Questo testo è completo, ma ancora da rileggere.
Traduzione di Carlo Bini (1842)
XIX secolo
Questo testo fa parte della raccolta Scritti editi e postumi


SISMONDO DE SISMONDI


DI ALFREDO REUMONT



L’Italia più d’ogni altro paese ha sempre attratto ed occupato di sè i forestieri; nè intendo per questo ch’ella se n’abbia a rallegrare; poichè cosa abbia fruttato questa forza d’attrazione, osservata sotto l’aspetto politico, noi lo vediamo ogni giorno con gli occhi nostri senza bisogno di svolgere le pagine dei suoi annali, e sotto l’aspetto letterario ce lo dimostrano quelle infinite sozzure, le quali anno per anno riboccano dai torchi di Francia, d’Inghilterra, e sopratutto d’Alemagna, il perchè fu detto ingegnosamente l’Italia essere stata mai sempre oltraggiata in antico dalle armi, e adesso dalle penne dei Barbari che la visitano. – Ma per fortuna, e come ragion vuole, non sono mancati mai a quando a quando uomini ragguardevoli, che facessero questa terra soggetto dei loro studi, e massimamente nel genere storico gl’Italiani vanno debitori d’assai ai forestieri. E per non dire dei più antichi, e di quei tanti che trattarono la Storia delle Arti, Roscoe, Hallam, Shepherd, Perceval, Ginguené, Daru, Fauriel, Artaud, il Duca de Luynes, Lebret, Bouterweck, Voigt, Schlosser, Savigny, Raumer, Hurter, Rancke, Witte, Leo, Gervinus, Barlhold, Höfler, C. Meyer, Rudelbach, Gaye, Papencordt, Dönniges, ed altri molti, hanno pagato un ricco tributo di devozione e di affetto al bel paese ove il sì suona. Ma più di tutti è da nominarsi il Sismondi, e per quanto egli si occupasse seriamente d’altri popoli ancora, e d’altri paesi, il suo cuore appartenne all’Italia, e agli Italiani, e s’immedesimò nella gloria e nella grandezza di lei, e partecipò caldamente ai suoi avversi destini, considerando quella terra come sua patria, e come amici e fratelli i suoi abitatori.

Gio. Carlo Leonardo Sismondo De Sismondi, nacque a Ginevra il 9 maggio 1773. Egli apparteneva a famiglia di origine Toscana, e nel Canto XXXIII dell’Inferno di Dante, Ugolino della Gherardesca insieme ai Gualandi e ai Lanfranchi rammenta i Sismondi tra le grandi casate di Pisa. Al principio del Secolo XVI questa famiglia cambiò l’Italia colla Francia, e dipoi colla Svizzera francese. Egli non aveva anche bene 20 anni, che la Rivoluzione lo cacciò co’ suoi in Inghilterra, e ritornato lo multò di pecunia e di prigione, poi lo ricacciò di nuovo, ma questa volta in Toscana, dove sulle prime, e durante la conquista francese, ebbe a sostenere più e diverse vicende. Per la qual cosa nel proemio agli Studi sull’Economia politica si esprime per tal modo: «Per lo spazio di 16 anni io sono stato iteratamente il giuoco delle rivoluzioni, che la lotta cominciata nell’ottantanove suscitò in ogni parte del corpo sociale. Ho sofferto nella persona e negli averi, e ho riguardato da vicino le passioni del popolo mescolandomi a quelle, e così ogni studio e meditazione di cui fossi capace ho congiunto a quella esperienza che mi diedero gli avvenimenti, dei quali talvolta mio malgrado fui testimone».

Sulla riva destra dell’Arno tra Firenze e Lucca giace una grande vallata per dove scorre la Nievole, che le dà il nome, in alcuni luoghi paludosa e malsana, ma più in antico, perchè nelle battaglie di quei vicini stati fino ai tempi del gran Castruccio interi eserciti su quel suolo perivano, ed oggi assai meno, perchè il male in gran parte fu rimediato. La valle però nel complesso è oltremodo fertile, e coltivata accuratamente a guisa d’immenso giardino, traversata da una fila di colline ricche di viti, e a settentrione difesa dalle selvose e pittoresche montagne di Pistoia. Chi poi da Pistoia movendo scende giù per le forre di Serravalle alle salutifere e frequentate sorgenti di Montecatini, e di là si reca alla deliziosa Pescia capoluogo della valle, comprende appieno la bellezza di questo paese, di cui il Sismondi ritrasse con sì liete immagini l’agricoltura, e gli uomini. A Pescia pertanto dimorò lungo tempo il Sismondi, rattenendolo ancora i legami di famiglia, perchè la sua sorella Sara si maritò con un gentiluomo assai riputato del luogo, Antonio Cosimo Forti, il di cui figlio Francesco, giovane di bellissimo ingegno, e giureconsulto profondo, fu rapito troppo presto alle scienze; e quivi più tardi egli si comperò un possesso, e in ultimo vi passò molte ore felici nel 1836, e 37. E fu nella sua lunga dimora in Toscana, che gli si destò nell’animo l’idea di scrivere la Storia d’Italia del Medio-Evo; e con quella diligenza e tenacità proprie di colui, che dalle indagini severe del soggetto aveva inferito e misurato la grandezza e le difficoltà dell’impresa si consacrò a quegli studii, che dovevano abilitarlo all’esecuzione del suo disegno. E circa il 1800 principiarono le sue ricerche, e otto anni dopo comparve la prima parte della Storia delle Repubbliche Italiane del Medio-Evo. Tornato a Ginevra continuò i suoi studii, tenne lezioni di Storia politica e letteraria in un cerchio d’uomini e di donne, prese molta parte nel governo e negli affari, fece lunghi viaggi nella sua patria, in Inghilterra, in Alemagna, e visitò da capo l’Italia, di cui apprese a conoscere ogni luogo, di cui prediligeva gli abitatori, e dove trovò tante e siffatte accoglienze, e cortesie, e ricambi d’amore, che dovevano a forza far buono al suo cuore. E i segni d’amicizia e di reverenza, che gli erano fatti colà, soleva pregiare più altamente di quelli, che in egual misura gli erano fatti altrove. Perfino nell’ultima dolorosa infermità, un cancro dello stomaco, ove più o meno sofferse due anni di séguito, lo teneva preso incessantemente il pensiero, compiuta la Storia dei Francesi, di tornarsene a Pescia, e quivi colla sua moglie inglese, alla quale già attempato si era stretto in felice matrimonio, chiudere la vita in mezzo ai suoi nepoti superstiti. E di fatti alla fine del passato Maggio scriveva ad un Fiorentino suo amico, che come prima potesse intendeva venire in Toscana, e aver già mandato una parte dei suoi libri. Ma egli morì il 25 Giugno a Chêne sua villa presso Ginevra.

