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SERMONE DECIMOSESTO.
LA FAMIGLIA.
Imen di rose incoronato ai vati
Piacque favoleggiar. Ma chi d’intorno
Il guardo volga a rimirar, s’avvede
Che se dell’odorifera ghirlanda
5Fuor delle spine altro non resti, almeno
O di gravi papaveri le tempie
Spesso s’adombri, ed i leggiadri sogni
Da malefiche larve in fuga vôlti
Indarno chiami, e di se stesso mova,
10Più che a invidia o pietà, quasi a disdegno
Il numeroso stuol, ch’avido in cerca
Del facile piacer che gli promette
La irrequïeta e mobil fantasia
Liberamente svolazzando corre.
15Non io dirò, che simulato ad arte
De’ poeti la favola ritragga,
Vana lusinga, un ben ch’entro ai confini
Mai non posi del ver; chè sotto il velo
Delle leggiadre imagini più bella
20Del ver la faccia mi sorride e parla.
Come al tornar della stagione amica,
D’erbe e di foglie si riveste il prato,
La selva, il monte; e colle tiepid’ali
L’aura, lambendo i calici odorati
25De’ fiori, sparge insolita fragranza;
E le fronde scherzosa agita, e increspa
L’onda del picciol rivo, in cui si specchia
Il sereno del ciel; così benigna
All’uom natura nell’età fiorita
30Di porpora le guance gli colora
E di gioconda sanità l’avviva,
A lui d’intorno diffondendo i raggi
D’incantevole luce onde sfavilla
Il guardo, il labbro; e le riposte fibre
35Della mente e del core un ardor novo
Con fremito dolcissimo gl’investe.
Agli scherzi innocenti oh! qual succede
Incerto desïar che non ha posa?
Quale arcano poter par che ne inviti
40A sospirar col morïente giorno,
A ricercar ne’ taciti recessi
Le note piante, che del cor ministra
La man lasciò di cari segni incise?
È una occulta virtù, che della vita
45Le meraviglie ognor serbando, allegra
Ognor di nova giovinezza il mondo,
Se l’inerte materia attragga o spanda,
Se di fecondo umor gli arbori investa,
E se quanti animali in terra sono
50Per l’aere o il mare a coppie vaghe inciti.
Ma quando punge di amorosa cura
L’uom, che il talento alla ragion sommette,
Più che de’ sensi l’impeto, i soavi
Moti dell’alma a soddisfare intende.
55E l’anima, che quasi pellegrina
In cerca move della sua compagna
Come le addita la materna stella
Onde trassero il vol, paga si rende
Se alfin la incontri, a lei si aggiunga e l’ale
60Con essa porti alla dimora antica
Dove il raggio d’amore eterno splende.
Fama è, che l’uman gregge errasse ignudo
Per le foreste, alle feroci belve
L’orrido cibo a disputar costretto,
65Finchè di stabil norma ordine certo
Non s’ebbero le nozze. Indi le prime
Are, che al nume e alla famiglia sacre
Furon tempio ed asilo e stanza all’ombra
Delle leggi securi; indi le prime
70Del consorzio civil salde radici,
Da cui mirabilmente si diffonde
Per moltiplici rami un umor vario,
Che d’ogni gentilezza il frutto porta.
Male abbiasi colui, che a dar di piglio
75Negli antichi retaggi e a far che nuovi
Non sorgano a turbar l’egual misura
Dello scotto comun, sognò con empia
Mano scrollare e rovesciar dal fondo
Dei domestici lari il fondamento.
80Allora, ei disse, più gl’industri padri
Non suderanno a cumular pe’ figli
Tesori invidïati, a cui non puote
Un obolo sottrar la scarna plebe.
Allora.... Incauto! allor fia spento il seme
85Da cui rampolla per diverse e mille
Guise dell’arti la gentil dovizia,
Degli uomini sostegno ed ornamento.
Lo scarso pane allor forse più grave
Renderà il desco delle accolte turbe,
90Cui del bisogno il pungolo vivace,
De’ lor cari l’affetto, e la speranza
Eguale all’opra il molle ozio non turbi?
Oh! di qual nebbia l’età nova ingombra
Le menti, dotta in fabbricar romanzi
95Più che sistemi, e i cardini del mondo
A minacciar, più che l’afflitte genti
A ricomporre con giustizia e fede.
Odio e livore seminasti, e côgli
Infamia e pianto, e per tuo mal disciolto
100Il freno al lusingar baldo e fallace
Colla mentita libertà ne adegui
A servaggio comun. Ma il duro tema
Omai si lasci, e al primo segno miri
Dirittamente del mio verso il dardo.
105Quale nocchier, che male esperto avvisi
Uno scoglio evitare e in altro offenda,
È l’uomo che del ben dello intelletto
Usar non sappia o ad abusar declini.
O sia che al saggio antivedere il varco
110Ignoranza gli chiuda, o sia che vinto
Dalla cieca libidine si prostri
Ove del vero lume il raggio è muto.
Tal di una razza immemore tu vedi
Il propagarsi con veloce vena,
115Che ai dissipati rivoli pur manca
Il dono di perenni e limpid’acque,
O ben disposto letto in cui si accolga
O s’indirizzi il fecondato corso.
Oh! quale di pietà senso m’accora
120In riguardar di numero cresciuti,
Quanto di forza e di vitale umore
Perdono i poverissimi zampilli
In magro stagno e livido conversi
Più ad intristir che a ristorare il campo,
125Cui debbo ognun di più benigne piante
Più diffusa donare ombra secura.
