< Sopra lo amore
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Orazione IV
III V

ORAZIONE IV

Capitolo I

Dove si pone il testo di Platone della antica natura degli uomini.


Dette queste parole il nostro famigliare pose fine al suo dire: e dopo lui seguitò Cristofano Landino uomo di dottrina eccellente: il quale ne’ tempi nostri abbiamo conosciuto essere degno poeta Orfico e Platonico. Costui seguì in questo modo, dichiarando l’oscura e implicata sentenza di Aristofane.

Benchè Giovanni Cavalcanti per diligenza di sua disputazione, ci ha liberati in parte da lunghezza di trattare, nientedimeno la sentenza di Aristofane, perchè è intricata con oscurissime parole, richiede ancora qualche altra dichiarazione e luce. Aristofane disse lo Amore esser sopra tutti gli Dii alla umana generazione benefico, curatore, tutore, e medico. In prima bisogna narrare qual fu da principio la natura degli uomini e quali loro passioni. Non era in quel tempo tale, quale è ora, ma molto diversa: in prima erano tre generazioni di uomini, non solamente Maschio e Femmina, come ora: ma un terzo di amendue composto. Ed era intera la spezie di qualunque uomo e tondo aveva il dosso e i lati in circolo, mani quattro, e quattro gambe: ancora due volti posti sul tondo collo insieme simili. E la generazione masculina nacque dal Sole: la femminina dalla Terra: la composta dalla Luna. Onde erano d’animo superbo e corpo robusto. Il perchè messono mano a combattere con gli Dii e volere salire in Cielo: e per questo Giove segò per il mezzo ciascuno di loro per lo lungo e di uno ne fece duoi, ad esempio di coloro che segano l’uovo sodo con un capello per lo lungo. E minacciogli se di nuovo insuperbissino contro a Dio, di segargli un’altra volta in simile modo.

Poichè la natura umana fu divisa ciascuno desiderava il suo mezzo ripigliare: e però concorrevano, e gettando le braccia a riscontro si abbracciavano appetendo di rintegrarsi nel primo abito.

E certamente per fame e ozio sarebbono mancati, se Dio non avesse a tal copula modo trovato. Di qui è nato lo scambievole Amore negli uomini, conciliatore della Natura antica: sforzandosi di fare uno di duoi, e medicare il caso umano. Ciascheduno di noi è un mezzo uomo, quasi segato come que’ pesci che si chiamano orate: i quali segati in lungo bene per il mezzo, d’un pesce duoi pesci restano vivi. Ciascuno uomo cerca il mezzo suo: e quando ad alcuno di qualunque sesso avido sia, il mezzo suo si scontra1, si risente fortemente: e con ardente amore si invesca, e non patisce pure un momento da lui separarsi. Adunque la cupidità di ristorare il tutto è detto Amore: il quale nel tempo presente molto ci giova riducendo ciascuno nel suo mezzo a sè amicissimo: e porgene speranza somma nel tempo futuro: che se rettamente onoreremo Dio, ci restituirà ancora nella figura antica, e così medicandoci ne farà beati.


Capitolo II

Come si espone l’opinione di Platone de la antica figura degli uomini.


Queste cose narra Aristofane e molte altre molto monstruose: sotto le quali, come velami, è da stimare divini misterii essere ascosi. Era costume degli antichi Teologi, i sacri loro secreti, acciocchè e’ non fussino dagli uomini impuri macchiati, coprire con ombracoli di figure: ma non pensiamo però, che tutte le cose che sono scritte o nelle figure passate, o nelle altre, si appartengano così tutte esattamente al senso. Conciossiachè Aurelio Agostino dica, che non è da pensare, che tutte le cose, che nelle figure sono finte, abbiano però tutte significato: perciò che molte cose vi sono aggiunte per conto dell’ordine e della commettitura di quelle stesse, che vi significano. La terra si fende solamente con il vomere: ma per poter ciò fare, si aggiungono all’aratro le altre membra necessarie. Questa dunque è la somma di ciò che ci è proposto ad esporsi. Gli uomini anticamente avevano tre sessi masculino, femminino, composto: ed erano figliuoli del Sole, Terra e Luna. Erano gli uomini allora interi: ma volendo per la superbia con Dio agguagliarsi, divisi sono in due: e di nuovo fieno divisi, se di nuovo gli assalterà la superbia. Poi che e’ furono divisi, il mezzo per Amore tirato fu al mezzo, per restituire lo intero, il quale poi che fia restituito, sarà l’umana generazione beata.