Le opere letterarie del Sismondi, frutto d’una vita ben travagliata, hanno fatto il suo nome immortale, e per quanti obietti in genere o in ispecie possano farsi alle sue grandi opere, conviene pur sempre annoverarlo tra i più notabili Storici del Secolo XIX. Nè questo è il luogo di passarle per esteso in esame, tanto più che poco o assai sono state tutte ad una ad una riviste; ma ben possiamo riunirle, e delinearne il carattere generale, ora che lo Scrittore è sparito, e in sua vece ci stanno dinnanzi aperti i suoi scritti. Ed apriremo la serie colla prima grand’opera, la Storia delle Repubbliche Italiane del Medio-Evo. Lodovico Antonio Muratori fu il primo, che la massa immane di notizie custodite nelle cronache e nelle storie raccolse e ordinò nei suoi Annali d’Italia dal principio dell’era volgare sino all’anno 1500, che poscia continuò sino al 1749. E nessuno era più acconcio di lui a quel lavoro, poichè la pubblicazione della gran raccolta degli Scrittori delle Cose Italiche lo aveva messo dentro alla perfetta cognizione d’infiniti documenti storici di quella fatta, e così ebbe campo, esercitando il suo acume, il suo spirito d’ordine, ed una instancabile diligenza, di procacciarsi una dottrina smisurata. Però questi Annali non sono propriamente una storia ben elaborata; raccontano anno per anno quello che accadde, mettendo sulla scena una dopo l’altra terre e città, senza che l’uomo acquisti un’idea netta dello sviluppo organico, che si opera nella vita sociale; i fatti soli stanno là, e il più che si pone mente è alle guerre, e agli avvenimenti esterni, senza rilevare i cambiamenti nelle costituzioni, le quali per tal modo riesce arduo spiegare, se non impossibile. – Lo stile è quello d’una narrazione affollata, disadorna, e spesso mancante troppo di dignità. Nondimeno questi Annali sono l’aiuto il più efficace per ritrovarsi nel labirinto delle storie delle città italiane, ma leggerli per intiero, o volervi imparare la Storia, non sarebbe sì agevole. Dal Muratori al Sismondi gl’Italiani fecero poco per la loro storia universale. Le Rivoluzioni d’Italia del Denina, uscite la prima volta nel 1769, sono un libro assai letto, ma fatto piuttosto per la comune dei lettori, che per i dotti; scritto però con spirito e vivacità, e per questo ristampato sovente, e per le mani di tutti, sebbene gli uomini oggi pretendano più assai dalle storie, e molti punti di quel libro non reggano di fronte alla critica. Queste due opere sono le uniche, che trattino a mia saputa la storia d’Italia fino ai tempi più recenti. Dopo il libro del Denina non venne cosa che meriti discorso, e l’opera molto studiata del Tedesco Lebret fu appena conosciuta di quà dall’Alpi. – Ora poi, che la prima Storia del Medio-Evo Italiano completa e ben fatta uscisse dalla mente d’uno straniero, nessuno l’avrebbe aspettato. Ben è vero, che ella fu scritta sotto cielo italiano, anzi in Toscana, il centro vero della Civiltà Italica, il foco dove convergono i raggi della gloria dei secoli di mezzo, il paese che meglio d’ogni altro chiarisce gli eventi e gli effetti che ne uscirono, dove meglio che altrove allo spirito d’indagine vengono offerti aiuti, lumi e conforti. La prima parte delle Repubbliche Italiane apparve nel 1807, e or sono due anni uscì la terza edizione in Parigi, senza contare le ristampe del Belgio, e le traduzioni italiane, e tedesche. Dalla formazione dei liberi stati, dalla lotta dei Municipi colla supremazia imperiale, dal trionfo dei primi, e dall’infiacchimento dell’ultima, questa Storia arriva sino all’epoca di Carlo V, nella quale l’Italia parte obbediva agli stranieri, come il regno delle due Sicilie, e il Ducato di Milano, parte a Signori nazionali, alcuni dei quali portavano il titolo di vassalli dell’Impero, alcuni del Papa, e altri ambedue questi titoli, ma in sostanza governavano assai liberamente, come i Duchi di Savoia, Mantova, Ferrara, Massa, Urbino, e via discorrendo; e delle Repubbliche rimaste in piedi, Venezia benchè d’assai indebolita manteneva sempre una grande potenza, Genova faticosamente si destreggiava tra Francia e l’Impero, Lucca e Siena esistevano per grazia speciale, e la seconda per poco, mentre Firenze, dopo tre anni di sforzi magnanimi per rompere le catene in cui l’avevano messa i suoi cittadini, periva per sempre. E così il Sismondi imprese a descrivere l’epoca la più importante, la più viva, la più operosa della storia d’Italia, dedicandosi a questa impresa con tal calore da mettere in evidenza quanta parte prendesse nel fato di quei popoli, e con quella costanza di proposito, e dignità di coscienza, che a così alto grado l’innalzano come scrittore. Studiò colla più grande applicazione, e adoperò tutti i materiali che potè avere, nè gli rimase sconosciuta cronaca importante, o storia che valesse. Ma per quanto io sappia non fece ricerche di archivi, e si servì affatto di cose stampate. Le materie pertanto così radunate dispose in bell’ordine, e compose l’opera. Lo stile è scorrevole e chiaro, e si trova nel Sismondi quel singolare dono che hanno i Francesi della lucidità e precisione, senza potergli apporre la taccia di superficialità, di che sovente furono biasimati gli scrittori di quella nazione, massime i più antichi, giacchè molto diverso mostrasi l’operare di parecchi tra i moderni. E un benefico calore di sentimento spira per tutta l’opera, e i grandi avvenimenti sono dipinti con verità, e aggruppati con arte, e i personaggi hanno vita e movimento. Non di rado la narrazione si leva ad una certa grandiosità, e procede con andamento conveniente al soggetto, a vicenda concitato e tranquillo, e prende quell’ampiezza di spazio opportuna al giusto sviluppo dei caratteri, e alla retta estimazione delle circostanze. Ma l’opera non è di certo senza difetti, e molto potremmo opporre all’esattezza dei fatti, e la critica storica non è maneggiata con quell’acutezza, che in tanta e così disparata vastità di materie sarebbe stato necessario. Non è chi non senta, che l’Autore non ha studiato gli archivi, cosa per vero dire quasi impossibile nella composizione d’un libro, che abbraccia tanti stati, e tanti secoli, – e molte cose, che narra il Sismondi sulla fede di antichi scrittori, e in parte contemporanei, colla scoperta di documenti e d’altri testimoni hanno già presa diversa fisionomia e valore, e la vanno prendendo ogni giorno, nè può essere altrimenti col progredire delle ricerche e della scienza. La quantità dei fatti registrati nei ricordi municipali, il rimescolarsi continuo delle storie di tante città e famiglie, ne rendono spesso faticosa la lettura, e ne scemano l’effetto; e in una Storia avviluppata, inestricabile, com’è l’italiana, è fuor di modo difficile serbar le misure, e impedire, che tratto tratto non occorra una lista di nomi, e un nudo scheletro di avvenimenti e di affari, che mal corrispondono al concetto del lettore. Una delle parti più deboli dell’opera è lo sviluppo delle costituzioni repubblicane, e delle modificazioni che col tempo subirono, e qui non ci sono solamente lagune, ma molte cose che addirittura non reggono. – Le cognizioni del Sismondi intorno alla storia dei governi e del diritto, e intorno alla legislazione degli statuti, per quanto s’industriasse, erano scarse, nè bastavano all’uopo; e il modo onde espone l’ordinarsi delle città, cioè come si componessero delle amiche istituzioni romane, massime del Decurionato, delle costituzioni ecclesiastiche, delle immunità ed autorità dei vescovi nelle loro sedi, delle istituzioni Germaniche, e principalmente del magistrato degli Scabini, – il modo onde espone il nascimento delle leghe dei Comuni, che rappresentarono una parte così importante, la fondazione dei feudi e la posizione della nobiltà libera e della feudale, e le vicende della proprietà, che così essenzialmente si connettono alla forma politica delle nazioni, – questo modo, dico, lascia immensamente da desiderare, nessuno facendosi immagine giusta di siffatte cose, e trovandosi come smarrito in regione mezzo incognita. E così il difetto di precisione e di lucidezza nel rappresentare le condizioni di quei tempi più antichi ha dovuto esercitare per forza un cattivo influsso sul modo di ritrarre e distinguere i successivi.

