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V.
Il prete, poichè si fu sfogato, rientrò nella sua camera livido in volto, salvo due cerchi rosei nel mezzo delle gote, con la gola arsa, con il petto divorato da fiamme interne, tossendo, sputando nel fazzoletto larghe chiazze di sangue, ma abbastanza calmo, mentre al di fuori invece la tempesta s’andava addensando contro di lui. In chiesa, nell’udire la voce terribile rintronar sotto le vòlte, nessuno aveva ardito di fiatare; ma poi, finita la predica, uscendo all’aperto, fu un bisbiglio, un interrogarsi, un esclamare, uno scandalizzarsi quasi generale. Chi non aveva bene afferrato il senso delle parole se le faceva spiegar dal compagno. La baronessa era sparita; il Capocomune era corso a dar l’ordine che sellassero il mulo, intendendo volare a Trento per ottenere, diceva, che i pazzi furiosi venissero finalmente mandati al manicomio.
Il dì seguente, appena giorno, non ostante la febbre, il curato scese a piedi nella valle, e poi da Cogo, montato sopra una carretta di contadini, andò a Malè per vedere il Capitano, il quale, ascoltate le parole del prete con qualche impazienza, gli disse che le sue proprie informazioni risultavano differenti; non c’erano pericoli; non c’era un perchè di pigliarsela tanto calda; queste cose, del resto, riguardare l’autorità civile, non l’ecclesiastica; stesse quieto dunque e tornasse a casa.
Nel ritorno il prete, avvilito, sfinito, si fermò dalla signora Carlina, che era sola. Si rammentò della lettera ricevuta il dì innanzi, e principiò con savie ragioni a tentare di confortarla; ma, mentre parlava, le lagrime gli rigavano le guance, ed ansava. La buona giovane con bel garbo lo fece tacere, lo sforzò dolcemente a pigliare un poco di brodo, un mezzo bicchier di vino e due bocconcini di una certa torta ch’ella aveva preparata con le sue bianche mani. Il prete si calmò; ascoltava la voce tranquilla, soave della poverina, la quale aveva dimenticato i suoi proprii dolori per alleviare quelli del suo caro curato. Non voleva lasciarlo andare, lo pregava a mani giunte che non si rimettesse in cammino; ma il prete, sospirando, ripeteva: — Compirò il mio dovere. —
Nell’uscire da quella casa si sentì più robusto, più leggero e più puro.
Prima di avviarsi all’erta della sua montagna volle tornare indietro una ventina di passi per inginocchiarsi ad una cappelletta. Un lumino rischiarava l’immagine della Santa, la quale, certo, non era stata dipinta nè dal Beato Angelico, nè da Raffaello da Urbino. I capelli, fatti a linee ondulate mezze giallognole e mezze rossigne, le cadevano sulle spalle, ed erano circondati da una grande aureola a raggi, simile alle ruote di un carro; aveva le guance porporine; aveva la bocca a forma di sgraffa orizzontale d’un bel colore vermiglio; e le sopracciglia dovevano essere state tracciate con le seste, prendendo a centro le pupille azzurre, tanto il loro semicerchio appariva netto e preciso. Ma quando il prete, nel fervore della sua orazione, alzò gli occhi a quella figura, gli parve che fosse uno scherzo del diavolo. Credè di vedere un’atroce caricatura di Olimpia, e subito sentì il cuore martellargli orribilmente, e si alzò disperato.
Mille idee ribollivano nel suo cervello; ma ce n’era una piccola, la quale si metteva innanzi a ogni tratto, ed era questa: — La donna infame ha sì o no le labbra, le gote e le sopracciglia dipinte? La signora Carlina aveva visto bene, o l’innocente gelosia le aveva forse offuscato il giudizio? — E al sospetto che fossero finzioni, il prete sentiva un certo vago rammarico. Poi si vergognava di quegli indegni pensieri, s’affaticava a ritrovare il filo della preghiera interrotta; ma quanto più raccoglieva le sue forze per cacciar via l’immagine della donna oscena, tanto più quell’immagine viva, imperiosa, seducente, supremamemte bella, gli si piantava ostinatamente in faccia.
