< Sopra lo amore
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Orazione VII
VI Indice

ORAZIONE VII

Capitolo I

Conclusione di tutte le cose dette, con la oppenione di Guido Cavalcanti filosofo.


Finalmente Cristofano Marsupini, uomo umanissimo, avendo nel disputare a rappresentare la persona di Alcibiade con queste parole a me si volse.

Marsilio Ficino, io mi rallegro molto de la famiglia del tuo Giovanni: la quale tra molti cavalieri in dottrina e opere chiarissimi, partorì Guido filosofo, diligente tutore della Patria sua e nelle sottigliezze di logica nel suo secolo superiore a tutti. Costui seguitò lo Amore socratico in parole, e in costumi. Costui con gli suoi versi brevemente conchiuse, ciò che da voi di Amore è detto. Fedro toccò l’origine d’Amore, quando disse, che dal Caos nacque. Pausania lo Amore già nato in due spezie divise, celeste e vulgare. Erissimaco, la sua amplitudine dichiarò, quando mostrò che le due spezie d’Amore in tutte le spezie si ritruovano. Aristofane dichiarò quello, che faccia in qualunque cosa la presenzia di Cupidine tanto amplissima, dimostrando per costui gli uomini che prima erano divisi, rifarsi interi. Agatone trattò quanta sia la virtù e potenzia sua, dimostrando che solo questo fa beati gli uomini. Socrate finalmente ammaestrato da Diotima ridusse in somma che cosa sia questo Amore, e quale, e onde nato: quante parti egli abbia, a che fini si dirizzi: e quanto vaglia. Guido Cavalcanti filosofo, tutte queste cose artificiosamente chiuse nelli suoi versi. Come per il raggio del Sole lo specchio in un certo modo percosso risplende: e la luna a sè propinqua per quella riflessione di splendore infiamma: così vuole Guido, che la parte della Anima chiamata da lui oscura fantasia e memoria, come uno specchio, sia percossa dalla immagine della bellezza, che tiene il luogo del Sole, come da un certo raggio entrato per gli occhi, e sia percossa in modo che ella per la detta immagine una altra immagine da sè si fabbrichi, quasi come splendore della prima immagine, per il quale splendore la potenzia dello appetire non altrimenti s’accenda, che la lana: e accesa ami. Aggiugne nel suo parlare: che questo primo Amore acceso nello appetito del senso, si crea dalla forma del corpo, per gli occhi compresa: ma dice che quella forma non s’imprime nella fantasia, in quel modo che è nella materia del corpo, ma senza materia. Nondimeno in tal modo che ella sia immagine d’un certo uomo, posto in certo luogo sotto certo tempo. E che da questa immagine subito riluce nella mente un’altra spezie, la quale non è più similitudine d’uno particulare corpo umano, come era nella fantasia, ma è ragione comune e diffinizione ugualmente di tutta la generazione umana. Adunque sì come da la fantasia, da poi che ha presa la immagine dal corpo, nasce nello appetito del senso, servo del corpo, lo amore inclinato a’ sensi: così da questa spezie della mente e ragione comune, come remotissima da ’l corpo, nasce nella volontà un altro Amore, molto da la compagnia del corpo alieno. Il primo Amore pose nella voluttà: il secondo, nella contemplazione. E stima che il primo intorno a la particulare forma d’un corpo si rivolga: e che il secondo si dirizzi circa la universal Pulcritudine di tutta la generazione umana: e che questi due Amori nell’uomo intra loro combattino. Il primo tira in giù alla vita voluttuosa e bestiale: il secondo in su alla vita angelica e contemplativa c’innalza. Il primo è pieno di passione, e in molte genti si truova: il secondo è senza perturbazione e è in pochi. Questo filosofo ancora mescolò nella creazione dello Amore una certa tenebrosità di Caos, la quale di sopra voi avete posta: quando disse l’oscura fantasia illuminarsi, e della mistione di quella oscurità e di questo lume, nascere lo Amore. Ancora la prima sua origine pone nella Bellezza delle cose divine. La seconda nella Bellezza de i corpi. Imperocchè quando ne’ suoi versi dice: sole e raggio, per il Sole intende la luce di Dio, per il raggio la forma de’ corpi. E vuole che il fine dello Amore, risponda al suo principio in modo che l’istinto d’Amore fa cadere alcuno insino al tatto del corpo: e alcuno fa salire insino a la visione di Dio.


Capitolo II

Che Socrate fu lo amante vero e fu simile a Cupidine.


Basti aver in fin qui detto de lo Amore: vegnamo ora a Socrate e Alcibiade. Dapoi che i convitati avevano assai lodato lo Iddio degli amanti, restava a lodare quelli innamorati, i quali questo loro Iddio legittimamente seguono.

Tutti gli scrittori s’accordano, che tra tutti gli innamorati non fu alcuno che più legittimamente amasse, che il nostro Socrate. Costui conciosia che per tutta sua vita, manifestamente senza alcuna ipocrisia seguitasse dietro al carro di Cupidine, non dimeno, non fu mai infamato da alcuno, che egli avesse meno che onestamente amato. Costui, perchè era di severa vita, e spesso riprendeva gli altrui vizii, era caduto già in disgrazia di molti, e potenti uomini: si come suole colui, che non tace il vero.