La Storia delle Repubbliche Italiane è scritta sotto l’ispirazione d’un sentimento democratico. Questo sentimento ha dato una vita commossa e un colorito caldo a certe parti qua, e là, ma nel tempo stesso ha prodotto una monotonia, che, come sempre avviene scrivendo storie con soverchio studio di sistema, nuoce alla verità, anche senza intenzione dell’Autore. Perocchè non vorremo affermare che il Sismondi abbia a bella posta svisato il carattere storico; pure non è da negarsi, che forse senza giustamente saperlo egli non abbia di frequente sparso d’una tinta falsa i ritratti delle persone e dell’epoche. E, per citarne solo un esempio, il caso si verifica nell’ultima parte dell’opera riguardo a Cosimo I dei Medici. Ma per quanto il Sismondi restasse fedele alle sue massime repubblicane, queste nondimeno coll’andar degli anni subirono in teoria come in pratica notabili modificazioni. In questi anni però egli poco si occupò delle Storie Italiane, ed io stesso nel verno del 36-37 l’intesi chiamarsene veramente spossato: – benchè sino all’ultimo della vita avesse nel cuore e nella mente l’Italia. – Nel 1830 intraprese un compendio della grand’opera, che súbito apparve in inglese nella Ciclopedia di Gabinetto del Dottor Lardner, e nel 32 uscì in Francese a Parigi col titolo – Storia del rinascimento della Libertà in Italia. – Questo libro contiene la sostanza del primo, e nel proemio fa questa osservazione, «che quando un uomo lavora lungamente intorno a un soggetto, s’innamora così anche dei più lievi particolari, che stima dover riuscire grati egualmente al lettore, che all’autore; ma solo più tardi allargando la vista, e maggiormente affrancando il giudizio, vede cosa sia o non sia veramente essenziale.» Tale compendio ha molto merito, e si legge volentieri, e chiude in un contorno più esatto quei tempi memorabili, dando rilievo ed espressione agli avvenimenti più capitali; ma per l’indole sua, e per la mole, non può dare che una scarsa e troppo superficiale notizia delle Storie Italiane.