La somma della nostra esposizione sarà questa. Gli uomini, cioè le Anime degli uomini; anticamente, e questo è quando sono da Dio create; sono interi, perchè sono le Anime di due lumi ornate, naturale e soprannaturale: acciocchè per il naturale le cose eguali e inferiori, per il soprannaturale le superiori, considerassino. Voglionsi agguagliare a Dio, mentre che a l’unico lume naturale si rivolsero. E qui furono divisi, perdendo il soprannaturale splendore, quando solo al naturale si rivolsero: onde subito ne’ corpi caggiono. Se di nuovo insuperbiscono, di nuovo fieno divise, che s’intende se troppo si confideranno nel naturale ingegno ancora il lume naturale si spegnerà in parte. Tre sessi avevano, l’anime maschie dal sole, le femmine dalla terra, le composte dalla luna nate; cioè il fulgore divino, alcune anime secondo la fortezza, la quale è maschia, alcune secondo la temperanza, che è femmina, alcune secondo la giustizia, che è composta, ricevettero. Queste tre virtù sono in noi figliuole di altre tre virtù, che Dio possiede. Ma quelle tre in Dio si chiamano Sole, Luna e Terra: in noi maschio, femmina, e composto. Poi che furono divisi, il mezzo fu tirato al mezzo; l’anime già divise e immerse ne’ corpi, quando giungono agli anni della età discreta, per la temperanza, che è femmina, alcune secondo il lume naturale che riserbano, quasi per l’uno mezzo dell’Anima, sono svegliate a ripigliare con istudio di verità quel lume soprannaturale, che già fu l’altro mezzo dell’Anima: il quale cadendo perdettero. E ricevuto questo saranno intere: e nella visione di Dio, beate.

Questa sarà la somma della esposizione presente.


Capitolo III

Che l’uomo è essa anima, e che l’anima è immortale.


Il corpo è composto di materia e di quantità: e alla materia s’ appartiene il ricevere: e alla quantità si appartiene essere divisa e distesa: e la recezione e divisione sono passioni. E però il corpo per sua natura è solamente a passione e corruzione soggetto. Si che se alcuna operazione pare si convenga al corpo, non adopera in quanto è corpo: ma in quanto è in lui una certa forza e qualità quasi incorporale: come nella materia del fuoco è la calidità: nella materia dell’acqua è la frigidità: nel corpo nostro è la complessione, dalle quali qualità le operazioni de’ corpi nascono: perchè il fuoco non riscalda, perchè egli sia lungo, largo e profondo: ma perchè egli è caldo. E non riscalda più quel fuoco, che è più sparto: ma quello che è più caldo. Con ciò sia dunque che per benefizio della qualità si adoperi, e le qualità non sieno composte di materia e di quantità, seguita che il patire s’appartiene al corpo, e il fare s’appartiene a cosa incorporale. Queste qualità sono strumenti ad operare: ma elleno per sè ad operare non sono sufficienti: perchè non sono sufficienti a essere per sè medesime. Imperocchè quello che giace in altri, e sè medesimo sostentare non può, senza dubbio da altri depende. E per questo avviene, che le qualità, le quali sono necessariamente dal corpo sostenute, eziandio sieno fatte e rette da qualche sostanza superiore, la quale non è corpo, nè giace in corpo. Questa è l’Anima, la quale essendo presente al corpo, sostiene sè medesima, e dà al corpo qualità e complessione: e per esse, come per istrumenti, nel corpo e per il corpo, varie operazioni esercita. Di qui si dice che l’uomo genera, nutrica, cresce, corre, sta, siede, parla, fabbrica le opere delle arti, sente, intende: e tutte queste cose fa l’Anima. Adunque l’Anima è l’uomo. E quando noi diciamo l’uomo generare, crescere, e nutrire, allora l’Anima, come padre e artefice del corpo genera le parti corporali, nutrisce e augumenta. E quando diciamo l’uomo stare, sedere, parlare, allora l’Anima i membri del corpo sostiene, piega e rivolge. E quando diciamo l’uomo fabbricare e correre, allora l’Anima porge le mani e agita i piedi, come a lei piace. Se noi diciamo l’uomo sentire, l’Anima per gli istrumenti de’ sensi, quasi come per finestre, conosce i corpi di fuori. Se diciamo l’uomo intendere, l’Anima per sè medesima senza instrumento di corpo la verità conseguita.