Tre potentissimi cittadini, per questo gli furono sopra gli altri nemici, Anito, Melito, Licone: oltre a questi, tre oratori, Trasimaco, Polo, e Callia: e tra’ poeti, Aristofane comico, agramente lo perseguitava. Non dimeno quelli potenti cittadini quando per levarsi dinnanzi Socrate veridico, lo condussono in giudizio, e con falsi testimoni lo accusarono, apponendogli alcuni difetti da lui remoti: niente parlarono che egli meno che onestamente amasse. E gli oratori suoi nemici non gli rimproverarono mai tale vizio. Nè ancora Aristofane comico, di questo sparlò mai di Socrate: benchè di molte altre cose dica di lui da ridere, nelle sue Commedie. Or credete voi che Socrate nostro avesse potuto schifare le velenose lingue di tali e tanti detrattori, se egli fusse stato di tal nota macchiato? Anzi se egli da ogni sospizione di tal vizio, non fusse stato remotissimo? Ditemi, virtuosissimi Amici, ponesti voi mente a quello, che io disopra ho molto considerato: che quando Platone dipinse Cupidine, lo ritrasse appunto a la naturale immagine, e vita di Socrate? Quasi voglia dire, che ii vero Amore e Socrate, sieno tra loro molto simili: e per questo Socrate sopra gli altri sia vero e legittimo amatore. Riducetevi bene alla mente quella pittura di Cupidine: e vedrete in essa Socrate figurato. Ponetevi dinnanzi a gli occhi la persona di Socrate; vedretelo magro, arido, e squallido. Socrate fu tale, perchè era di umore malinconico: magro, per il digiuno, e per negligenza male acconcio. Oltre a questo lo vedrete nudo: cioè vestito d’un semplice e vecchio mantelluccio. Co’ piedi nudi: perchè, come Fedro appresso di Platone testimonia, Socrate sempre co’ piedi nudi andava. Umile, e volante basso, perchè l’aspetto di Socrate era sempre inverso la terra fisso, come dice Fedone: conversava in luoghi vili, come nelle botteghe di certi scarpellatori, o di Simone calzolaio. Usava vocaboli rustici e grossolani, secondo che gli rimproverò Callide nel Gorgia. Era ancora tanto mansueto, che benchè molte volte gli fussero dette parole molto ingiuriose, e alcuna volta senza colpa battuto, niente di meno nello animo suo non si commosse mai. Senza casa. Essendo dimandato Socrate donde egli fusse, rispose: sono del Mondo; quivi è la Patria, dove è il Bene. Non aveva casa che fusse sua: non piuma in letto: non delicato vivere: non preziosa masserizia. Dorme a le porte: nella via: a ’l cielo sereno. Queste cose significano il petto di Socrate aperto: e il cuore manifesto a ciascuno. Ancora che si dilettava del vedere e dell’udire, che sono le porte dello Animo. E oltre a questo, che Socrate andava sicuro: e senza paura alcuna per tutto; e quando bisognava, si dormiva ovunque il sonno li sopraggiungeva, involto nel suo povero mantelluccio. Sempre povero; perchè chi è quello che non sappia Socrate essere stato figliuolo d’uno scarpellino, e d’una che guardava le donne di parto? Aveva eziandio Socrate in sua vecchiaia a guadagnarsi il vivere, con le proprie mani scarpellando: e non ebbe mai tanto, che nutricasse sè e la sua famiglia: e in ogni luogo si vantava di avere la mente povera. Dimandava ognuno, e diceva sè nulla sapere. Virile; Socrate era di costante animo, e di sentenzia insuperabile: in modo che egli disprezzava le promesse de’ principi, rifiutava le loro pecunie: e più volte da loro chiamato non volle andare. E tra gli altri sprezzò Archelao Macedonico, Scopa Craenonio, Euriloco Larisseo. Audace e feroce; quanta fusse la fortezza di Socrate in fatti d’arme, copiosissimamente Alcibiade nel Convito lo narra. E avendo Socrate avuto vittoria in Potidea, il trionfo suo volentieri ad Alcibiade concedette. Veemente. Era Socrate in parole e gesti molto efficace e pronto, secondo che Zopiro maestro di giudicare fisionomia aveva giudicato Socrate essere uomo avventato: e spesse volte nel parlare acceso soleva avventare le mani e strapparsi i peli della barba. Facondo; Socrate nel disputare, trovava argumenti assai ugualmente al sì e al no della cosa proposta: e benchè usasse vocaboli rusticani; nondimeno, più che Temistocle e Pericle e tutti gli altri oratori, gli animi degli audienti commoveva, secondo che di lui Alcibiade nel Convito testimonia. Pon agguati a begli, e a’ buoni; ben disse Alcibiade, che Socrate sempre sempre gli aveva posti agguati: era Socrate facilmente preso quasi come da certi insidiatori, da quelli che onesta effigie dimostravano: e egli come insidiatore, scambievolmente pigliava i belli, quasi come con rete: e a la Filosofia gli conduceva. Callido e sagace uccellatore. Che Socrate solesse uccellare da la forma del corpo a la divina spezie, di sopra è detto assai: e nel Protagora Platone l’afferma macchinatore. Socrate in molti modi, come mostrano i Dialoghi di Platone, confutava i sofisti, confortava gli adolescenti, ammaestrava gli uomini modesti. Studioso di prudenza. Socrate fu di tanta prudenzia e nello antivedere tanto perspicace, che qualunque faceva contro al suo consiglio, capitava male, sì come narra nel Teagete Platone. Per tutta sua vita va filosofando. Costui quando si difese nel cospetto delli iniqui giudici, che riprendevano la vita sua filosofica arditamente disse: se voi mi volessi liberare dalla morte con questa condizione, che io non vada più filosofando, io vi dico che più tosto vo’ morire, che lasciare la Filosofia. Incantatore, abbagliatore, malioso, sofista. Disse Alcibiade che le parole di Socrate lo commovevano e lo addolcivano più che le melodie di Marsia e di Olimpo eccellenti musici. E che Socrate avesse uno demonio famigliare, gli amici suoi lo scrivono, e gli inimici nella accusazione lo ricordarono. Oltre a questo Aristofane comico e gli inimici di Socrate, lo chiamarono sofista, perchè egli aveva al confortare e a lo sconfortare eguale potenzia. In mezzo tra la sapienza e la ignoranza. Disse Socrate: benchè tutti gli uomini sieno ignoranti, non dimeno io sono da gli altri in questo differente che io conosco la ignoranzia mia, dove gli altri non conoscono la loro. E così era in mezzo tra la Sapienzia, e l’ignoranza: il quale benchè le cose non sapesse, non dimeno sapeva la sua ignoranzia. Per tutte queste cose dette apparisce Socrate in tutto simile allo Dio Amore: e però lui essere amatore legittimo. Sì che meritamente Alcibiade quando gli altri convitati ebbono lodato lo Amore, giudicò dovere essere lodato Socrate, come vero cultore di questo Dio. Acciocchè noi intendiamo nel lodare Socrate, similmente lodarsi tutti quelli che amano come Socrate. Quali siano le lodi di Socrate, qui avete udito: e Alcibiade nel Convito le trattò lungamente. E in che modo amava Socrate, lo può conoscere qualunque della dottrina di Diotima si ricorda: perchè egli in quel modo amava che disopra insegnò Diotima.