L’apparizione dell’opera del Sismondi fu gran ventura per la Storia d’Italia, e senza dare nel falso possiamo ascrivere all’effetto di questo libro una sostanziale influenza. Più specialmente però fu sentita la necessità di avvalorare i fatti con prove autentiche; e mentre lavori storici usciti da penne tedesche, e da scrittori di qualche altra nazione, illustrarono vie maggiormente le cose italiane, nell’Italia stessa ebbe luogo la pubblicazione di molti documenti originali, la quale in gran parte è dovuta all’eccitamento prodotto dal Sismondi1.

Più e diversi ingegni da quell’epoca in qua ha esercitato la Storia universale d’Italia; e quand’anche la sterminata Storia d’Italia antica e moderna di L. Bossi uscita nel 19 non contenti i più severi intelletti, vuolsi però rammentare il Botta, il più grande Storico dell’Italia nei tempi moderni, ed uno dei suoi più valenti scrittori; il quale, oltre un rapido cenno della Storia Italiana in lingua francese, descrisse i tempi dell’influenza francese dal 1789 al 14, e quindi continuò il Guicciardini abbracciando tre secoli e mezzo, da Paolo III allo scoppio della Rivoluzione, – opere di cui la fama anche più durabilmente è fondata per la politica opposizione cui diedero appiglio. Cesare Balbo cominciò una Storia universale d’Italia, che condusse soltanto sino alla rovina del Regno Lombardo. – Carlo Troya, che col suo bel libro sull’epoca di Dante aveva eccitato una grande aspettazione, compose una storia del Medio-Evo, che finora comprende solamente le migrazioni dei popoli, e le calate dei forestieri in Italia, e questo ancora non compiutamente. – G. Borghi, l’elegante traduttore di Pindaro, scrive un Discorso, come egli lo nomina, sulle Storie Italiane dall’anno 1.º dell’era volgare all’anno 1840, del quale abbiamo i primi due volumi. – A. Ranieri tratteggiò i tempi di Teodorico sino a Carlo Magno col titolo – Della Storia d’Italia dal V al IX Secolo. – A. Coppi ha continuato gli Annali del Muratori dal 1750 al 1819, e promette di seguitare sino al presente. Nè furono lasciate indietro le Storie del diritto, e dei governi, e tra queste si debbono principalmente annoverare le Vicende della proprietà in Italia dalla caduta dell’Impero Romano fino allo stabilimento dei feudi, del Baudi De Vesmes, e del Fossati; – il trattato del Ricotti – Sulla Milizia dei Comuni Italiani nel Medio-Evo, – cui si rannodano le ricerche del Promis intorno allo stato delle artiglierie al principio del Secolo XVI, inserite nell’Architettura Civile e Militare del famoso Francesco di Giorgio da Siena edita dal Conte Cesare di Saluzzo; – il Saggio sull’Amministrazione finanziaria del Regno d’Italia dal 1802 al 1814, e la Storia dell’Economia politica in Italia, di G. Pecchio; – la Storia dell’Economia politica nel Medio-Evo, e il Trattato delle Finanze di Savoia nei Secoli XIII, XIV, di L. Cibrario; – i Due Libri delle Istituzioni Civili, di F. Forti; – la Storia della Legislazione Italiana, di F. Sclopis, della quale apparve la prima parte, che contiene le Origini, – e le opere storiche di L. Bianchini sulle Finanze del Regno delle due Sicilie.

E andrei tropp’oltre, se volessi tutte designare le Storie speciali, che apparvero modernamente. E d’ogni tempo gl’Italiani coltivarono con lodevole zelo questo ramo di studi, e con quanto séguito lo mostra la ricca Letteratura degli ultimi anni2.

