< Spaccio de la bestia trionfante
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Epistola esplicatoria

PREFAZIONE



Lo Spaccio della bestia trionfante è uno dei più singolari ed attraenti del secolo XVI, e perciò appunto dei più difficili a ben descrivere. Sarebbero già una storia curiosa le vicende del suo titolo, delle sue sorti negl’incanti, nei manuali dei bibliotecarj, nella testa dei bibliofili. Le opinioni che vennero a prevalere in diversi tempi sull’oggetto e il fine dello Spaccio, farebbero un volume grosso come la medesima opera.

Che David Clemente dicesse il vero chiamandolo libro sopr’ogni altro rarissimo si prova per questo che fu citato male non meno spesso che fosse citato. Parecchie volte — Spaccio (cacciata, sconfitta) fu in queste citazioni scambiato in Specchio. Dell’essere il libro sì raro, fu assegnato per ragione ora il piccol numero d’esemplari che Bruno ne avrebbe per avventura fatto tirare, ora la premura dei preti e dei pastori a distruggerlo.

La curiosità mossa dal caro prezzo e rarità del libro, crebbe per l’aria di mistero, col quale ne parlavano coloro che l’avevano visto, o che altresì pretendevano averlo studiato. John Tolland inuzzolì particolarmente gli animi traducendolo in inglese e tirando questa sua versione a pochi esemplari, come se pochi intelletti fossero atti a gustarlo. L’Abate di Vougny, consiglier di gran camera e canonico di Nostra Donna, produsse il medesimo effetto, traducendone solo una parte, quasichè il rimanente dovesse esser occulto al pubblico francese, e per soprappiù stampandolo senza data e nome di città. Tolland, nel vero, non ne favellava di furto; lo dava senza riserbo pel libro più formidabile non solo alla corte di Roma, ma al Cristianesimo. Lacroze prese nel senso letterale la parola dell’eterodosso irlandese e svegliò con gridi d’allarme l’ortodossia così protestante come cattolica. Non poteva capacitarsi che «il Bayle, ch’aveva avuto fra mano il libro non ne avesse conosciuto il veleno.» Poi sorse l’ipotesi che lo Spaccio potrebbe ben essere il libro sì famoso al mondo sotto il titolo di Trattato dei tre impostori. Coloro che non osavano dichiararlo una pretta copia di questo famoso trattato, lo avevano per un’amplificazione di qualche dialogo di Luciano. Ecco perchè gli apologisti di Bruno rifiutarono talora di tenerlo per l’autore dello Spaccio. Di questo parere fu Heumann. Più circospetto e meno indulgente, Bruckero si contentò di revocare in dubbio quella paternità. Adelung altresì supponeva che fosse d’altro autore; o almeno inclinava a proclamare collaboratori di Bruno, Sidney, Greville e i loro amici; ma egli era tratto a tal congettura da un motivo diverso; egli teneva lo Spaccio per «un vero capolavoro di spirito e d’immaginazione.» Pochissimi critici ebbero la calma di Chaufepiè che non ne strabiliava come Tolland, nè trepidavane come Lacroze: «Questo libro, non è, al parer suo, così formidabile, come Tolland si figurava, imperocchè non vi sono che scherzi, e non ragioni ed argomenti, che possano persuadere le persone di buon senso. È far troppo onore agli scritti dei nemici della religione il pensare che possano portar tanto pericolo; è supporre che contengano obbiezioni importanti e senza replica; laddove che mettendoli in chiara luce, si fanno conoscere per quel che sono, per una vera debolezza.»

Allora tuttavia che non si sapeva nulla di ben preciso dell’argomento di questo libro si perfidiava a credere ch’avesse procurato a Bruno il supplizio del fuoco. Fondamento di tal credenza era il titolo, che s’interpretava senza riferirlo alla contenenza. E poi Scioppio non aveva affermato che la Bestia trionfante non era altro che il papa? Un giudizio sì grave ed autorevole poteva errare? Di che; «Spaccio della bestia trionfante» val quanto «sovversione del papato» così si ragionava gratuitamente. Alcuni conchiudevano per analogia: «a Wirtemberg, a Helmstaedt, Bruno aveva comparato il pontefice romano ad una bestia feroce ed astuta; per conseguente lo Spaccio della bestia trionfante non potersi intendere che della distruzione del papa e della chiesa cattolica.» Questo era un dimenticare che il libro era stato composto, letto, forse stampato nel palazzo del sig. de Mauvissière, cattolico fedele, e dichiarato, che non avrebbe mai protetto un aperto nemico della fede cristiana, l’autore d’uno scritto visibilmente, fragorosamente diretto contro il Santo Padre; come altresì Filippo Sidney, a cui l’opera era intitolata, non avrebbe dato la sua amistà ad un ateo, o accettato la dedica d’un panegirico dell’irreligione.