Capitolo III

De lo amore bestiale, e come è spezie di pazzia


Ma dimanderammi forse alcuno, che utilità conferisca alla generazione umana questo Amore socratico per la quale sia degno di tante lodi: e che danno rechi lo Amore contrario. Io ve lo dirò, repetendo da lungi questa materia. Il nostro Platone diffinisce nel Fedro, il furore essere alienazione di mente: e insegna due generazioni di alienazione. Delle quali stima, che l’una venga da infermità umana: l’altra da inspirazione divina. La prima chiama stoltizia: la seconda furore divino. Per la malattia de la stoltizia, l’uomo cade sotto la spezie dello uomo: e di uomo quasi diventa bestia. Due sono le generazioni della stoltizia: l’una nasce dal difetto del cervello, l’altra dal difetto del cuore. Il cervello è occupato alcuna volta dalla collera adusta: alcuna volta dal sangue adusto: alcuna volta dalla nera feccia del sangue: e di qui gli uomini pazzi diventano. Quelli che sono tormentati dalla collera adusta, benchè non sieno da alcuni ingiuriati, agramente si adirano: gridano forte: avventansi in qualunque si scontra in loro: e manomettono sè e altri. Quelli che sono occupati dal sangue adusto, trascendono molto nel ridere: sopra tutti si vantano: gran cose di sè promettono: e con balli e canti fanno gran festa. Quelli che sono gravati dalla nera feccia del sangue, sono sempre melancolici, e certi loro sogni si fingono: i quali in presenzia gli spaventano, e di futuro gli fanno temere. E queste tre spezie di pazzia da difetto di cervello procedono. Perchè quando quelli umori si ritengono nel cuore angoscia e viltà partoriscono, non proprio pazzia: ma generano la pazzia propriamente, quando al capo salgono. E però si dicono quelle spezie di stoltizia, procedere da difetto di cervello: ma per difetto di cuore diciamo propriamente venire quella stoltizia, da la quale sono afflitti coloro, i quali si veggono nello Amore perduti. A questi s’attribuisce falsamente il sacratissimo nome di Amore. Ma perchè non paia che vogliamo restringere il vocabolo comune, usiamo in costoro ancora il nome di Amore.


Capitolo IV

Che lo amore vulgare è male d’occhio


E voi, Amici miei, con gli orecchi e con la mente attendete, se vi piace, a quello che io dirò. Il sangue nella adolescenzia è sottile, chiaro, caldo, e dolce. Perchè nel processo della età risolvendosi le sottili parti del sangue, ingrossa e ingrossando diventa sangue nero. Quello che è sottile e raro, è puro le lucido: e quello che è contrario, è per il contrario: ma perchè diciamo noi nella adolescenzia il sangue essere caldo e dolce? Perchè la vita e il principio del vivere, cioè la generazione, nel caldo e nell’umido consiste: e esso seme è caldo e umido. Tale natura nella puerizia e adolescenzia vigoreggia: nelle seguenti età a poco a poco nelle qualità contrarie, siccità e frigidità, si muta: e però il sangue nella dolescenzia è sottile, chiaro, caldo e dolce. Ma perchè egli è sottile, però è chiaro: perchè egli è nuovo, è caldo e umido: perchè egli è caldo e umido, però è dolce. Imperocchè la dolcezza nella mistione del caldo e dello umido nasce. A che fine dico io questo? dicolo, acciocchè voi intendiate in quella età gli spiriti essere sottili, chiari, caldi, e dolci. Perchè conciosia che gli spiriti si generino dal caldo del cuore del più puro sangue: sempre in noi son tali, quale è lo umore del sangue. Ma sì come questo vapore di sangue, che si chiama spirito, nascendo del sangue è tale, quale è il sangue: così manda fuori raggi simili a sè per gli occhi, come per finestre di vetro. E come il Sole che è cuore del mondo, per il suo corso spande il lume, e per il lume le sue virtù diffonde in terra: così il cuore del corpo nostro per un suo perpetuo movimento, agitando il sangue a sè propinquo, da quello spande gli spiriti in tutto il corpo: e per quelli diffonde le scintille de’ raggi in tutti i membri, massime per gli occhi: perchè lo spirito essendo levissimo, facilmente saglie a le parti del corpo altissime. E il lume dello spirito più copiosamente risplende per gli occhi: perchè gli occhi sono sopra gli altri membri trasparenti e nitidi. E che negli occhi e nel cervello sia qualche lume benchè piccolo, molti animali che di notte veggono, ne fanno testimonio: gli occhi de’ quali nelle tenebre splendono. Ancora avviene, che se alcuno in un certo modo col dito preme lo angulo, cioè la lagrimatoia dello occhio, alquanto rivolgendolo, pare che entro a lo occhio un circolo di luce vegga. Dicesi ancora che Ottaviano aveva gli occhi chiari e splendidi tanto che quando e’ fermava veementemente la luce in alcuno lo costringeva a guardare altrove, quasi come se abbagliasse al Sole. Tiberio ancora aveva gli occhi grandi: e alcuna volta desto dal sonno, per breve spazio di tempo, nelle notturne tenebre lume vedeva. Ma che il raggio, che si manda fuora per gli occhi, tiri seco lo spirituale vapore, e che questo vapore tiri seco il sangue, di qui lo possiamo intendere, che quelli che fisso guardano negli occhi d’altri infermi e rossi, cascano facilmente nel male d’occhio per cagione de’ raggi, che vengono da gli occhi infermi. Onde apparisce che il raggio si distende insino a colui che guarda: e insieme col raggio, il vapore del sangue corrotto corre: per la contazione del quale, l’occhio di chi vede, inferma. Scrive Aristotile che le donne quando sono nel corso del sangue mestruo, spesse volte guardando macchiano lo specchio di gocciole sanguigne. Credo io che questo di qui nasca, che lo spirito che è vapore di sangue, è quasi un certo sangue sottilissimo, in modo che non si manifesta agli occhi: ma ingrossando in su la superficie dello specchio, si fa visibile. Questo percotendo in materia rara, come panno o legno non si vede: perchè non rimane nella superficie di tale materia: ma passa dentro. Se percuote in materia densa e aspra, come sassi e mattoni, per la inegualità in tal corpo si rompe e dissipa. Ma lo specchio, per la sua durezza ferma nella superficie lo spirito: per la egualità e delicatezza sua lo conserva, che non si rompa: per la sua chiarezza il raggio dello spirito conforta e augumenta: per la sua frigidità condensa in gocciole la rara nebbiolina di quello vapore. Per la medesima ragione, quando a bocca aperta spiriamo forte in un vetro, bagniamo la superficie di quello d’una sottilissima rugiada di sciliva: perchè lo alito che da la sciliva vola fuori, condensato poi nella materia del vetro, in umore di sciliva finalmente ritorna. Chi si meraviglierà adunque, se l’occhio aperto, e con attenzione diritto inverso alcuno, saetti a gli occhi di chi il guarda le frecce de’ raggi suoi, e insieme con queste frecce, che sono il carro degli spiriti, scagli quel sanguigno vapore, che noi chiamiamo spirito? Di qui la velenosa freccia trapassa gli occhi: e perchè ella è saettata dal cuore di chi la getta, però si getta al cuore dell’uomo ferito, quasi come a regione propria a sè e naturale. Quivi ferisce il cuore: e nel suo dosso duro si condensa, e torna in sangue. Questo sangue forestiero, il quale da la natura del ferito è alieno, turba il sangue proprio del ferito: e il sangue proprio turbato, e quasi incerconito, s’inferma. Di qui nasce la fascinazione, cioè mal d’occhio, in due modi. Lo aspetto d’un puzzolente vecchio, o d’una femmina paziente il sangue mestruo, fa mal d’occhio a un fanciullo. Lo aspetto d’uno adolescente fa mal d’occhio a uno più vecchio: e perchè l’umore del vecchio è più freddo e tardo, appena tocca nel fanciullo il dosso del cuore: e perchè non è molto atto a trapassare, poco muove il cuore, se già per la infanzia non è molto tenero: e per questo è leggiero mal d’occhio. Ma quello è mal d’occhio gravissimo, nel quale la persona più giovane il cuore della più vecchia ferisce. Questo è quello, Amici miei, di che il platonico Apuleio si rammaricava dicendo: «la cagione tutta e la origine di questo mio dolore, e ancora la medicina e la salute mia, sei tu solo. Perchè questi tuoi occhi, per gli miei occhi passando infino al centro del mio cuore, un acerrimo incendio nelle midolle mie commuovono. Adunque abbi misericordia di costui, il quale per tua cagione perisce». Ponetevi innanzi agli occhi Fedro Mirrinusio e Lisia oratore tebano, di Fedro innamorato: Lisia balocco a bocca aperta guarda fiso nel volto di Fedro: Fedro negli occhi di Lisia le scintille degli occhi suoi forte dirizza: e con queste scintille verso Lisia manda lo spirito. In questo reciproco riscontro d’occhi il raggio di Fedro facilmente col raggio di Lisia si mischia: e lo spirito facilmente si annesta con lo spirito. Questo vapore di spirito che fu dal cuore di Fedro generato, subito al cuore di Lisia si avventa: e per la dura sustanzia del cuore di Lisia, si condensa: e condensato di nuovo divenga sangue, come fu già, della natura del sangue di Fedro: in modo che qui avviene cosa stupenda, e questo è che il sangue di Fedro, già nel cuore di Lisia si truova. Di qui l’uno e l’altro a gridare è costretto. Lisia a Fedro dice: o cuor mio, Fedro! oh mie interiora carissime! Fedro dice a Lisia: O spirito mio, o mio sangue, Lisia! Fedro seguita Lisia, perchè il cuore richiede il suo umore. Seguita Lisia Fedro: perchè l’umore sanguigno richiede il proprio vaso, e la propria sede. E seguita Lisia più ardentemente Fedro: perchè il cuore senza una minima particella di suo umore, più facilmente vive che lo amore senza il proprio cuore. Il rivolo ha più bisogno del fonte, che il fonte del rivolo. Adunque, come il ferro, poichè ha ricevuta la qualità della calamita, è tirato da questa pietra, e non tira lei: così Lisia più tosto seguita Fedro, che Fedro Lisia.