Adunque l’Anima fa tutte quelle cose che si dicono farsi dall’uomo: il corpo le patisce; il perchè l’uomo solo è l’Anima, e il Corpo è opera e istrumento dell’uomo: specialmente perchè l’Animo, la sua operazione principale, che è lo intendere, senza instrumento di corpo esercita. Conciossiachè intenda cose incorporali, e per il corpo non si possa altre cose che corporali conoscere.

Per la qual cosa l’Animo adoperando qualcosa per sè medesimo, certamente per sè medesimo è e vive. Vive, dico, senza il corpo quello che senza il corpo alcuna volta adopera. Se lo animo è per sè medesimo, meritamente si conviene a lui un certo essere non comune al corpo, e per questo può conseguitare nome di uomo proprio a sè, e non comune al corpo,2 il quale nome, perchè è detto di qualunque di noi per tutta la vita, essendo ciascuno in qualche età uomo chiamato, certamente pare che significhi qualche cosa stabile. Ma il corpo non è cosa stabile, perchè crescendo e scemando, e per resoluzione e alterazione continua, si muta: e l’Anima sta quella medesima sempre, secondo che c’insegna l’assidua inquisizione della verità, e la volontà del bene perpetua, e la ferma conservazione della memoria. Chi sarà dunque tanto stolto, che l’appellazione dell’uomo, la quale è in noi fer- fermissima, attribuisca al corpo, che sempre corre, più tosto che alla Anima, che sempre sta ferma? Di qui può essere manifesto, che quando Aristofane nominò gli uomini, intese le Anime nostre, secondo l’uso Platonico.


Capitolo IV

Che l’anima fu creata con due lumi, e perchè ella venne nel corpo con due lumi.


L’anima subito da Dio creata, per un certo naturale istinto in Dio suo Padre si converte, non altrimenti, che il fuoco per forza de’ superiori generato in terra, subito per impeto di natura a’ superiori luoghi si dirizza: sì che l’Anima verso Dio rivolta, da’ raggi di Dio è illustrata: ma questo primo splendore, quando si riceve nella sostanza dell’Anima che era per sè senza forma, diventa oscuro: e tirato alla capacità dell’Anima diventa proprio a lei e naturale. E però per esso, quasi come a lei eguale, vede sè medesima, e le cose che sono sotto lei, cioè i corpi. Ma le cose che sono sopra lei per esso non vede.