Rammentiamo dunque che questo titolo tante volte e sì male interpretato è polisenso come il libro che esso riassume. Nel senso proprio si tratta della bestia1, vale a dire degli animali che la mitologia e l’astronomia antica hanno messi in cielo; nel figurato si tratta della superstizione, vale a dire delle credenze popolari, che tengono gli astri influire nei destini e nelle volontà degli uomini2. La bestia è detta trionfante, perchè i segni dello zodiaco, e le nozioni d’influenza siderale, col corteggio dei pregiudizj, che vi si riferiscono, erano cose generalmente ammesse. Nè è poi da meravigliare che Bruno, non curando un andamento regolare ed un campo rigorosamente limitato, combatta di passo altre superstizioni da quelle degli astrologi, dei fisici, dei dottori della scuola, superstizioni per altro inseparabili dalle passioni e dagli errori teologici di quell’età. Egli dichiara francamente la guerra all’ignoranza, «perchè è ostile alla filosofia;» la dichiara «all’ortodossia scostumata e inumana, perchè gli sembra sovversiva dei principj di giustizia e di virtù.» Come Campanella medita, nel suo Atheismus triumphatus, la rovina dell’empietà, Bruno nella sua Bestia trionfante, vuole la rovina dei convincimenti pregiudicevoli, secondo lui, alla morale primitiva e al culto naturale del dovere.

Se il titolo dello Spaccio può ammettere diverse significazioni, la contenenza tende a parecchi fini. L’oggetto apparente è una riforma da fare tra le costellazioni dello zodiaco. Bisogna bandir dal cielo i nomi d’animali, i monumenti delle avventure sì scandalose degli Dei. Copernico e Lilio hanno ristabilito l’ordine fisico e matematico, nel moto del mondo, e nell’andamento delle stagioni; Bruno propone d’introdurre una specie di ordine morale nell’antico sistema degli asterismi, sostituendo ai nomi di deità giustamente spregevoli, i nomi delle qualità, e dei meriti degni della stima e dell’ammirazione dei mortali. Una seconda intenzione, un altro fine di Bruno è di privare del titolo di virtù una quantità di pretese perfezioni, vale a dire di perfezioni apparenti al giudizio di una moltitudine credula ed ignara, ma che sono tutt’altro al cospetto di una morale austera e saggia. Questo novello fine fa che lo Spaccio, uscendo dal suo essere di allegoria, diventi una satira. L’allegoria si contesse intimamente alla satira, la metafora si confonde con l'allusione, come la stessa astronomia con la morale. L'astronomia e la morale paiono all’autore del pari evidenti ed autentiche; egli ne fa i fondamenti della certezza scientifica. È mestieri che la astronomia sia morale, e che la morale sia utilmente rannodata all’astronomia. Quando le veraci virtù popoleranno il cielo, gli uomini, lasciandosi condurre da tali costellazioni, meneranno una vita pura e beata. Questo firmamento rinnovato e corretto, presenterà loro un mondo ideale, del quale le grandezze terrestri saranno imagini imperfette e riverberi scoloriti. Che sarà la prudenza umana appetto alla Provvidenza divina? il cielo spirituale, il paradiso, si collega al cielo materiale, agli astri; riformare i nomi zodiacali è, rispetto al vulgo, produrre l'effetto di una riforma morale. L'antico sistema degli asterismi rappresenta e riflette l'antica superstizione3. Queste favole, in cui il vizio regna senza vergogna, devono sparire, e non possono accordarsi con la nuova astronomia. Dacchè è dimostrato che gli abitatori della terra girano intorno al sole, dopo questa rivoluzione della scienza, è loro interdetto di porre la vita sotto la protezione di miserabili bruti e di vizj indiati. Eleggano a protettori astri onorevoli, e la loro condotta sarà altresì onorevole; commettano i loro destini, non ai capricci del caso, ma alle leggi della giustizia, e la lor vita sarà regolata ad una costante felicità.