Nel 1818 terminò il Sismondi la Storia delle Repubbliche col 16.º volume, il quale dopo aver narrato la caduta della Libertà Toscana tocca di volo gli avvenimenti posteriori sino al Secolo XVIII. E poco appresso pose mano alla Storia dei Francesi, opera più grande ancora della prima, e che richiedeva maggior animo, trattandosi di superare tanti antecessori, – e maggior perseveranza, perchè più sterminata era la massa delle materie. A principio fu suo intendimento fermarsi al termine delle guerre di religione, e all’editto di Nantes, – e a questo punto, – egli diceva, – arriva propriamente il Medio-Evo francese. – Ma poichè ebbe compiuta in 21 volumi questa parte del suo lavoro, gli venne occasione di proseguirlo sino alla Rivoluzione francese, per altro con proporzioni più brevi assai della prima metà. Questa impresa l’occupò sino agli estremi della vita, talchè lasciò intero il manoscritto dell’ultima parte. I patimenti fisici invece di smorzare il suo ardore sembravano accenderlo viepiù. Due settimane prima della morte rivide le prove del volume 28.º, che arriva al 1750, e venne in luce già defunto l’Autore. E in quel modo che già diede un compendio delle Storie Italiane, compose, in quello spazio di riposo, che gli fu concesso dal condurre l’opera sino al 1598 giusta il primitivo disegno, un compendio simile di quest’ultima, che sotto il nome di – Compendio della Storia dei Francesi – abbraccia l’epoca anzidetta. E quivi è raccolta, com’egli considera, la serie intera dei tempi propriamente storici; e quanto ai secoli seguenti non è mestieri d’un lavoro siffatto, perchè l’uomo più volentieri ama cercarne le notizie in quei libri, che appartengono alla leggiera Letteratura, – nelle memorie, nei ricordi, nelle tradizioni di famiglia, – che negli scritti i quali richiedono uno studio più intenso. Un tal ristretto però non basta a chi vuole veramente apprendere le Storie della sua patria; ma può servire a coloro, che non mirando a tanto cercano un mezzo di richiamare alla memoria i capi più essenziali, o finalmente un prospetto generale delle cose. In qual rapporto quest’opera gigantesca del Sismondi stia colle grandi o piccole, universali o parziali opere dei moderni Storici francesi, colla Storia dei Francesi di Michelet ora avanzata sino alla mania di Carlo VI, coi lavori di Agostino, e Amedeo Thierry, coll’infaticabile e fecondo Capefigue, col Barante, col Villeneuve-Trans, col Lemontey, col Sainte-Aulaire, col Mignet, colle innumerevoli Storie particolari di provincia, col Segur, col Lacretelle, col Bazin, e tanti altri, che sarebbe soverchio rammentare, incomberebbe il giudicarlo ai critici francesi, mentre finora poco o punto profersero sentenza su questa opera del Sismondi. – Mi resta inoltre da nominare un lavoro storico uscito nel 35, – Storia della caduta dell’Impero Romano, e della decadenza della Civiltà dal 250 al 1000. E qui l’Autore principiando da una monarchia universale, ce la mostra soccombere all’urto di quei popoli, che non sapeva più contenere. E vediamo tosto questi popoli affaticarsi a ristabilire ciò che avevano distrutto, e da questo affaticarsi vediamo sempre più turbato l’ordine sociale del mondo antico, e come finalmente le società umane ritornano sempre più ai loro primitivi elementi, – al congregarsi isolato delle genti nelle città e nelle terre. Quindi comincia propriamente la formazione dei nuovi regni. – Questo libro non ha troppo merito scientifico, ripetendo l’Autore i resultati delle sue prime indagini, e presentandoli sotto il colpo d’occhio della Storia universale. Ciò che dissi dei difetti che trovansi nello sviluppo delle condizioni italiche, può ripetersi egualmente rapporto a quest’ultimo lavoro.

L’opera – Della Letteratura del mezzogiorno dell’Europa – nacque da una serie di lezioni tenute dal Sismondi in Ginevra; e stando al suo primo disegno, doveva contenere la Storia letteraria di tutta l’Europa. Pure, così com’è, oltre un’introduzione intorno all’estinguersi dell’idioma latino, e al formarsi delle lingue romane nel mezzogiorno dell’Europa, contiene la storia letteraria degli Arabi, dei Provenzali, dei Trovatori di Linguadoca, degl’Italiani, degli Spagnuoli, e dei Portoghesi. La storia degli ultimi tre popoli è condotta sino alla fine del Secolo XVIII, terminando col Parini, Monti, Pindemonte, Yriarte, Melendez Valdes, Manoel, Cruz e Silva, e Da Cunha, ma la letteratura Italiana è più distesamente trattata. E mentre il Sismondi cominciò il suo lavoro, non era uscita peranche la celebrata opera del Ginguené, della quale egli si giovò notabilmente nelle successive edizioni. Ma coll’averlo riveduto e ingrandito non per questo riuscì libro per i dotti, ma piuttosto adattato alla comune dei lettori. Nè vi si trovano profonde ricerche, ma una cognizione familiarissima di Dante, e dei più egregi scrittori, e un caldo senso delle loro bellezze. Mancano le vedute larghe e grandiose, manca un’intuizione profonda nell’essenza dell’Italiana Letteratura, una definizione propria e distinta delle epoche e degli scrittori, specialmente dei prosatori, tra i quali sporge principalissimo il Machiavelli. La critica dell’Autore trascorre la superficie, ma il libro dà facili indizi, che fu composto da un uomo, che conosce a fondo, ed ama sinceramente l’Italia, e le sue Lettere. Il difetto più grande degli altri però occorre súbito sul principio, ed è il non dimostrare chiaramente come al finire del Secolo XIII, e al cominciare del XIV, la prosa e la poesia si svolgessero dai primordi della Lingua e delle Lettere, cose che l’Autore a torto mette in un canto come nude anticaglie. E così dopo un paio di pagine siamo súbito a Dante, saltando in questa guisa un periodo importante, che in tempi più recenti fu meritamente considerato, e reputato indispensabile alla giusta intelligenza dell’Allighieri, e del suo secolo. E i caratteri del Poeta sovrano sono fiaccamente rilevati, mentre è più sensibilmente ritratta l’epopea romanzesca. Con tutte queste mende, che più ancora devono risaltare in quelle parti dove tratta della Spagna e del Portogallo, per le quali più che al suo giudizio è costretto fidarsi all’altrui, e dove pare che abbia profittato del nostro Bouterweck, e dello Schlegel per il dramma, – parti sulle quali io debbo astenermi di pronunziar sentenza, – con tutte queste mende il libro ha tuttavia molto merito, e può grandemente servire a coloro, che non hanno bisogno di addentrarsi tanto nel soggetto, intrecciandosi quivi in bell’ordine la biografia coll’analisi, la storia universale, e la politica, e gli eminenti personaggi.