Ma l’Anima per questa prima scintilla diventata già propinqua a Dio, riceve oltre a questo uno altro più chiaro lume, per il quale le cose di sopra conosca. Ha adunque due lumi, l’uno naturale, l’altro soprannaturale: per i quali insieme congiunti, come con due ali, possa per la regione sublime volare. Se l’Anima sempre usasse il lume divino, con esso alla divinità sempre si accosterebbe; onde la terra di animali razionali sarebbe vota. Ma la divina Provvidenza ha ordinato che l’uomo di sè sia signore, e possa alcuna volta amendue i lumi, alcuna volta l’uno de’ due usare. Di qui avviene, che per natura l’Animo rivolto al proprio lume, lasciando il divino, si pieghi inverso sè e inverso le sue forze, che al reggimento del corpo s’appartengono: e desideri queste sue forze mettere ad effetto, nel fabbricare i corpi. Per questo desiderio, secondo i Platonici, l’Animo gravato, ne’ corpi discende, dove le forze del generare, muovere e sentire, esercita: e per la sua presenza adorna la Terra, infima regione del Mondo. La qual regione non deve mancare di ragione, acciocchè nessuna parte del Mondo sia dalla presenza de’ razionali viventi abbandonata: sì come l’Autore del Mondo, a la similitudine del quale il Mondo è fatto, è tutto ragione. Cadde l’Animo nostro nel corpo, quando lasciando il divino lume, solo si rivolse al lume suo: e cominciò a volere essere di sè contento. Solo Dio, al quale nulla manca, sopra il quale è nulla, sta contento di se medesimo ed è a sè sufficiente. Per la qual cosa, l’Animo allora si fece pari a Dio, quando volle di sè medesimo esser contento: quasi, non meno che Iddio, bastasse a se medesimo.


Capitolo V

Per quante vie l’anima ritorna a Dio


Questa superbia volle Aristofane essere cagione che l’animo, che nacque intero, si segasse, cioè di due lumi usasse dipoi l’uno, lasciando l’altro. Per questo si tuffò nel profondo del corpo, come in fiume Leteo, e sè medesimo a tempo dimenticando, da’ sensi e libidine, quasi come da birri e tiranno, è tirato. Ma dipoi che è cresciuto il corpo, e purgati gli istrumenti de’ sensi, per il mezzo della disciplina, si desta alquanto: e in questo il lume naturale comincia a risplendere e l’ordine delle cose naturali ricerca. Nella quale investigazione, si avvede essere un sapiente Architettore del Mondano Edifizio, e esso fruire desidera. Questo Architettore, solo con soprannaturale lume può essere inteso: e però la Mente dalla inquisizione della propria luce, a recuperare la luce divina è mossa e allettata: e tale allettamento è il vero Amore: per il quale l’uno mezzo dell’uomo l’altro mezzo dell’uomo medesimo appetisce. Perchè il lume naturale, che è la mezza parte dell’animo, si sforza di accendere in noi quel divino lume, che è l’altra mezza parte di quello, il quale fu già sprezzato da noi.

E questo è quello, che nella Epistola a Dionisio re disse Platone. L’animo dell’uomo desidera quali sieno le cose divine intendere riguardando in quelle cose, che a lui sono propinque.

Ma quando Dio infuse la sua luce nell’animo, l’accomodò sopra tutto a questo, che gli uomini da quella fossero condotti alla Beatitudine: la quale nella possessione di Dio consiste. Per quattro vie a questa siamo condotti: Prudenza, Fortitudine, Giustizia, Temperanza. La Prudenza prima la Beatitudine ci mostra: le tre altre virtù, come tre vie, a la Beatitudine ci conducono. Dio adunque variamente in varii animi la sua scintilla a tal fine tempera in modo, che secondo la regola della Prudenza, altri per lo offizio della Fortitudine, altri per l’offizio della Giustizia, altri per l’offizio della Temperanza, al suo Creatore ritornano. Perchè alcuni per il mezzo di questo dono, con forte animo sopportano la morte per la Religione, per la Patria, per i Genitori. Alcuni ordinano la vita loro con tal Giustizia, che non fanno ingiuria ad alcuno, nè in quanto possono la lasciano fare. Alcuni con digiuni, vigilie, fatiche, domano le libidini. Costoro per tre vie procedono; ma ad un medesimo fine di Beatitudine (secondo che la Provvidenza mostra) pervenire si sforzano.

Ancora queste tre Virtù nella divina Provvidenzia si contengono: per il desiderio delle quali gli animi degli uomini, accesi mediante gli uffizi di quelle, desiderano pervenire ad esse, accostarsi a loro, e perpetualmente fruirle.

