezioso nel calice, e, dopo essersi comunicato, procede alle abluzioni: — Dominus vobiscum.... Nella ineffabile gioia di vedervi salire al cielo, oh Salvatore del mondo, sento la contentezza di possedervi ancora qui in terra; la mia fede vi adora sul trono del vostro amore nell’Eucarestia, in quello stesso modo che vi adora sul trono della vostra gloria in Paradiso....
Nel dire: — Ite Missa est — il sacerdote alzò gli occhi e vide dinanzi alla folla, seduta nella prima linea di panche, Olimpia, la baronessa, accanto al maestrino di pianoforte.
Il collo di neve ed il principio del seno candido, spiccavano nella mezza oscurità del tempio. Ella sorrideva colle sue labbra tumide e rosse, fissando gli occhi negli occhi di Don Giuseppe, lasciva e sfacciata. Il prete sentì un velo calargli sulle palpebre; non ci vide più; traballò; il sangue gli corse tutto al cuore. Un istante dopo gli corse tutto al cervello, e allora non potè più frenarsi, e cominciò sui gradini stessi dell’altare, con la voce tonante, con il gesto del Cristo nel Giudizio di Michelangelo, una predica furibonda:
— Via dalla casa del Signore i perversi e gli ipocriti. Fuori i profanatori dal tempio. Voglio impugnare lo scudiscio di Gesù per cacciare lontano questi corruttori delle anime, questi ingannatori delle coscienze, questi avidi succhiatori del danaro del povero. E voi, gente illusa, non vedete, orbi che siete, quale precipizio vi si apre sotto ai piedi? Rovinate il paese, gettate nella miseria i vostri figliuoli, la vostra moglie, i vostri vecchi per correre dietro all’inganno. Aprite gli occhi, figliuoli. Credete a me, che da dieci anni sono con tutto il cuore vostro padre e fratello, credete a me, che piuttosto di lasciare questa cara montagna morirei cento volte. Ed io vi scongiuro, come pregavo momenti fa il Signore, padrone di tutte quante le cose: ravvedetevi, tornare ai vostri costumi onesti e semplici, alla cura dei vostri armenti, all’amore di chi vi ama davvero. Avrete la pace in terra, e la gioia in cielo. Rammentatevi i comandamenti di Dio. Nel sesto i Canoni penitenziali gridano anatema contro la femmina che si imbelletta per piacere agli uomini; nel settimo e nel nono gridano anatema contro colui che ruba con la violenza, con la frode, o con le false lusinghe. Fuggite i peccatori. Dio v’aiuti e vi ispiri. —