Capitolo V

Come facilmente si innamora


Dirà forse alcuno: oh può egli un sottile raggio, levissimo spirito, pocolino sangue di Fedro, tanto tosto, tanto forte, tanto pestilenzialmente tutto Lisia travagliare? Questo non parrà maraviglioso, se si considerano l’altre infermità, che per contagione s’appiccano: pizzicore, rogna, lebbra, mal di petto, tisico, maldipondi, rossori d’occhi, e pestilenzia. E dico che la contagione dello Amore agevolmente viene: e è sopra tutte le pestilenzie gravissima. Imperocchè quello spirituale vapore e sangue, il quale dal più giovane nel più vecchio si infonde, ha quattro qualità, come di sopra trattammo. Egli è chiaro, sottile, caldo e dolce: perchè egli è chiaro, si confà molto con la chiarezza degli occhi e degli spiriti, che sono nel vecchio: e per questa consonanza lusinga e alletta. Per questo avviene, che da quelli avidamente si bee. Perchè egli è sottile, al cuore velocemente vola: e da quello facilmente per le vene e per i polsi in tutto il corpo si sparge. Perchè egli è caldo, con veemenza adopera: e muove il sangue del vecchio, convertendolo in sua natura. E questo toccò Lucrezio quando disse: «Di qui quella gocciola della dolcezza venerea, stillando nel cuore tuo, lasciò dopo sè molesta cura». Oltre a questo, perchè egli è dolce, conforta gli interiori, pasce, e diletta. Di qui adviene che tutto il sangue dello uomo, da poi che è mutato nella natura del sangue giovenile, necessario appetisce il corpo del più giovane, acciò che abiti nelle proprie vene e acciò che il nuovo sangue passi per le vene nuove e tenere. Avviene ancora che questo ammalato è mosso insieme da voluttà e dolore. Da voluttà per la chiarezza, e la dolcezza di quello vapore e sangue1. La chiarezza alletta. La dolcezza diletta. Mosso è ancora da dolore, per cagione della sottilità e del caldo. La sottilità divide gli interiori, e lacera: il caldo a lo uomo toglie quello, che era suo: e nella natura d’altri lo muta. E per cagione di questa mutazione, non lo lascia in sè medesimo posare: ma tiralo sempre inverso quella persona dalla quale fu ferito. Questo accennava Lucrezio quando disse: «Il corpo ci tira a quello obbietto, onde fu la mente da Amore vulnerata: imperocchè comunemente i feriti cascano bocconi sopra la ferita: e il sangue a quella parte corre dove è la ferita: e se il nimico è prossimo, in verso quello il sangue corre». Lucrezio in questi versi vuole che il sangue dello uomo, il quale dal raggio degli occhi fu ferito, corra in verso colui che lo ha ferito: non altrimenti che il sangue di colui, che fu di coltello ucciso, corre inverso lo omicida. Se voi ricercate la ragione di questo miracolo, io ve lo chiarirò in questo modo: Ettore ferisce, e uccide Patroclo: Patroclo volge gli occhi in verso Ettore, che lo ferisce: onde il suo pensiero giudica doversi vendicare: e subito la collera s’accende a la vendetta. Dalla collera si infiamma il sangue: il quale infiammato, subito corre a la ferita, sì per difendere quella parte, sì eziandio per vendicare. Al luogo medesimo corrono gli spiriti: e gli spiriti perchè sono leggieri volano fuori, insino ad Ettore: e passano dentro a lui: e per il caldo suo insino a un certo tempo si mantengono: verbigrazia, insino a ore sette. Se in questo tempo Ettore accostandosi al ferito, intentamente guarda la ferita, la ferita spande il sangue inverso lui: quel sangue può verso il nimico uscire: sì perchè tutto il caldo non è ancora spento, e il movimento interiore non è finito: sì perchè poco innanzi era contro di lui commosso: sì eziandio perchè egli ricorre agli spiriti suoi: e gli spiriti tirano a sè il sangue loro. In simile modo vuole Lucrezio che il sangue dell’uomo che è da Amore ferito, inverso colui che lo ferì si avventi. La sentenzia del quale mi parve verissima.