Il dì seguente alle cinque del mattino il curato stava seduto nel confessionario ad ascoltare e a perdonare i peccati monotoni delle paesane. Era il dì di San Rocco, e le donne timorate, prima di unirsi con la candela alla processione, che, verso le quattro della sera, doveva avere luogo tra la chiesa del villaggio e l’oratorio del Santo, volevano mettere la coscienza in pace. Ad ogni assoluzione il prete ripeteva dentro di sè, compunto e devoto, i versetti del cinquantesimo Salmo, e, per vincere la stanchezza e la noia, riandava nella memoria i capitali precetti sul ben confessare, massime quelli dati da sant’Alfonso dei Liguori, il quale insegnò a rimanere sempre nel giusto mezzo, non declinando neque ad dexteram rigorismi, neque ad sinistram laxitatis.
Una ventina di penitenti aveva già ricevuto l’Ego te absolvo quando il prete sentì un olezzo come di viole, soavissimo, e vide dai bucherelli della fitta grata un’ombra tutta nera. In quell’incavo buio del confessionario non si potevano scorgere i lineamenti del volto, ch’erano, per di più, ricoperti di un velo nero a ricami. Il sacerdote principiò in tono pieno di benevolenza: — Ringraziamo il Signore, figliuola mia, che vi ha condotta quest’oggi al tribunale della penitenza. Non temete: io non sono altro che il vicario del suo amore, vicarius amoris Christi. Dio vuole consolarvi: fate dunque cuore; io vi aiuterò. Qualunque cosa vi sia succeduta, col soccorso divino rimedieremo a tutto. Dite dunque con santa confidenza.
— Padre, sono io.
Il prete scattò e fece per uscire dal confessionario; ma poi, credendo che fosse una tentazione del demonio, strinse la croce che gli pendeva dal collo e mormorò una preghiera.
— Padre, sono io, — ripeteva la voce dell’ombra nera, — e voglio che mi ascoltiate.—
Il prete rimase a sedere, pensando che non è lecito respingere un penitente, e balbettò, mentre grosse stille di sudore gli gocciolavano dalla fronte: — Siete pentita? Propriamente pentita? Sapete che cosa è la contrizione? È l’odio del peccato commesso con la ferma volontà di emendarsi.
— Don Giuseppe, vengo a salvarvi.
— Si tratta di me soltanto?
— Di voi solo.
— Allora questo non è il luogo. Scrivetemi.
— Non posso. Quel che vi dirò deve rimanere segreto.
— Sotto suggello di confessione?
— Sotto suggello di confessione.
— Vi avverto allora che non dovete pronunciare nomi di colpevoli o complici: i Concilii hanno riprovato formalmente queste delazioni.
— Dirò una cosa; tacerò i nomi. Don Giuseppe, siete un ostacolo; vogliono torvi di mezzo.
— Lotterò.
— Don Giuseppe, vogliono farvi morire.
— Mi difenderò.
— Vi avveleneranno domani. Badate all’ampolla del vino. Chiudete la sagrestia; mutate il vino; spezzate l’ampolla: salvatevi. Addio. — E l’ombra nera scomparve dalla chiesa, mentre il sole cominciava a indorare la cima del campanile.
Il curato ripigliò le sue confessioni con la stessa pazienza, con la identica dolcezza di prima. Tutto il giorno fu affaccendato nella processione, nelle visite dei preti della valle, ai quali dovette offrire del vino, quello ben leggiero e acidetto che aveva, ed in molti altri uffici ed impicci. Diede le disposizioni per la cerimonia della mattina seguente, giacchè la immagine di San Rocco, ch’era stata solennemente portata dall’oratorio alla chiesa del villaggio, doveva venire di nuovo riportata al suo luogo, e, salutato Menico, si rinchiuse alla fine nella propria camera più morto che vivo, benchè la febbre fosse diminuita e la tosse gli avesse lasciato un po’ di tregua.