Noi sogliamo chiamare negli uomini la Fortezza maschia, per cagione della forza e dell’audacia: la Temperanza femmina per la mansueta natura: la Giustizia composta de l’uno e dell’altro sesso. Maschia, perchè non lascia fare ingiuria ad alcuno: femmina, perchè ella non fa ingiuria. E perchè al maschio si appartiene il dare, alla femmina il ricevere, chiamiamo il Sole maschio, che dà lume ad altri e non riceve, la Luna composta dell’uno e dell’altro sesso, perchè riceve il lume da il Sole, e dàllo agli elementi: La Terra femmina, perchè riceve da tutti e non dà ad alcuno. Il perchè, Sole, Luna, Terra, Fortezza, Giustizia, Temperanza, meritamente si chiamano maschio e composto e femmina. E per attribuire a Dio la più eccellente appellazione, chiamiamo queste virtù in lui, Sole, Luna e Terra: in noi sesso masculino, composto e femminino. E noi diciamo essere concessa a coloro la luce maschia, a’ quali fu donata la Luce divina dal Sole divino con affetto di Fortitudine: e a coloro esser concessa la Luce composta, a’ quali, dalla Luna di Dio fu infusa Luce con affetto di Giustizia: e a coloro la femmina, a’ quali dalla Terra di Dio, con affetto di Temperanza.

Ma noi rivolti alla Luce naturale, sprezziamo già la divina, e però lasciando l’una riserviamo l’altra: sì che abbiamo perduto la metà di noi e l’altra metà riserviamo. Ma in certo tempo di età condotti dal lume naturale, tutti desideriamo il divino: benchè per diversi modi, diversi uomini ad acquistarlo procedano. E coloro vivono per Fortezza, i quali dalla fortezza di Dio quello già con affetto di fortezza ricevettero; altri per Giustizia, altri per Temperanza similmente. Finalmente ciascuno così il suo mezzo si cerca, come da principio ricevette; e alcuni per la masculina luce di Dio, che già perdettero, e hanno recuperata, vogliono fruire la masculina Fortezza di Dio; alcuni per la Luce composta cercano similmente fruire la Virtù composta: alcuni per la femminina similmente.

Tanto dono acquistano coloro, i quali, da poi che la scintilla naturale nella età debita rilucette, stimano quella non essere sufficiente a giudicare le cose divine: acciocchè per indizio di naturale scintilla non attribuiscano affetti di corpi o di anime alla Maestà Divina e stimino quella non essere più nobile che i corpi e l’anime. E in questo molti si dice avere errato, i quali investigando Dio, perchè si confidarono nel naturale ingegno, o dissero Dio non essere, come Diagora, o ne dubitarono, come Protagora, o giudicarono lui esser corpo, come gli Epicurei, gli Stoici, i Cirenaici e altri molti, o dissero Dio essere l’Anima del Mondo come Marco Varrone e Marco Manilio. Costoro, come empii, non solamente non racquistarono il Lume divino da principio disprezzato, ma eziandio il naturale, male usando, guastarono. Quello, che è guasto, meritamente si chiama rotto e diviso: e però gli animi loro, i quali, come superbi nelle forze loro si confidano, sono segati di nuovo, come disse Aristofane.

Questi ancora il naturale lume, che in loro era rimasto, con false opinioni oscurano, e con perversi costumi spengono; e però coloro il lume naturale usano rettamente, i quali conoscendo quello esser povero stimano lui bastare forse a giudicare le cose naturali; ma a giudicare le cose sopra natura pensano essere di bisogno di lume più sublime. Onde purgando l’animo si apparecchiano in modo, che la divina luce di nuovo in loro splenda: per i raggi della quale rettamente giudicheranno di Dio, e nella antica integrità fieno restituiti.


Capitolo VI

Che l’amore porta l’anime in cielo, distribuisce i gradi della beatitudine, e dà gaudio sempiterno.