Questi sono i lavori storici e letterari del Sismondi, ai quali può aggiungersi un Romanzo storico – Giulia Severa, – in cui cercò descrivere lo stato delle Gallie al momento delle grandi commozioni dell’Impero Romano, e delle nazioni occidentali, romanzo nato di certo sotto l’influenza dei racconti di W. Scott, ma senza la forza vivificante colla quale lo Scozzese afferra le masse storiche, e le locali particolarità, e le compone in un complesso maraviglioso. Nè si arrestò a questi lavori, – e mentre faceva argomento d’indagine e di meditazione i politici eventi dei passati secoli dal punto della Romana Grandezza sino alla Rivoluzione, che minacciò distruggere, e in gran parte distrusse, gli antichi sistemi d’Europa, questi medesimi studi consacrava a vedere le condizioni più intime delle nazioni, cercando darsi ragione delle virtù e dei vizi del loro ordinamento sociale rispetto alla legislazione, alla divisione della proprietà fondiaria, all’agricoltura, all’industria, al commercio, alle colonie etc., e così scandagliando le più alte questioni d’Economia politica teoricamente, storicamente, ed anche praticamente. Il primo lavoro di questo genere fu a mia notizia il – Quadro dell’Agricoltura Toscana, uscito nel 1801; e poco dipoi scrisse – Della ricchezza commerciale, o sia Principii d’Economia politica applicata alla legislazione del commercio, – che più tardi rifece sotto il nome di – Principii nuovi d’Economia politica. – Attempandosi tornò con più vivace alacrità a questi studi, e soleva dire, che dopo avere tanti anni lavorato il campo della Storia, gli era conforto l’abbandonarsi a ricerche, che si profondano tanto nelle viscere dell’organismo sociale, e ci porgono la più giusta misura per regolarci nel maggior numero dei casi, mettendo in luce le cause della debolezza e della forza. – Gli studi sulla Scienza Sociale, riassunto in parte di diversi articoli dispersi in più giornali, furono l’ultimo frutto di queste indagini, che intendeva estendere più oltre. La prima sezione racchiude gli – Studi sulle Costituzioni dei popoli liberi, – esame teorico delle libere costituzioni in genere. In quest’opera si tratta prima dei diritti, che il popolo può o deve guardare. E si espongono i pericolosi traviamenti generati dalla pretensione della democrazia al supremo potere, e dal desiderio del suffragio universale; – e si rappresenta come i meno sieno chiamati al governo in virtù della loro educazione, e come il suffragio universale sia cosa retrograda, fondando la maggiorità di coloro che non hanno volontà propria, la maggiorità degl’ignoranti, e degl’indifferenti; – e quali sieno i vantaggi del sistema rappresentativo nella sua purità, mentre da coloro, che si affaticano a rendere democratici i grandi stati, un tal sistema vien considerato come mezzo di dare la sovranità al più grosso numero di voci; – e come il preteso voto del popolo, e le assemblee costituenti posino sostanzialmente su delle illusioni. Il popolo è considerato in contrapposto al governo; e mentre l’idea della così detta sovranità del popolo vien chiarita naturalmente falsa e pericolosa, s’insiste sulla necessità di costituire sapientemente le Comuni come l’elemento il più proprio dello stato, con delle corporazioni le più possibilmente libere e legali. E il popolo dovrebbe partecipare alla giudicatura mediante il Giury, (notandone i vizi nell’odierno sistema francese), e all’ordinamento militare mediante la guardia nazionale. E mentre si parla del consiglio nazionale, si fa conoscere la necessità della preponderanza d’un potere centrale su quello delle Comuni, colla facoltà ad ogni stato della rappresentanza di esprimere i proprii interessi; si tratta della maggiore o minore libertà di discussione secondo i casi, e della influenza dannosa d’una stampa irritatrice, a freno della quale dovrebbero applicarsi regole e forme parlamentarie. Nello sviluppo delle costituzioni poi gli elementi aristocratico e monarchico vengono contrapposti al democratico, il primo come corpo separato costituente sè stesso per impedire che la minorità della nazione soggiaccia alla maggioranza; e quindi vengono considerati per la loro essenza ed effetti, e si mostra come tutti e tre gli elementi debbano sottostare alla ragione nazionale esercitante la sovranità nazionale, e come questa ragione si formi e si svolga dall’opinione pubblica, in quali ostacoli possa inciampare, quali passioni arrestino il suo progresso, e sotto quali guarentigie pronunzii finalmente il suo giudizio. La seconda sezione tratta dei poteri indipendenti dal popolo; dell’origine e indole del principato, o della potestà esercitata nelle monarchie; della prova di dare un contrappeso al potere dei principi; dei principi ereditarii ed elettivi, e dei vantaggi e svantaggi, che questi hanno in sè; del luogo che tiene l’Aristocrazia, e della sua importanza come seconda distinzione sociale, cui è commesso principalmente l’ufficio di conservare, e mallevare la stabilità dello stato. Finalmente la terza sezione contempla i progressi dei popoli per una via più libera, e parla delle monarchie costituzionali, e dei falliti tentativi moderni di fare costituzioni, e a un popolo imporre quella d’un altro, come pure dei tentativi rivoluzionari di conseguire una più grande libertà, e degli effetti che ne vennero. E sono chiariti i grandi pericoli delle rivoluzioni, sia che il potere diminuito rimanga all’antico signore, o venga consegnato ad un nuovo; e come specialmente nell’ultimo caso i naturali sostegni del trono si facciano avversari del nuovo sistema, e come i facitori della rivoluzione si facciano nemici del signore che hanno innalzato, e come questi sia, e debba essere, il più acre nemico della rivoluzione. Dopo di che séguita ad esporre che una rivoluzione distrugge il contratto sociale, che lega i meno coi più, nè poi si dà più veramente maggiorità, ma un numero di minorità opposte tra loro, e menomamente proprie a fondare una costituzione, o un governo qualunque. Finalmente spiega come per resistere all’influenza e al potere della democrazia dominante d’una capitale sopra una grande nazione, valga solo un sistema federativo simile a quello della Svizzera; e come una tal lega abbia mostrato in ogni tempo la sua gran forza, massime nella difesa dell’ordine esistente. Nè ci stenderemo più avanti in queste vedute del Sismondi, chè sarebbe soverchio, aggiungendo, che gran senno e molto del vero contengono, se non che tra mezzo apparisce non poco del falso moderno, e un lasciarsi andare alle simpatie e alle antipatie più di quello che non convenga a scritture di così grave natura.