Subito dopo la rivelazione di Olimpia il prete era diventato un altr’uomo. Le incertezze, le angoscie, il malcontento di sè, le lotte basse, che doveva combattere contro la propria immaginazione, la guerra spietata, che doveva muovere a’ propri sensi, il dubbio di essere già caduto, per causa delle sue debolezze, in qualche grave peccato: tutto ciò lo aveva incurvato della persona e prostrato di spirito. Si era tosto raddrizzato e animato; aveva tosto assunto un’aria lieta, quasi baldanzosa. — Morirò — ripeteva — morirò sull’altare. Uscirò da questo sozzo involucro di carne; diventerò puro spirito. Non più contrasti, non più rimorsi, la quiete dell’eternità.
Ma, durante il giorno, gli erano nati degli scrupoli. Poteva egli bere senz’altro? Non aveva egli l’obbligo di serbarsi alle miserie mortali per amor del prossimo? Il segreto della confessione doveva spingersi fino a danneggiare se stesso, quando il salvarsi non poteva creare sospetti verso nessuno? Cercò nelle decisioni dei Concilii, nel Rituale romano; guardò il Tractatus de Sacramento Poenitentiae; consultò gli scritti del cardinale di Lugo, del Coninck sulla Confessione; esaminò le opere di san Tommaso. In nessun luogo all’inviolabilità del sigillo erano ammesse eccezioni. Il prete anzi, con sommo sconforto, rinvenne un caso identico al suo, quello del beato padre del Buffalo, fondatore dei Missionarii del Prezioso Sangue, il quale, avvertito che il vino delle ampolle era avvelenato, andò ugualmente a celebrare la messa, si servì di quelle ampolle, di quel vino e morì. Bisogna, in una parola, che il sacerdote ignori, anche per sè, a qualunque costo, sempre, ciò che ha udito nel confessionario. Messo bene in sodo questo punto essenziale, e ringraziato con caldissima effusione il Cristo dell’inginocchiatoio, il curato si pose a letto, dove trovò, dopo tante tempeste, un sonno lungo e placido.
Menico dovette scuotere più volte il corpo delicato del prete prima che questi riescisse a destarsi bene.
Buon pro le faccia, signor curato, — disse il vecchio bisbetico. — È ora di alzarsi. Non sente che suonano per la messa?
— Vengo, vengo, buon Menico. — E in venti minuti era già parato in sagrestia, e ripeteva, beato, il Veni Creator. Entrò in chiesa come se entrasse in Paradiso; aveva gli occhi esultanti; il suo incesso non era mai stato così maestoso; la sua persona non era mai stata così superba; sembrava ch’egli, raggiando, salisse i gradini del trono di Dio. Introibo ad altare... Introibo ad altare... e Menico, che doveva risponder messa, non capitava. Finalmente entrò dalla porticina della sagrestia, recando sul piccolo vassoio le due ampolle di vetro, e s’affrettò verso l’altare. Ma, mentre passava, un’ombra vestita di nero, col velo che le copriva la faccia, s’alzò, e come se volesse precipitosamente uscire di chiesa, diede di cozzo al vecchietto piccolo, sicchè vassoio e ampolle andarono per terra. Si sentì un gran fracasso, e le ampolle si ruppero in cento pezzi. Il vino e l’acqua formarono due rigagnoletti.