Capitolo VI

De lo strano effetto dello amore vulgare


Ora dirò io, Amici onestissimi, uno effetto strano che ne seguita? o pure il tacerò? Io lo dirò pure, poi che la materia lo richiede, benchè ella paia cosa disonesta. Ma chi è quello che possa le cose disoneste in tutto onestamente narrare? Dice Lucrezio, amante sventurato, che quella grande mutazione, che si fa nel corpo del più vecchio, la quale piega inverso la complessione della persona più giovane, costringe che costui si sforzi tutto il suo corpo trasferire in quella, e tutto il corpo di quella in sè tirare. Acciocchè o veramente il tenero umore truovi vasi teneri, o veramente i vasi teneri truovino il tenero umore. E conciosia che il seme da tutto il corpo corra, stimano gli innamorati (secondo Lucrezio) che per il solo mandamento o tiramento di quello, possino tutto il loro corpo dare ad altrui: e tutto il corpo d’altri in sè tirare. E che gli amanti desiderino tutta la persona amata in sè ricevere, lo dimostrò Artemisia moglie di Mausolo re di Caria: la quale sì perdutamente amò il marito, che il corpo di lui morto, ridusse in polvere, e nell’acqua se lo bevve.


Capitolo VII

Che lo amore vulgare è rincerconimento2 di sangue.


Ma che questa malattia sia, come più volte abbiamo detto, nel sangue, darenvene un chiaro segno; e questo è che tale malattia non lascia punto di requie nello ammalato. E voi sapete che i fisici pongono la febbre continua nel sangue: quella che lascia un dì di riposo nella collera gialla: e quella che ne lascia due, nella collera nera. Meritamente adunque la febbre dello Amore poniamo nel sangue: dico nel sangue melancolico, come voi udisti nella orazione di Socrate. Dal sangue melancolico nasce sempre il pensiero fisso, e profondo.


Capitolo VIII

Come può lo amante diventare simile allo amato


E però nessuno di voi si maravigli se udissi alcuno innamorato avere conceputo nel corpo suo alcuna similitudine della persona amata. Le donne gravide molte volte desiderando il vino, veementemente pensano al vino desiderato. Quella forte immaginazione gli spiriti interiori commuove: e commovendogli, in essi dipinge la immagine del vino desiderato. Questi spiriti muovono similmente il sangue, e nella tenera materia del concetto la immagine del vino scolpiscono. Or’ chi è sì poco pratico, che non sappia che un Amante appetisce più ardentemente la persona amata, che le donne gravide il vino? E però più forte e fermo cogita. Sì che non è maraviglia che il volto della persona amata, scolpito nel cuore dello Amante, per tale cogitazione si dipinga nello spirito: e dallo spirito nel sangue si imprima. Spezialmente perchè nelle vene di Lisia già è generato il mollissimo sangue di Fedro: in modo, che facilmente può il volto di Fedro nel suo medesimo sangue rilucere. E perchè tutti i membri di tutto il corpo, come tutto il giorno si appassiscono, così ribagnandosi a poco a poco per la rugiada del nutrimento rinverdiscono, seguita che di dì in dì, il corpo di ciascuno, il quale a poco a poco si disseccò, similmente si rifaccia. Rifansi i membri per il sangue, il quale da’ rivoli delle vene corre. Adunque meraviglieraiti tu, se il sangue di certa similitudine dipinto, la medesima ne’ membri disegni in modo che Lisia finalmente riesca simile a Fedro in qualche colore, o lineamento, o affetto, o gesto?


Capitolo IX

Quali sono le persone che innamorare ci fanno


Dimanderà forse alcuno, da quali persone massime, e in che modo si allacciano gli amanti: e in che modo si sciolgono. Le femmine facilmente pigliano i maschi; e quelle più facilmente, che mostrano qualche effige masculina. I maschi ancora più facilmente pigliano gli uomini, essendo a loro più simili che le femmine: e avendo il sangue e lo spirito più lucido, più caldo e più sottile, nella qual cosa si appiccano le reti di Cupidine. E de ’l numero de’ maschi più velocemente fanno mal d’occhio a maschi e alle femmine quelli i quali nel maggior grado sono sanguigni, e nel minore collerici: e che hanno gli occhi grandi, azzurri e splendidi, e spezialmente se questi tali vivono casti. Imperocchè per lo uso del coito, risolvendosi i chiari spiriti, il corpo fusco diventa. Le parti predette, come sopra toccammo, si richieggono a saettare velocemente quelli strali, che sogliono il cuore ferire. Oltre a questo coloro danno presto nelle reti, nella natività de’ quali Venere discorreva per il Leone, o vero la Luna riguardava essa Venere di forte aspetto: e quelli ancora che sono della complessione medesima. I flemmatici non sono presi mai. I melancolici sono presi tardi: ma presi che e’ sono, mai non si possono sciorre. Quando la persona sanguigna lega la sanguigna è lieve giogo, e legame suave: perchè la simile complessione, scambievole amore produce. La suavità ancora di questo umore concede speranza e confidenza agli amanti. Quando la persona collerica allaccia la collerica, tale servitù è più difficile. Vero è che la similitudine della complessione fa qualche riscontro di benevolenzia in questi tali: ma quello focoso umore della collera gli fa spesso insieme imbizzarire. Quando la persona sanguigna pone il giogo a la collerica, o la collerica alla sanguigna, per cagione di quella mistione dello agro umore e del suave ne nasce una certa alterazione di ira e di grazia, di voluttà e di dolore. Quando la persona sanguigna annoda la melanconica, ne nasce nodo perpetuo, ma non miserabile: perchè la dolcezza del sangue l’amaritudine della melancolia contempera. Ma quando la persona collerica stringe la melancolica, ne risulta pestilenzia sopra tutte mortale: imperocchè l’umore acutissimo della persona più giovane, per le viscere della più vecchia di qua in là trascorre: onde la fiamma consuma le tenere midolle per la quale arde lo infelice Amante. La collera a la ira e a ’l percuotersi commuove: la melancolia a ’l dolore e rammarichii perpetui. Il fine dello Amore di costoro, spesse volte è quel medesimo, che di Fillide, Didone, e Lucrezio filosofo. La persona flemmatica o melancolica, perchè in lei il sangue e gli spiriti son grossi, non ferisce mai alcuno.