Nelle altre due parti che portano il titolo di – Studi sull’Economia politica, – s’incontrano molte cose profonde, e degne di meditazione in quei punti, che toccano la proporzione tra il prodotto e il consumo, la rendita sociale, la divisione della proprietà fondiaria, le massime della scuola crematistica, e la grande applicazione che se n’è fatta in Iscozia rispetto ai contadini, le cause della miseria dei contadini in Irlanda, e della prosperità di questi in Toscana, la schiavitù dei contadini, l’agricoltura nella campagna romana, e i mezzi di ripopolarla etc. Avverrà talvolta, che il lettore non si trovi d’accordo in certe vedute dell’Autore; che certi mezzi da lui consigliati per ottenere un miglioramento si stimino inefficaci, o forse impraticabili; – ma nessuno può non riconoscere l’animo e l’intenzione da cui derivano i suoi lavori. L’idea fondamentale, che in questi lo conduce, è che la società si è formata per raggiungere il bene comune, che da questo fine sgorgano i diritti dei suoi membri, che per questo ha modificato o cambiato la sua originale eguaglianza, e che tutti per l’utilità universale hanno rinunziato al diritto di siffatta eguaglianza. Più sopra abbiamo veduto cosa egli pensasse dell’eguale esercizio dei politici diritti; e qui pensa, che l’eguale divisione dei beni porterebbe miseria e barbarie. In ultimo viene a questo di trovare una guarentigia per la durata del lavoro comune, e per un’equa ripartizione delle tasse, rappresentando, che i diritti di coloro che s’innalzano sull’originale eguaglianza basano sui vantaggi di coloro, sui quali venne loro dalla società concessa la preminenza.

Queste furono le opere del Sismondi. Ma noi non pregiamo in lui solamente le doti egregie dell’ingegno, estimando più ancora le virtù dell’uomo onorato, e benvoluto da quanti gli si fecero appresso. E però la sua perdita fu amaramente sentita, e compianta dappertutto, e singolarmente dai suoi amici di Toscana. Il bene dell’umanità, (dice in un foglio volante il Signor Benigno Bossi assistente ai suoi estremi momenti), e il miglioramento della sorte delle classi più sprovvedute, erano il fine delle sue lunghe meditazioni intorno alle più gravi teorie sociali ed economiche. E se i risultati di alcune di queste, accordandosi poco colle idee favorite del tempo, a principio incontrarono poco plauso, non mancò egli per questo di difendere mai sempre vigorosamente la causa dei deboli, e dei bisognosi. E le gravi vicissitudini, che non ha guari percossero in Europa e in America il commercio e l’industria, giustificarono i suoi timori anche troppo, tanto che una gran parte delle sue dottrine cominciò a trionfare sulle contrarie. Ma non si contentò di mostrare il suo amore del prossimo colle semplici teorie o con eloquenti parole, poichè lo faceva suonare nei fatti quotidianamente praticati, aiutando i poveri in segreto, e con quella generosità propria d’un’anima nobile, e veramente cristiana. Egli che aveva il tempo così prezioso, e con tanta cura lo risparmiava, ogni giorno dava 9, o 10 ore al lavoro, evitando tutto ciò che lo potesse distrarre; ma non metteva un istante di mezzo, ove fosse il caso di recare aiuto e conforto a un infelice. – La sua casa era aperta a tutti, e con tutti era cortese, discreto, amorevole. Nel discorso manifestava le sue opinioni con quella chiarezza, e forza di logica, che possedeva così eminenti, senza dar segno però d’impazienza anche alla più mal fondata contradizione, sebbene nessuno al mondo avesse più forte convincimento di lui intorno alla verità delle idee, che prendeva a difendere.

Rimase fedele alle sue massime repubblicane, benchè le dottrine democratiche, che ebbe ardentissime in sua gioventù, coll’andar del tempo sostanzialmente modificasse nella teoria, e nella pratica. E nell’ultima rivoluzione della Costituzione Ginevrina fece egli valere queste sue convinzioni, acquistate e maturate coll’esperienza e col senno. A questa modificazione per altro debbono avere necessariamente contribuito i suoi lunghi studi sulle Repubbliche Italiane, e l’indagine degli effetti, che in ultimo partorì la preponderanza dell’elemento democratico.