Non si può dire la confusione che ne nacque. Chi è stato, chi non è stato? Una donna. È fuggita. L’ha fatto apposta? E quello sciocco di Menico! Ora come si farà? Non si dirà più la messa. Bisognerà riconsacrare la chiesa. È una minaccia del cielo. — Andate a pigliare le boccette nell’oratorio di San Rocco. —
Questo consiglio fu immediatamente seguito, e, dopo un quarto d’ora, la messa potè ricominciare. Dopo la messa ebbe luogo la processione, con i relativi stendardi, le solite bambine vestite da angioletti, i soliti incappati di rosso e di verde, ed i consueti brontolii. La statua di San Rocco, in legno colorito, con il suo cappellone a larghe tese, la conchiglia del pellegrino e la mano che mostra le piaghe della gamba, fu rimessa nella nicchia dell’oratorio, e la cerimonia ebbe fine. Il curato aveva estremo bisogno di rimanere solo.
Entrando nella canonica, vide in piedi vicino alla finestra dell’andito due persone, che lo dovevano certo aspettare. Erano il Capocomune ed un ecclesiastico, appena giunti da Trento. Li pregò di mettersi a sedere; ma l’ecclesiastico, in attitudine umile e compunta, porse al curato una grande lettera, suggellata con le armi di Monsignor Vescovo. Il curato, lette le prime righe, impallidì e chiese licenza di ritirarsi per un momento nella sua camera. Appoggiò al muro le spalle e continuò a leggere, poi cadde sulle ginocchia di contro al Cristo sanguinoso e pregò alcuni minuti.
La lettera sospendeva il prete dalle sue funzioni di curato, gli ordinava di consegnare immediatamente la chiesa con tutti gli oggetti sacri, e la canonica con tutto ciò che non fosse di proprietà sua personale, all’ecclesiastico esibitore del foglio, d’accordo, per ciò che potesse riferirsi alla potestà civile, con il signor Capocomune. Quanto alle ragioni di una ordinanza tanto severa era detto poco. Si citava questo precetto: Parochus debet, in quantum potest, cum debita prudentia scandala de medio tollere; ora, non solamente il curato aveva mancato di prudenza nel cercare di togliere via gli scandali, ma ne aveva fatto nascere di nuovi e gravissimi, senza volersi fermare alla sua condotta sospetta, o per lo meno incauta anche rispetto alla morale. Perduta oramai ogni autorità nella parrocchia, doveva lasciar ad altri il suo ufficio. — Firmato: Giovanni Vescovo.
L’ordine era perentorio; bisognava ubbidire. Chiamò Menico, pregandolo di fare senza indugio un involto della sua poca biancheria, della veste talare, di un paio di scarpe, di tre o quattro volumi teologici: nient’altro. Si mise in tasca i ritratti in dagherrotipo del padre e della madre defunti, ed uscì nell’andito, dicendo: — Sono pronto. Principiamo, se credono, dalla sagrestia. —
L’ecclesiastico così subito non voleva; facesse il comodo suo; v’era tempo; desiderava anzi mostrargli la propria costernazione; bramava che si sapesse come non avrebbe accettato senza il vincolo della santa ubbidienza. Don Giuseppe insistette, e si principiò la consegna oggetto per oggetto. La faccenda non avrebbe dovuto riuscire lunga, tanto la chiesa era povera e l’armadio della sagrestia piccolo; ma il nuovo curato voleva esaminare tutto appuntino, e con voce untuosa, con accento mellifluo notava: — O Dio, com’è sudicio! Santa Vergine Maria, com’è stracciato! Ne manca un pezzo! V’è una macchia d’olio! Che pitoccheria! Che indecenza! — Vi fu un istante in cui Don Giuseppe guardò nel viso il pretino soave, poi disse con la frase rotta e rapida dell’impazienza: — Reverendo, la parrocchia è tanto misera! Ho dato per la chiesa tutto quel poco che avevo, tutto fino all’ultimo centesimo: non ho saputo far meglio. Compatisca. — L’altro diventò ancora più zuccherino e ostinato. Nominava in latino gli oggetti e li esaminava uno ad uno meticolosamente: Purificatorium lineum.... è tutto sfilacciato! Mappa triplex ex lino vel cannabe confecta.... vi sono due buchi, anzi tre, anzi quattro! Calix et patena.... di ottone, e quante ammaccature! Missale cum puvillo.... non c’è un foglio che abbia l’angolo intiero! Paramenta albi, rubri, viridis, violacei et nigri coloris.... oh che colori sbiaditi, non si distinguono più l’uno dall’altro! Bursa, velum, manutergium.... roba da buttar via! Ampullæ vitreæ.... — Le ampolle non c’erano; e qui la faccia del novello pastore assunse una espressione tra lo scandalizzato, il disgustato e il pietoso, chinando il capo a sinistra e giugnendo le mani all’altezza della bocca.