Capitolo X

Del modo dell’innamorare


Il modo come gli Amanti patiscono mal d’occhi abbiamo disopra detto assai se alle cose dette queste aggiugneremo: che i mortali allora massime pigliano mal d’occhio, quando frequentemente e fiso dirizzando lo occhio loro a lo occhio d’altri, congiungono i lumi con i lumi: e miserabilmente per quelli si beono lo Amore. Lo occhio è tutta la cagione e origine di questa malattia, come cantò Museo. In modo che se alcuna persona ha gli occhi grati, benchè negli altri membri non sia bene composta nondimeno costringe chi vi bada a innamorarsi. La persona che per il contrario modo è disposta, invita più tosto a una moderata benivolenzia, che a lo Amore. La consonanza degli altri membri oltre a gli occhi, non è propria cagione, ma occasione di tale malattia: perchè tale composizione invita colui che di lungi vede, che più accosto venga: e poi che di propinquo guarda, lo tiene a bada in tale aspetto: e mentre che egli bada, solo il riscontro degli occhi è quello che dà la ferita. Ma allo Amore moderato, il quale è della divinità partecipe, de ’l quale in questo Convito comunemente si tratta, non solamente lo occhio, ma eziandio la concordia e giocondità di tutte le parti come cagione concorre.


Capitolo XI

Del modo di sciorsi da lo amore vulgare


Insino a qui, in che modo e da chi siamo presi, abbiamo trattato. Resta che noi brevemente mostriamo in che modo ci possiamo sciorre. Il modo dello sciorsi è di due ragioni, uno è della natura, l’altro è della arte. Il naturale è quello, che con certi intervalli di tempo fa sua opera: e questo modo è comune a questa malattia, e a tutte le altre. Perchè il pizzicore nella pelle tanto dura, quanto dura la feccia del sangue nelle vene, o la flemma salsa ne’ membri. Chiarito il sangue, e ammortita la flemma, manca il pizzicore, e la rogna si parte. Non dimeno la debita diligenzia della evacuazione conferisce molto. La evacuazione o unzione repentina, è molto pericolosa. Similmente la agonia delli Amanti tanto tempo dura, quanto dura quello rincerconimento del sangue, indotto nelle vene per quello mal d’occhio detto. Il quale rincerconimento preme il cuore di grave cura, la ferita nelle vene nutrica, e con cieche fiamme arde i membri. Perchè da ’l cuore a le vene, da le vene a’ membri passa. Quando è chiarito tale rincerconimento, cessa l’affanno degli stolti amanti. Questo chiarire, lungo spazio di tempo in tutti richiede: e ne’ melancolici lo richiede lunghissimo. Spezialmente se nello influsso di Saturno, Cupidine con sue reti gli prese. Oltre a questo, tal tempo è amarissimo, se furono soggiogati in quel tempo che Saturno era retrogrado, o vero congiunto con Marte, o veramente al Sole opposito. Dura questo male ancora lunghissimo tempo in coloro, nella natività de’ quali Venere si trovava in casa di Saturno, o veramente era in partile aspetto di Saturno e della Luna. Debbesi aggiugnere a questa naturale purgazione, eziandio la industria della arte diligentissima. In prima è da guardarsi, che noi non tentiamo di sbarbare o di potare le cose che non sono ancora mature: e che noi non vogliamo stracciare con gran pericolo, quello che noi più sicuramente sdruscire possiamo. Debbesi diradare la usanza: e sopratutto aversi cura, che gli occhi nostri non si riscontrino con gli occhi della persona amata. E se alcuno difetto è nello animo o nel corpo di quella, nella mente spesso rivolgerlo conviene; e appiccare lo animo a molte diverse e gravi faccende: spesse volte trarsi sangue: e usare vino chiaro e odorifero: e spesso inebriarsi, acciò che traendo il sangue vecchio, il quale era rincerconito, si rifaccia nuovo sangue e nuovo spirito. Usare frequenti esercitazioni non sudando: per le quali i pori del corpo si aprino a mandar fuori i vapori maligni: e frequentare ancora quelli nutrimenti e lattovari che pongono i fisici a ’l rimedio del cuore e del cervello. Giova ancora universalmente il coito nella cura di Amore a ’l quale rimedio molto acconsentì Lucrezio, dicendo: «vuolsi con diligenzia fuggire le fallaci immagini: e levare da sè l’esca dello Amore: e volgere la mente altrove: e gettare lo umore ragunato, in diversi corpi: e in nessun modo ritenere il seme, che per amore d’una persona è in te turbato».


Capitolo XII

Del danno dello amore vulgare


Ma acciò che noi parlando lungo tempo di questa pazzia non impazziamo, in brevi parole conchiuderemo: che tra le spezie della pazzia, la più strana è quella affannosa cura, dalla quale i vulgari innamorati sono giorno e notte tormentati: i quali durante lo amore prima s’accendono dalla collera: poi s’affliggono dallo umore melancolico. Onde in furia rovinano e quasi come ciechi non veggono in quale precipizio cascano. Quanto sia pestilenziale questo adulterato Amore per le persone amate e per le Amanti, copiosamente lo disputa Lisia tebano e Socrate nel Fedro di Platone: e chiunque così ama, chiaro lo sente. Ma che può essere peggio che questo, che lo uomo per tale furore diventa bestia?


Capitolo XIII

De lo amore divino, e quanto è utile, e di quattro spezie di furori divini.


Infino a qui si è detto de la spezie del furore che da malattia procede. Ma quella spezie di furore la quale Dio ci inspira, innalza l’uomo sopra lo uomo: e in Dio lo converte. Il furore divino è una certa illustrazione della Anima razionale, per la quale, Dio, l’anima da le cose superiori a le inferiori caduta, senza dubbio da le inferiori a le superiori ritira. La caduta della Anima da un principio dell’universo infino a’ corpi, passa per quattro gradi, per la mente, ragione, oppenione e natura. Imperocchè essendo nell’ordine delle cose sei gradi, de’ quali il sommo tiene essa unità divina, lo infimo tiene il corpo: ed essendo quattro mezzi i quali narrammo, è necessario qualunque cade da ’l primo insino a l’ultimo, per quattro mezzi cadere. Essa unità divina è termine di tutte le cose e misura: senza confusione e senza moltitudine. La mente Angelica è una certa moltitudine di Idee: ma è tale moltitudine che è stabile e eterna. La ragione della Anima è moltitudine di notizie e d’argomenti, moltitudine, dico, mobile, ma ordinata. L’opinione ch’è sotto la ragione, è una moltitudine di immagini disordinate, e mobili: ma è unita in una sustanzia e in un punto. Conciò sia che la Anima nella quale abita la opinione, sia una sustanzia la quale non occupa luogo alcuno. La natura, cioè la potenzia del nutrire che è da l’Anima, e ancora la complessione vitale, ha simili condizioni: ma è per i punti del corpo diffusa. Ma il corpo è una moltitudine indeterminata di parti e d’accidenti, suggetta al movimento, e divisa in sustanzie, momenti e punti. L’Anima nostra risguarda tutte queste cose: per queste discende, per queste saglie. In quanto ella da essa Unità principio dell’Universo nasce, acquista una certa unità, la quale unisce tutta la essenzia sua, potenzie, e operazioni. Da la quale, e a la quale l’altre cose, che sono nella Anima, hanno tale rispetto, quale le linee del circulo hanno dal centro e al centro. E dico che quella Unità non solamente unisce le parti della Anima tra loro, e con tutta la Anima; ma eziandio tutta la Anima unisce con quella Unità la quale è cagione dello Universo. La medesima Anima in quanto riluce per il raggio della Mente divina, le Idee di tutte le cose, per la Mente, con atto stabile contempera. In quanto ella si rivolta a sè medesima, le ragioni universali delle cose considera, e da’ principii a le conclusioni argomentando discorre. In quanto ella risguarda i corpi, rivolge in sua oppenione le particulari forme e immagini delle cose mobili, ricevute per i sensi. In quanto ella s’inclina a la materia, usa la natura per istrumento, col quale muove la materia e formala: onde le generazioni e augumenti e ancora i loro contrarii procedono; voi vedete adunque che la Anima cade da quella Unità divina la quale è sopra la eternità, a eterna moltitudine: e da la eternità al tempo: e dal tempo al luogo e a la materia. Dico ch’ella cade allora, quando ella si parte da quella purità, con la quale ella è nata, abbracciando troppo il corpo.


