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Vade retro, Satana - 5 Macchia grigia



VI.


Il prete restò solo.

La via piegava in quel luogo, entrando a ghirigoro in un’altra vallata stretta, dalla quale non si poteva più scorgere il villaggio alpino. Don Giuseppe si voltò per guardare la sua chiesa, il suo monte, e fissare gli occhi ancora una volta sui ghiacciai della cima, che staccavano biancastri sulle nubi nella luce d’un crepuscolo grigio e monotono. Il pover’uomo non tossiva, non sentiva nessun bruciore nel petto, non aveva quella febbriciattola e quelle subitanee accensioni da cui era tormentato quasi continuamente: ringraziò il cielo, che gli dava un’ora di salute il giorno in cui gli aveva tolto ogni altra cosa mortale. Solo provava uno sfinimento di tutte le membra, il quale non era privo di una certa dolcezza, e metteva l’animo in uno stato di vaga e come sognante ebrietà.

Passando dal paesello di Ledizzo, alzò gli occhi alle finestre della casa dove abitava la signora Carlina. Ella che guardava appunto nella via, aspettando il dottore, vide negli ultimi bagliori della sera camminare lentamente il suo buon Don Giuseppe, e lo salutò, e tutta allegra lo pregò di salire. Al prete infelice la voce purissima di quella ingenua creatura parve scendesse dalle alture del cielo. — È l’angelo buono — mormorò, e questo pensiero gli richiamò nella fantasia con la rapidità del fulmine l’angelo cattivo, il demonio terribilmente bello: allora, scoperto dal drappo verde sdruscito il volto sanguinoso del Cristo che teneva sotto l’ascella, gli impresse un bacio disperato, come se invocasse da quel legno la propria salvezza.

Ma la signora Carlina insisteva: — Venga su, venga, signor curato; ho tante cose da dirle. — Il prete non rispose, e tirò di lungo; ma, dopo venti passi, mentre stava di fianco alla cappelletta, ove s’era fermato due giorni addietro, non potendo più reggersi sulle gambe, sentendosi vacillare e mancare, vi entrò. Al chiarore incerto del lumino, l’immagine goffa della santa gli tornò a sembrare il ritratto infernale di Olimpia.

Trascorse una mezz’ora. La signora Carlina, che aveva visto il prete entrare nella cappella, dalla quale si spandeva in un breve spazio di via un fioco barlume, non vedendolo uscire, impensierita cominciando a insospettirsi di qualcosa, scese con la fantesca e andò ella stessa a vedere. Don Giuseppe, accasciato in un angolo, non dava segno di vita: le braccia penzoloni, il capo reclinato all’indietro, gli occhi spenti, la bocca da morto. Fu chiesto aiuto, e il corpo del povero prete venne sollevato, portato piano piano alla casa del dottore e adagiato sul letto nella camera della signora Carlina, la quale aveva mandato a chiamare in gran furia il marito lì dove poteva essere a quell’ora, dalla baronessa, nelle osterie. Ella con dita leggiere, trattenendo il respiro, slacciò il goletto del prete, gli sbottonò la sottoveste, e pose la mano sinistra sul petto nudo, spiando le pulsazioni. Le parve di sentire che il cuore battesse; allora, buttatasi con le ginocchia a terra, ripetè più volte: — Il mio buon Don Giuseppe, oh Dio di misericordia, salvatemi il mio buon Don Giuseppe! — Poi tornava subito a sentire se proprio il cuore batteva. Il prete mandò un sospiro così lieve che non avrebbe mosso la fiamma di un cerino; ma la giovine donna che se n’accorse e sulle labbra della quale spuntava il bel sorriso della speranza, avvicinò una guancia alle labbra livide dell’infermo per accertarsi se ne uscisse davvero un poco di fiato. L’infermo respirava, e aprì gli occhi trasognati, ma le membra restarono irrigidite. La prima cosa ch’egli domandò e che la signora Carlina comprese più dal moto della bocca che non dal suono della parola, fu questa: — Il mio Cristo, il mio Crocifisso. — Lo avevano trovato infatti, adagiato accuratamente sopra il fardello nell’oratorio, e lo avevano recato in camera. La signora Carlina, alzandosi in punta di piedi, mise la estremità del braccio inferiore della croce sul cassettone e appoggiò il Cristo alla parete, dritto, in faccia alla testiera del letto, sicchè il prete, senza muovere il capo, lo potesse guardare. La croce spiccava negra sulla tinta chiara e tersa del muro, in mezzo a due litografie colorate, chiuse tra filetti d’oro, l’una delle quali figurava Paolo e Virginia al guado, l’altra la morte della fanciulla e l’amante che se ne dispera.