Razza infelice, te fatta crudele
Madre d’infelicissima progenie
Grida e condanna e non corregge il mondo.
130E delle antiche tenebre ti aggrava
La mente sì, che del tuo meglio ignara
All’oggi guardi e del diman non curi.
Indi l’ozio infingardo e la proterva
Compagna indivisibile, che pane
135Chiede ed invola, e pria di sangue il lascia
Tinto che di sudor stilla lo bagni.
Se per infetto germe si matura
Di cento rami attossicato frutto,
Qual fia che di virtude ornata prole
140Dalla trista propaggine discenda?
Biasmo eterno a colui, che alla sorgente
Del mal non badi, e il danno e la vergogna,
Infin che basti, a prevenir non tenda.
Già la rigida sferza dalla stanca
145Mano gli cade, e se pietà lo vince,
Alla ferita il balsamo vien manco.
Che se di fida scorta ancor si tardi
L’aiuto salutevole, che affreni
Dell’istinto brutal la cieca foga,
150Vedrai di novo e più lurido armento
Popolata la terra, onde ricambio
Avrà funesto dei negati uffici
Dalla improvida schiatta, a cui l’umano
Nome e sembiante ad accusar sol resta
155Della parte miglior la lunga offesa.
A questa di compianto altra succede
Scena di sprezzo degna, ove del puro
Aere si offusca il lucido sereno
Dall’aleggiar che torbido e frequente
160Fanno scorrette ed avide farfalle;
Mentre di fiore in fior volando i casti
Ne rapiscon profumi, onde schernite.
E del nativo onor povere e ignude
Languon le foglie sul piegato stelo.
165Tempo fu già che ad opere gagliarde
La balda gioventù crescea ne’ campi
Aspri perigli a disfidare avvezza.
E l’ardito garzon più forte in petto
S’accendeva alle imprese alte e leggiadre
170Quando in cor gli siedea l’immagin viva
Dell’adorata vergine, che i primi
Gl’infuse e gli donò sensi d’amore.
Or nelle piume morbide si cerca
Novella fama ai duri padri ignota,
175Che nell’armi sudaro, ignota ai tardi
Mansueti nepoti, a cui di pace
Gli studi e le laudate opre fur care:
Sì che deposta la fierezza antica
Sorgesse a nova civiltade il mondo.
180Se agli atti guardi e ai portamenti, oh! quali
Uomini no, ma vili femminelle,
A noi procaccia il languido costume,
Che di squisita gentilezza il vanto
Usurpa e morta dalla sciocca gente.
185Quando alla patria accresceran decoro
E potenza ed imperio i ben provati
Fra le tozze ed i giochi incliti figli,
Cui del trivio e de’ garruli ridotti
La facil sapïenza e il lento giova
190Ozio procace! Delle oneste e belle
Donne il sorriso, già premio e conforto
A fatti egregi, più delle sopite
Virtù non basta ad eccitar favilla;
Chè del volgo profano all’occhio è schiusa
195La via che solo a voluttà conduce.
Ed il profano volgo i riti sfugge,
Onde s’eterna l’amorosa fiamma
Di puro foco accesa. O più dal cieco
Senso, che da ragion prende consiglio
200Se pur li segua, il giovanil talento
Piegando là dove la meta è oscura,
Breve la gioia, il pentimento acerbo:
O tratto sia dove trabocchi il peso
Della bilancia, che il molt’oro libra
205Coi titoli fastosi e cader lascia,
Inutil pondo, i non mercati doni
Della mente e del core; sia, che fatto
Già pel lungo vagar fracido e stanco,
Cerchi alle sazie voglie e al grave tedio
210Ésca novella e refrigerio e scampo
Negl’importuni talami, che agghiaccia
Indifferenza, od agita il sospetto
Cupo, discordia rea turba e contrista.
Dal funesto spettacolo la fronte
215Imen ritorce per vergogna ed ira;
E di sue gioie placide consola
La schiera eletta che, rimosso il piede
Dal lubrico sentiero in cui l’altezza
Si toglie del salire, i vanni scioglie
220Alla splendida cima, onde secura
La folgore guizzar mira fra l’ombre
Delle nubi soggette; e tanto n’ode
Il fragoroso tuon, quanto più salda
In sua proposta duri e di più bella
225Pietà si pinga per l’altrui sciagura.
Nella parte serena, ove s’irraggia
A più candida fe, tale una santa
Comunanza di affetti e di pensieri
Regna, che del suo amor la fortunata
230Schiera mai l’astro impallidir non vede.
Arbor felice, cui di lieti fiori
Inghirlandava il giovinetto aprile,
Se autunno mova ad appannarne il verde
Delle foglie caduche, altero mostra
235Al dolce incarco dei maturi frutti
Curvati i rami, e con paterno orgoglio
Porge suoi doni e dell’altrui conforto
Quasi s’allegra ed onor novo acquista.
Ma cento volte e più felice quella,
240Che degli antichi padri il capo adorna
Veneranda canizie, allorchè i lunghi
Giorni ricorda non indarno spesi,
Ed i cresciuti a generosi esempi
Figli, diletta ed unica speranza
245Di più degno avvenir, sì che la stolta
Usanza vinta da civil costume
Si rinnovelli migliorando il mondo.