Nella canonica Don Giuseppe disse: — Lascio tutto, eccetto, se permettono, questo fardello, — e mostrava la roba che c’era dentro. Continuò lesto, come se le parole gli bruciassero le labbra: — Prego il signor Capocomune di accettare in mia memoria questo fucile da caccia; prego il reverendo signor curato di distribuire ai poveri del paese un poco di danaro, a giudizio suo, in compenso di questi mobili, di tutti questi oggetti, che sono mia proprietà e che abbandono alla canonica. — L’ecclesiastico, grave e contegnoso, dopo avere ben guardato in ogni angolo della stanza, assentì col capo. La voce di Don Giuseppe ripigliò fioca, strozzata dal dolore: — Mi faccia poi una grazia, reverendo: ai miei.... scusi, ai suoi buoni parrocchiani rechi l’ultimo addio del povero pastore senza gregge. Li ho tanto amati, e devo partire, dopo dieci anni, senza salutarli con una sola parola d’affetto, e nell’andarmene sento l’anima straziata ed il corpo disfatto, e mi restano pochi giorni di vita, ma in questi pochi giorni pregherò per essi come il padre prega per i suoi cari figliuoli. — Le lagrime spuntarono negli occhi di quel disgraziato.
Dalla via che conduce tosto fuori del paese, il prete, in compagnia di Menico, s’avviò rapido giù per la china; ma, dopo un centinaio di passi, si fermò come avesse scordato una cosa di suprema importanza. Stette un poco a pensare, poi, dandosi coraggio, tornò indietro e bussò alla canonica. Quando il nuovo curato se lo vide ancora davanti, non potè trattenere un moto di dispetto; e Don Giuseppe, confuso, pauroso, bisbigliò: — Perdoni, reverendo; un minuto solo; abbia pietà del misero prete, ch’ella non vedrà mai più. Il suo cuore sia generoso, senta, non s’adiri, mi faccia un dono, il più gran dono ch’io possa ricevere in questo mondo. — L’altro aveva negli occhi l’impazienza, lo sprezzo, l’avarizia, ma sulle labbra il suo perpetuo sorriso. Don Giuseppe continuò, sempre dalla porta, timidamente, umilmente, al modo di uno che implori l’elemosina: — Nella camera v’è un Cristo in croce, il solo conforto mio, e lo ho pregato sempre, e sempre mi ha aiutato, e sempre mi ha salvato dalle tentazioni della carne. Senza quel Cristo non potrei più vivere, nè morire. Reverendo, abbia compassione di me, mi regali quel Cristo. —
Il nuovo curato si avvicinò all’inginocchiatoio e guardò la figura: l’intaglio era grossolano, la dipintura goffa, con il rosso grumoso del sangue, che sprizzava dalla fronte incoronata di spine e sgorgava dalle ampie ferite del costato; e le membra da cadavere si contorcevano tutte; e la lunga e magra e livida faccia metteva disgusto e terrore. Il degno sacerdote staccò dalla parete il Cristo e lo porse a Don Giuseppe, dicendo: — L’immagine del Figliuolo di Dio mi piace più benigna e più bella. La religione non dev’essere uno spauracchio da bimbi e da perversi; e le anime dolci, come la mia, anelano la dolcezza. Prenda e vada con Dio. —
Menico aspettava fuori del villaggio, tenendo in mano il fardello, e insistette per portare anche il Cristo, ma Don Giuseppe non volle. Lo aveva involto in uno straccio di tela verde, ma lo teneva sotto l’ascella cautamente, come fosse stato di vetro; era in fatti di legno tanto tarlato e di pezzi così male incollati insieme che certo, cadendo in terra, non sarebbe rimasto intiero.
