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XI
NEL TEMPO DELLA PESTE DI NAPOLI
Al padre Niceforo Sebasto, agostiniano
Sovra carro funebre
con tartareo flagello i draghi alati
furia di Flegetonte agita a volo.
De l’enfiate palpebre
ai guardi infetti e de la bocca ai fiati,
d’ossame imputridito ingombra il suolo.
Spettatrice di duolo
fassi l’Esperia, e di conforti esausto,
di tragedia fatal teatro infausto.
Indomito veleno
per le viscere altrui serpe baccante,
mentre qual idra il suo livor propaga;
sul margine tirreno
con pestifero stral parca anelante
di popolo infinito i petti impiaga;
con tante morti appaga
gli sdegni suoi, che di tristizia gonfi
erge in orride bighe i suoi trïonfi.
Spopolate le ville
son di bifolchi e di guerrier le ròcche,
di toghe i fòri e di ministri i tèmpi;
di lacrimose stille
son aride le luci, e le altrui bocche
stanche di morte a detestar gli scempi;
perché di madre adempi
la terra i mesti uffici, ancorché vasta,
l’ossa insepolte a sepellir non basta.
D’antidoti salubri
al contagio non è sicuro schermo
da l’arte d’Epidauro unqua prescritto;
su’ talami lugubri,
mentre s’adopra a sollevar l’infermo,
cade su l’egro il fisico trafitto;
il genitore afflitto,
di gelido pallore il volto tinto,
spira l’anima in braccio al figlio estinto.
Attaliche ricchezze,
lacera povertá, rapido strugge
con assalti improvvisi il morbo infame;
fulminate bellezze,
deformitá spiranti il foco adugge,
di fiamme ingorde a sazïar la fame;
a recider lo stame
di tante vite, infra singulti e strida
stanca la falce sua Cloto omicida.
Fra sí tragiche scene
io vivo, amico, e provvido riparo
contra influsso maligno alzar m’ingegno;
or co’ fogli d’Atene
dal comun fato a riserbarmi imparo,
or animando armonïoso un legno;
degli Elisi nel regno,
se resta il mondo in fra le stragi absorto,
entro un mar di sudori io spero il porto.
O di musici accenti
delfico re, che d’immortali e casti
lauri fregi il tuo crin sui gioghi ascrei,
se da languidi armenti
l’aure contaminate allor fugasti
quando l’ostie fumâr sui colli idei,
dagli aliti letei
tu preservami intatto; in roghi accensi
giá le vittime sveno, ardo gl’incensi.
Sovra letto spiumato
ove d’Olanda e di Getulia a scorno
ricca pompa facean gli ostri e le tele,
pallido, addolorato
languia l’inclito Alfonso, a cui dintorno
di ministri assistea turba fedele;
al palpito crudele
del suo petto anelante in dare esiglio,
d’Esculapio non giova arte o consiglio.
Tutto ciò che da l’erbe
e dai fiori stillò chimica mano,
de la vita real si sceglie a l’uso;
le dovizie superbe
di Cleopatra invan distempra, e ’nvano
altri il biondo metal rende diffuso;
ché al temerario fuso,
benché gli ori de l’Ermo in tazza ei mesce,
Cloto stami piú lunghi indarno accresce.
Gusta appena di Faso
l’ambito augel, che nauseante il rende
antipatia di congiurati umori;
da cruda sete invaso,
che d’incendio vorace il sen gli accende,
brama d’un fonte i gelidi liquori;
e fra notturni errori,
quand’altri le pupille aprir non ponno,
vien co’ fantasmi a funestarlo il sonno.
Cosí languia, quand’ecco
le memorie erudite, espresse in fogli,
con occhio immoto a contemplar s’accinse.
Dal petto arido e secco
gli occulti, inconsolabili cordogli
tosto a fuggir con quelle note astrinse.
In mar d’inchiostri estinse
gli ardori esorbitanti, e gli diè scampo
sol di bella virtú sereno un lampo.