Capitolo XIV

Per quali gradi i furori divini innalzino l’anima


Per la qual cosa come per quattro gradi discende, così è necessario che per quattro saglia. Il furore divino è quello che a le cose superiori ci innalza: come nella diffinizione sua fu manifesto. Quattro adunque sono le spezie del divino furore: il primo è il furore poetico: il secondo misteriale cioè sacerdotale: il terzo la divinazione, il quarto è lo affetto dello Amore. La Poesia da le Muse, il misterio da Bacco, la divinazione da Apolline, lo Amore depende da Venere. Certamente lo Animo non può a essa unità tornare, se egli non diventa uno. E pure egli è fatto multiplice, perchè egli è caduto nel corpo, in operazioni varie distratto, e inclinato alla infinita moltitudine delle cose corporee, il perchè le sue parti superiori quasi dormono, le inferiori soprastanno alle altre. Le prime di sonno, le seconde di perturbazione sono piene. E insemina tutto lo Animo di discordia e dissonanzia è pregno. Adunque principalmente ci bisogna il poetico furore il quale per tuoni musicali desti le parti che dormono: per la suavità armonica addolcisca quelle che sono turbate: e finalmente per la consonanzia di diverse cose scacci la dissonante discordia, e le varie parti della Anima temperi. Non è però ancora abbastanza questo, perchè nell’Animo resta ancora moltitudine, e diversità di cose. Aggiugnesi adunque il misterio appartenente a Bacco: il quale per sacrifizii, e purificazioni, e ogni culto divino, dirizza la intenzione di tutte le parti a la Mente, con la quale Iddio si adora. Onde essendo ciascuna delle parti dell’Animo a una Mente ridotta, già si può dire lo Animo un certo tutto di più3 essere fatto. Bisogna oltre a questo il terzo furore, il quale riduca la Mente a quella unità, la quale è capo dell’Anima. Questo adempie per la divinazione Apollo; imperocchè quando l’Anima sopra la Mente a la unità della Mente surge, le future cose prevede. Finalmente poi che l’Anima è fatto uno (quello uno dico il quale è in essa natura e essenza dell’Anima) resta che di subito a quello uno che sopra la essenzia abita, cioè a Dio, si riduca. Questo gran dono ci dà quella celeste Venere, mediante lo Amore, cioè mediante il desiderio della Bellezza divina, e mediante lo ardore del Bene. Il primo furore adunque tempera le cose disadatte, e dissonanti: il secondo fa che le cose temperate, di più parti un tutto diventano: il terzo fa un tutto sopra le parti: il quarto riduce a quello uno, il quale è sopra l’essenzia, e sopra il tutto. Platone nel Fedro la Mente data alle cose divine chiama nell’Anima Auriga, che vuole dire guidatore del carro dell’Anima. La unità dell’Anima chiama capo dell’Auriga. La ragione e oppenione che per le cose naturali discorre, chiama il buon cavallo; la fantasia confusa, e l’appetito de’ sensi, chiama cattivo cavallo. E la natura di tutta la Anima chiama carro: perchè il movimento della Anima, quasi come circulare da sè cominciando, in sè ritorna. Ove la considerazione sua venendo da la Anima, nella Anima si riflette. Attribuisce due ali a la Anima, con le quali a le sublimi cose voli. Di queste l’una stimiamo essere quella investigazione con la quale la Mente continuo a la verità si sforza: la altra ala, il desiderio del bene, per il quale la nostra volontà sempre arde. Queste parti della Anima perdono l’ordine loro, quando per la turbazione del corpo si confondono. Il primo furore distingue il buon cavallo, cioè la ragione e oppenione, dal cavallo cattivo cioè dalla fantasia confusa, e da lo appetito de’ sensi. Il secondo sottomette il cavallo cattivo al buono: e il buono sottomette allo Auriga: cioè alla Mente: il terzo dirizza l’Auriga al capo suo, cioè a la unità, la quale è la cima della Mente; l’ultimo volge il capo dello Auriga inverso il capo dello universo, ove l’Auriga è beato. E quivi a la mangiatoia, cioè a la divina bellezza ferma i cavalli, cioè accomoda tutte le parti della Anima a sè suggette: e pone loro innanzi ambrosia da mangiare e da bere il nettare, cioè porge loro la visione della Bellezza divina, e mediante la visione il gaudio. Queste sono le opere de’ quattro furori: de’ quali generalmente Platone nel Fedro disputa: e propriamente del poetico furore nel Dialogo chiamato Ione: e del furore amatorio nel Convito. Orfeo da tutti questi furori fu occupato: di che li suoi libri testimonianza fanno. Ma dal furore amatorio, spezialmente sopra gli altri furono rapiti Saffo, Anacreonte e Socrate.


Capitolo XV

Di tutti i furori divini lo amore è il più nobile


Di tutti questi furori il potentissimo e prestantissimo è lo Amore: potentissimo, dico, perchè tutti gli altri necessariamente hanno di lui bisogno. Perchè non possiamo conseguitare Poesia, Misterii, Divinazione senza diligente studio, ardente pietà e continuo culto di Dio. Ma studio, pietà e culto non è altro che Amore: adunque tutti i furori stanno per la potenzia di Amore. È ancora lo Amore prestantissimo, perchè a questo, come a fine gli altri tre furori si riferiscono: e questo prossimamente con Dio ci copula. Ma son quattro affetti adulterati i quali contraffanno questi quattro furori; il furore poetico è contraffatto da questa musica vulgare, la quale solamente gli orecchi lusinga. Il furore misteriale cioè de’ sacrifizi, è contraffatto dalla vana superstizione della plebe. Il furore profetico, dalla fallace coniettura della arte umana. Quello dello Amore dallo impeto della libidine. Il vero Amore non è altro che un certo sforzo di volare a la divina bellezza, desto in noi dallo aspetto della corporale bellezza. Lo Amore adulterato, è una rovina da ’l vedere a ’l tatto.