Padrone e servo si guardavano sovente, senza pronunciare una sillaba. Cominciava a imbrunire e la strada era deserta. Il prete sentiva una spossatezza simile a quella che segue le grandi febbri, e aveva la fronte bagnata di sudore; si mise a sedere sopra un sasso, quasi in terra, nascondendo la faccia nelle palme delle scarne mani e posando i gomiti sulle ginocchia; pianse; poi, rialzando la testa e guardando Menico, disse: — Eppure, Menico, io non sono colpevole. Non ho fatto, ch’io sappia, niente di male. Ho resistito al demonio; l’ho vinto. Ho amato i miei parrocchiani. — E tornò a nascondere il volto ed a piangere.
Menico si fece coraggio, e chiese finalmente quel che voleva domandare da un pezzo: — Signor padrone, dove intende di andare?
— Fino a Cogo, per questa sera.
— Ma poi?
— Non lo so.
— E allora?
— Mi affido alla Provvidenza.
— La Provvidenza, va bene; ma, scusi, signor padrone, ha danari in tasca?
— No.
— Già non ne poteva avere. Li consegnava tutti a me, che facevo le spese. Ma se non me ne ricordavo io.... — e porse al padrone un vecchio portamonete, soggiungendo: — Vi sono cento lire.
— Cento lire, in che modo? Io non posso averti consegnato tanto.
— Sì, signor padrone.
— Dimmi la verità.
— Ebbene, c’è dentro qualche cosa de’ miei risparmi.
— Tutti, rispondi il vero. E vuoi restare senza nulla?
— Ho bisogno di poco.
— Sei un cuor d’oro; ma non voglio. Accetterò venti lire.
— Sessanta per lo meno.
— No, venti.
— Eccone venti sole, — e Menico diceva una bugia. Ne aveva lasciate sessanta.
— Ora va, Menico; è vicina la notte; pare che voglia far temporale; dammi il fardello e torna al villaggio.
Il vecchietto non voleva a nessun patto; intendeva scendere almeno sino a Cogo e passarvi la notte: il dì seguente il cielo avrebbe provvisto. Ma in realtà Menico, già stracco motto, camminava zoppicando e inciampando in tutti i sassi della via, sicchè per forza si dovette fermare. Allora il prete, dando un bacio sulla fronte al vecchio che piangeva, gli disse addio. Nemmeno il cane da caccia, il quale aveva seguito il suo padrone saltellandogli intorno, voleva tornare indietro; e Don Giuseppe, mentre lo accarezzava, esaminò nella propria coscienza se gli fosse lecito d’ora in poi ricevere un qualche conforto dal gaio affetto della bestia fedele, ma concluse dentro di sè vergognandosi del desiderio profano e mormorando: — Per me la terra non deve più avere nessuna consolazione. — Il cane, legato ad una funicella e tirato da Menico, si contentò di rifare con la coda fra le gambe il cammino alle calcagna del vecchio, il quale andava a passi di lumaca; e la bestia, inquieta, insospettita, mandava degli ululati lunghi, strazianti, che si diffondevano come voci di triste presagio nel silenzio delle montagne.
Quando il prete non potè più vederlo, Menico si sdraiò sull’erba, brontolando: — Gliel’ho fatta. Egli crede che io ritorni al villaggio; invece mi riposo un’oretta, e poi scendo a Cogo a raggiungerlo, e sarà bravo chi mi potrà staccare da lui. — Di tratto in tratto ripeteva: — O che caso, o che brutto caso! —