― 18423

  1. [p. 408 modifica]Tra questi vogliono esser notati l'opera della quale vennero 5 volumi in foglio nel 36, edita da una commissione ordinata da Carlo Alberto re di Sardegna, ed ha per titolo: ― Historiae patriae monumenta, ― divisa in chartae, leges municipales, e Scriptores; ― i Documenti, monete, sigilli, per la storia del Piemonte e della Savoia, del Cibrario, e del Promis; ― le Memorie e Documenti per servire alla storia del Principato Lucchese, raccolta ricchissima cominciata nel 13 dal governo francese; ― il [p. 409 modifica]séguito al Codice diplomatico Toscano del Brunetti; ― i Documenti di Storia Italiana, ricavati dalla Biblioteca di Parigi da G. Molini, con note pregevolissime di Gino Capponi; ― l’edizione del Rosini dei Dispacci del Guicciardini nella sua Legazione in Ispagna nel 1511, e delle Lettere del Busini al Varchi sull’assedio di Firenze; ― le Relazioni degli Ambasciatori Veneti, con note dell’Albèri; ― le Storie di Giovanni Cavalcanti, pubblicate dal Polidori, le quali illustrano i tempi di Cosimo dei Medici il vecchio; ― il Carteggio inedito d’Artisti dei Secoli XIV, XV, XVI, importante ancora per il lato politico, pubblicato dal Gaye; ― la vita di Donato Acciaiuoli, d’Angelo Segni, edita dal Tonelli; ― i Ricordi della famiglia Rinuccini dal 1282 al 1306, messi in luce dall’Ajazzi con note ed escursioni storiche. La vita di Alessandro VII del Pallavicino, il celebre Storico del Concilio di Trento, finalmente sodisfacendo al lungo desiderio dei dotti è stata stampata; e i Municipii Italiani del Morbio, benchè trattati con troppa furia, contengono molto del buono. Non sono da omettere le Vite di Federigo e Guidobaldo da Montefeltro, di Bernardino Baldi primo Abate di Guastalla, e le Memorie storiche del Pontificato di Clemente VII, di Patrizio de’ Rossi. E finalmente l’Archivio Storico Italiano, che si stampa in Firenze, promette di riuscire un ricco fondo per gli Studi Storici, avendo a pro suo numerose biblioteche, e la cooperazione delle persone più capaci del paese.
  2. [p. 409 modifica]Qui m'è forza restringermi alle più rilevanti tra quelle opere, che risguardano città o provincie separatamente, come sarebbe la storia di Chieri, e la storia della Monarchia Savoiarda del Cibrario, la storia di Saluzzo e dei suoi Marchesi del Muletti, le memorie dei Conti di Desana del Gazzera, la storia dei Valdesi di Charvay, le storie di Genova del Serra e del Varese, il libro del Sauli sulla Colonia Genovese in Galata, e la storia di Sardegna del Manno. Tutte queste, e molte più ancora, vertono intorno agli Stati Sardi. È nota la storia di Milano del Rosmini; il Cantù scrisse la storia di Como, ed espose [p. 410 modifica]lo stato della Lombardia nel Secolo XVII; il Robolini la storia di Pavia, il Romegialli quella della Valtellina, e delle Contee di Bormio e Chiavenna, e il Cittadella è dietro a pubblicare la storia della signoria dei Da Carrara in Padova. Sono ancora da nominarsi gli Annali Veneziani, e la storia del Commercio Veneziano del Mulinelli, e la storia di Parma del Pezzana. Il Venturi fece la storia di Scandiano, e il Viani le memorie della famiglia Cybo colla storia delle monete di Massa. Già è fuori la seconda edizione della storia di Lucca del Mazzarosa, e delle sue dissertazioni sulla legislazione, e sulla costituzione ecclesiastica di questa Repubblica. L’Inghirami e il Carbone hanno cominciato storie della Toscana, il Vivoli gli Annali di Livorno, e il Bonaini attende all’antica storia e costituzione di Pisa. Lo Stato della Chiesa non ha prodotto gran cosa, ― la serie dei Senatori Romani dell’Olivieri, la storia d’Ancona del Peruzzi, le memorie contemporanee del Cardinal Pacca. Al contrario Napoli e Sicilia sono ricchi, ― e la storia di Napoli del Colletta sotto la dinastia dei Borboni sino al 1825 si raccomanda per la materia e per lo stile. Il Pagano scrisse la storia di Napoli sino al cessare degli Aragonesi, il De-Cesare la storia di Manfredi, e il Sosti cominciò la storia del chiostro di Monte Cassino, dove egli vive come membro dell’ordine, e bibliotecario. Pietro Lanza, principe di Scordia, scrisse sulla storia della Sicilia sotto i Normanni, e intorno ai tempi dal 1532 al 1789, correggendo in molti luoghi l’ultima opera del Botta. Il Fazzello, il Ferrara, il Palmèri, scrissero storie di Sicilia, e l’Amari sopra documenti sinora incogniti compose la storia di Carlo I di Angiò, dei Vespri Siciliani, e del regno degli Aragonesi sino al trattato di pace di Caltabellota 1302. E sono comparse notabili biografie: ― la Vita e i fatti di Gian Jacopo Trivulzio del Rosmini, la Vita di Dante del Balbo, che per tanti lati si collega alla storia politica, quella di Caterina dei Medici dell’Albèri, quella di Malatesta Baglioni ultimo Capitano della Repubblica fiorentina del Vermiglioli, e la storia di Giovanni da Procida del Buscemi. [p. 411 modifica]La storia dei Navigatori e Viaggiatori Italiani è singolarmente illustrata dai lavori critici del Canovai e del Napione sopra il Vespucci e Colombo, dalle opere del Cardinal Zurla sopra Marco Polo, Alvise da Cadamosto, e altri Viaggiatori Veneziani, e dal libro del Baldelli sopra Marco Polo, e sopra la storia delle antiche relazioni commerciali tra l’Asia e l’Europa, dalla caduta dell’Impero Romano fino al Califfato. Godono poi da lungo tempo di una fama ben meritata le Famiglie Storiche Italiane del Litta, e presentemente lavora intorno agli Orsini, e i Borromeo di Milano, i Pazzi e i Buondelmonte di Firenze, e i Buonaparte di S. Miniato.
  3. [p. 411 modifica]Livorno, dal Gabinetto Scientifico Letterario, – Tipografia Vannini; 1842.


Note

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