Capitolo XVI

Quanto è utile il vero amatore


Voi mi domandate a che sia utile lo Amore socratico. Io vi rispondo: che è prima utile a sè medesimo a ricomperare quelle ali con le quali a la patria sua rivoli. Oltre a questo è utile a la Patria sua sommamente a conseguitare la onesta e felice vita. La città non è fatta di pietre, ma di uomini: gli uomini si debbono cultivare, come gli alberi quando sono teneri: e dirizzare a produrre i frutti. La cura de’ fanciulletti consiste in quelli di casa sua: e di poi che sono cresciuti trapassano le leggi ricevute in casa, per la iniqua usanza di quelli che ridono loro in viso. Ora ditemi che farà qui il nostro Socrate? Permetterà egli che per la usanza degli uomini lascivi, sia quella gioventù corrotta? la quale è il seme della Repubblica che di nuovo tutto il dì germina. Ma se egli permette questo, dove resterà la carità della Patria? Socrate dunque soccorrerà alla Patria, e i figliuoli di lei che sono suoi fratelli libererà da pestilenzia. In che modo farà egli questo? forse che egli scriverà nuove leggi, per le quali separerà gli uomini lascivi da la conversazione de’ giovani? Ma tutti non possiamo essere Licurgi o Soloni. A pochi si dà l’Autorità di fare leggi. Pochissimi alle leggi date obbediscono. Adunque che farà Socrate? crediam noi che egli faccia per via di forza? o che con mano scacci i disonesti vecchi da i più giovani? Ma solo Ercole si dice aver potuto combattere con le mostruose fiere. Questa violenzia a gli altri è molto pericolosa. Sarebbeci forse un altro modo, e questo è, che Socrate gli uomini scellerati ammonisca, riprenda, e morda. Ma lo animo turbato dispregia le parole di colui che lo ammonisce. E ecci peggio che spesse volte manomette lo ammonitore. E per questo Socrate provando un tempo questo modo, dall’uno con le pugna, dall’altro con i calci fu percosso. Una via sola resta a la gioventù di sua salute: e questa è la conversazione di Socrate con lei. Per la qual cosa questo filosofo, dallo Oracolo d’Apolline giudicato sapientissimo di tutti i Greci, commosso da carità inverso la Patria, con li giovani per tutta la Città si mescola. Così il vero amatore la gioventù da falsi amanti difende: non altrimenti che diligente pastore difende il gregge degli innocenti agnelli da la pestilenziosa voracità de’ lupi. E perchè i pari con i lor pari facilmente conversano, Socrate si fa pari a più giovani con certi motti piacevoli, con semplicità di parole, e con purità di vita: e sè medesimo fa di vecchio fanciullo, acciocchè per la domestica e gioconda famigliarità, possa qualche volta di fanciulli fare vecchi. La giovanezza essendo a la voluttà inclinata non si piglia se non con l’esca del piacere: perchè fugge i rigidi maestri. Per questo il nostro tutore della adolescenzia, sprezzando per la salute della patria sua ogni sua faccenda, piglia in tutto sopra sè la cura de’ giovani. E prima gli adesca con una certa soavità di gioconda usanza: dipoi che gli ha in tal modo adescati, un poco più gravemente gli ammonisce: ultimamente con più severi modi gli riprende. Sì che in questo modo Fedone giovanetto posto nel disonesto luogo pubblico in Atene ricomperò da tale calamità: e fecelo degno filosofo. Platone nostro il quale era in poetiche favole perduto, costrinse a gittare i versi nel fuoco: e seguire studi più preziosi, i frutti de’ quali noi tutto il giorno gustiamo. Senofonte da una vulgare soprabbondanza ridusse a la sobrietà de’ Sapienti. Eschine e Aristippo di poveri fece ricchi. Fedro di oratore fece filosofo: Alcibiade di ignorante dottissimo: Carmide grave e vergognoso: Teagete giusto e forte tutore della Patria. Eutidemo e Menone da falsi argumentuzzi de’ sofisti, tradusse a vera sapienza. Onde nacque, che l’usanza di Socrate benchè fosse gioconda sopra l’altre, era nondimeno più utile che gioconda. E secondo che testimona Alcibiade, Socrate fu da giovani assai più amato, che egli alcuno ne amasse.


Capitolo XVII

In che modo si debbe rendere grazia a lo spirito santo che ci ha illuminati e accesi a disputare di amore.


Assai infino a qui, ottimi Convitati, che cosa sia Amore, qual sia il vero amatore, quanta sia la utilità del vero Amante, prima per le vostre disputazioni, e poi per la mia abbiamo felicemente trovato. Ditemi, chi è lo autore, chi è il maestro di questa invenzione tanto felice? sappiate che egli è quel medesimo Amore cagione del trovarlo: il quale da noi è qui trovato. Perchè noi accesi d’Amore di trovare l’Amore abbiamo cerco e trovato l’Amore. In modo che a lui medesimo, la grazia del cercare e del trovare si conviene refemore, o benignità sua senza comparazione alcuna! Gli altri celestiali finalmente dopo lunga ricerca appena un poco ci si mostrano. Ma Amore ci si fa presente prima che di lui cerchiamo. Per la qual cosa agli uomini pare essere più obbligati a questo, che agli altri celestiali. Sono alcuni che hanno ardire di bestemmiare la divina potenzia, perchè ella fulmina i peccati nostri. Sono alcuni che hanno in odio la Sapienzia di Dio, la quale a nostro dispetto vede tutte le nostre sceleratezze. Ma il divino Amore, perchè egli è donatore di tutti i beni, nessuno è che possa non amare. Per la qual cosa, amici miei, questo divino Amore il quale a noi è sì benigno e favorevole, adoriamolo in tal modo, che noi veneriamo la Sapienza: e con ammirazione temiamo la Potenzia; acciocchè mediante lo Amore, abbiamo tutta la divinità propizia: e amandola tutta con affetto di Amore, tutta ancora con Amore perpetuo la godiamo.

  1. Abbiamo in questo punto modificato alquanto la traduzione italiana, che presentava un contesto difficilmente comprensibile, e l’abbiamo resa conforme all’originale latino: «Fit etiam ut voluptate simul et dolore aeger hic tangatur. Voluptate, propter vaporis illius et sanguinis claritatem atque dulcedinem ecc.»
  2. Perturbatio.
  3. Ex pluribus.

Note

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