Adunque, o voi prestantissimi convitati, questo Dio il quale disse Aristofane essere sopra tutti alla umana generazione benigno, fatevelo propizio con ogni generazione di sacrifizio. Invocatelo con prieghi pietosi. Abbracciatelo con tutto il cuore. Costui per sua beneficenza, gli animi in prima mena alla celeste Mensa, abbondante di ambrosia e di nettare, cioè cibo e liquore eterno. Di poi distribuisce ciascuno a’ convenienti scanni. Finalmente in eterno con suave diletto gli mantiene: perchè nessuno ritorna in Cielo, se non colui che piace al Re del Cielo. Colui più che altri gli piace, il quale più che gli altri lo ama. Conoscere Dio in questa vita, veramente è impossibile: ma veramente amarlo, in qualunque modo conosciuto sia, questo è possibile e facile. Quelli che conoscono Dio, non gli piacciono però per questo, se poi non lo amano. Quelli che lo conoscono e amano, sono amati da Dio, non perchè lo conoscono, ma perchè lo amano. Noi ancora non vogliamo bene a coloro che ci conoscono, ma a quelli che ci amano: perchè molti che ci conoscono, spesso abbiamo nemici. Quello adunque che ci rimena in Cielo, non è la Cognizione di Dio; ma è lo Amore.

Oltre a questo i gradi di quelli, che nel Celeste Convito seggono, seguitano i gradi degli amanti.

Imperocchè quelli, che più eccellentemente Iddio amarono, di più eccellenti vivande quivi si pascono. Perchè quelli, che per l’opera della Fortezza, la fortezza di Dio amarono, quella stessa fruiscono; quelli che la Giustizia di Dio, fruiscono la Giustizia; quelli, che la Temperanza, similmente la Temperanza divina. E così varii animi fruiscono varie Idee della divina Mente, secondo che variamente gli porta l’Amore. E tutti fruiscono tutto Iddio: perchè Iddio in ciascuna Idea è tutto. Ma coloro più prestantemente Iddio tutto posseggono, i quali in più prestante Idea lo veggono. Ciascuno usufrutta quella virtù Divina, la quale amò vivendo. E però come dice Platone nel Fedro, nel Coro de’ Beati non è invidia, perchè essendo la più gioconda cosa che sia il possedere la cosa amata, ciascuno possedendo quello che ama, vive contento e pieno. Onde se due amanti usufruttano le cose amate, ciascuno si riposa nell’uso del suo obbietto, e non avrà cura alcuna se altri usufrutti più bello obbietto di lui. Sì che per benefizio dello Amore è fatto che in diversi gradi di felicità, ciascheduno della sua sorte senza invidia viva contento.

Avviene ancora che per lo Amore, gli animi beati senza fastidio, delle medesime vivande in sempiterno si pascono. Imperocchè a dilettare i convitati, non bastano nè vivande, nè vini, se la fame e la sete non gli alletta: e tanto il diletto dura, quanto basta lo appetito: e l’appetito è il detto Amore. Per la qual cosa l’Amore eterno, dal quale è acceso l’Animo sempre inverso Dio, fa che l’Animo sempre gode di Dio, come di cosa nuova. E questo Amore, della medesima bontà di Dio è sempre acceso, per la quale lo amante diviene beato.

Tre benefizi adunque dell’Amore dobbiamo brevemente raccorre. Primo, che restituendo noi nella naturale integrità, la quale nella divisione perdemmo, ci rimena in Cielo. Secondo, che alluoga ciascuno a convenienti scanni, facendo tutti in quella distribuzione quieti. Terzo, che rimovendo ogni fastidio per il suo continuo ardore, accende sempre in noi nuovo diletto; e per questo fa lo animo nostro di dolce fruizione felice.


  1. Quoties itaque dimidium suum alicui, cuiuscunque sexus avidus sit, occurrit....
  2. Si per se est, esse sibi quiddam proprium convenit corpori non commune, propterea potest proprium sibi seorsum a corporis mole sortiri hominis cognomentum.

Note

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