Il Cristo sanguinoso e sconquassato sembrava più terribile che mai nella pulitezza linda e leggiadra della camera, dove non c’era una macchia od un granello di polvere: le tende di bucato a bei fiorami inamidate, i parati del letto bianchi a disegni di rilievo e a merletti usciti dalle dita sapienti della padrona di casa, e ricami a lane di ogni colore sulle poltrone e sulle seggiole, e fiocchi e nappe e passamani condotti da lei pensando, sognando un paradiso ingenuo, modesto, virtuoso, nel quale vagava da un po’ di tempo questo desiderio indistinto, che il suo Amilcare somigliasse al suo buon Don Giuseppe.

Don Giuseppe, che non fissava più il Cristo, aveva mutato faccia: sembrava spaventato e nello stesso tempo attratto da una visione; sbarrava gli occhi verso il soffitto per vedere meglio, e apriva la bocca sporgendo le labbra come per aspirare qualcosa. Bisbigliava con la voce esile, ma ora piena di terrori, ora piena di esaltamenti: — Vade retro, Satana. Lucifero. Bella, bionda e infame, la tua mano è una tenaglia rovente. Nascondi il piede ed il seno. Taci.... Don Giuseppe il tuo amore, voglio il tuo amore; sono la tua schiava; un bacio.... Indietro, Lucifero. No, vieni, vieni, tentatrice, in mezzo alle fiamme; ti abbraccio. Dammi le labbra, lasciamele succhiare; voglio vedere se le hai colorite di rosso. Guardami con i tuoi occhi celesti; lasciami esaminare quei lividori lì sotto se sono l’opera del pennello o l’opera della lussuria. Sozza e santa, i tuoi capelli brillano di raggi d’oro, più lucenti d’un’aureola, più splendenti di un nimbo. Copriti, per carità. Non posso fissare gli occhi nel tuo collo, nel tuo petto: come i ghiacciai sugli alti vertici delle mie montagne quando il sole di mezzodì li illumina in un caldo giorno di estate, il tuo collo ed il tuo petto mi accecano. Ahi, non istringermi tanto con quelle tue braccia morbide e rosee, che mi fai male. Sì, stringi, soffocami, stritolami, fa’ presto: vedi le fiamme che guizzano intorno a noi e già ci ardono i piedi, le gambe, il cuore, la testa.... —

La signora Carlina ascoltava con l’orecchio teso; aveva le guance rosse di vergogna e gli occhi pieni di lagrime. Ripeteva: — Anche lui, anche lui! — e si copriva la faccia con le due mani. A troncare il vaneggiamento che le straziava l’anima, alzò il capo del prete, volgendolo dalla parte del Crocifisso, e gridò: — Guardi, Don Giuseppe, il suo Cristo. — Gli occhi del delirante caddero sulla croce, e a poco a poco una influenza benefica agì dentro di lui; si andò calmando; le labbra cominciarono a biascicar preghiere; il viso bianco si rasserenava, riprendeva la sua tranquilla, dolce, innocente, quasi eterea espressione; e la signora Carlina, riconfortata, esclamava: — Così siete bello, mio buon Don Giuseppe: adesso il cielo vi si specchia nel volto — ; e il prete respirava più libero, e già poteva stringere con la propria mano la mano della ingenua infermiera. Lenta lenta, ella avvicinò la sua bocca pura alla fronte pura di lui. Don Giuseppe non se n’accorse: guardava sorridente il suo Cristo.

In quell’istante s’udì un gran fracasso alla porta di casa, poi un passo incerto e pesante fece scricchiolare la scala di legno, e il dottore, ubbriaco, entrò nella camera sbattendo violentemente sugli stipiti l’imposta dell’uscio. A quell’urto i mobili oscillarono. Allora il Cristo, perduto l’equilibrio, precipitò a terra, rompendosi in tanti pezzi. La testa rotolò in un angolo della stanza; le braccia, le gambe, il torso, si sparsero qua e là; il rosso del sangue pareva sgorgasse dalle membra squartate. Il prete, avendo seguito con lo sguardo quella distruzione, invaso da uno spavento infernale, stravolto, contraffatto, orribile a vedersi, mandò un urlo che gli spezzò il petto.

Quando il medico, fetente di acquavite, s’avvicinò al letto, Don Giuseppe era morto.

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