Questo concetto era nuovo, sebbene sembri che le opere del Manzolli e di Basilio Zanchi 4 l’abbiano potuto suggerire. Era semplice, non essendo che una combinazione dell’idea d’influenza siderale con l'idea di una riforma astronomica. Il modo onde Bruno la mette in atto è certamente originale. Lo spirito e l'immaginazione vi abbondano a josa. Egli vi maneggia destramente l'allegoria e la metafora, l’allusione e l’epigramma. Egli si vale con non minore finezza che erudizione della mitologia, della simbolica degli antichi. La finzione che il mondo moderno sia ancora retto da Giove 5 e dalla corte dell’Olimpo, la fusione delle ricordanze della cavalleria, del maraviglio del medio evo con le novelle e le tradizioni del paganesimo antico, tutte queste nozioni che dipoi hanno originato lo spirito della mitologia, la filosofia della religione e della storia, la scienza di Vico e di Creuzer 6 sono per lo Spaccio una vena inesauribile di motteggi e di tratti faceti. Il filosofo vi parla a modo d’un alto moralista. Mano mano che ciascuna delle virtù, ordinate a scambiare i vizj del cielo, è messa in seggio, ha da Giove quel che deve fare e fuggire per restar lei; tutti i suoi attributi sono conti e spiegati, e, le più volte, personificati, come ricchiede l'allegoria; tutti i pericoli e gli eccessi da fuggire son tratteggiati con lo stesso vigore; tutta la successione delle qualità e dei vantaggi che accompagnano il ben fare sfila, a dir così, in ordine e con onori grandi. Si riscontra ad ogni passo un raro ingegno di osservazione psicologica, una profonda conoscenza del cuor umano e della vita contemporanea. Egli analizza le passioni con sicurezza pari alla felicità con cui le personifica, e alla fierezza con cui le reprime. Il pensatore resta ancora maggiormente attratto dal tuono sostenuto di questa lunga fizione, che si può avere in conto di una specie di predizione consolante per la filosofia. La verità e la saggezza, la franchezza e la giustizia vengono a scambiare nell’avvenire l'errore, le follie, le menzogne d’ogni fatta. Per quest'ultimo rispetto, lo Spaccio arieggia talora ad un'apocalissi.

Anche il letterato che apprezzasse meno le idee filosofiche si troverebbe pago, dall'un lato, per la scelta degli emblemi e dei paralleli, per la descrizione dei segni astronomici, e la pittura delle deità proposte; dall’altro, per la ricchezza prodigiosa dei sinonimi e pel sentimento delle gradazioni più delicate. Bisogna convenire che la nostra sodisfazione sarebbe più viva, se questa medesima abbondanza non fosse un difetto, e se queste frequenti digressioni non spiacessero oggi tanto quanto piacevano al tempo di Bruno. Del resto gli servivano ora a spargere, a rendere popolari i suoi principj di filosofia; ora a combattere, scherzando o seriamente, il triplo ordine de' suoi avversari, gl'ipocriti, gli scioli ed i pedanti.

Quest’opera, più che qualunque altra, dimostra come Bruno fosse un lettore assiduo di Dante; o a dir meglio, dimostra quanto tutta la letteratura italiana riconosca da questo genio creatore, da questo dotto universale. Il mescolamento del sacro e del profano in poesia, l’unione della mitologia antica con la fisica e la metafisica, con la dialettica e la morale, come altresì con la religione cristiana, la confusione del passato e del presente, delle cose dell'Orco con quelle dell’Inferno, una tendenza permanente all'allusione come all'allegoria, son cose che in generale tengono del dantesco. Ma tra la Divina Commedia e lo Spaccio corrono analogie più speciali. Nell’uno e nell’altro libro i vizj son rappresentati in figure di bestie. Sono la pantera, il leone, la lupa che impediscono al poeta di Firenze il levarsi fino al Chiaro Monte. Lo stesso uficio è assegnato agli animali segni dello zodiaco e alle nozioni astronomiche. Come Dante, nelle sfere ch’egli percorre, e di cui dispone come un creature, dà posto a’ suoi nemici e a’ suoi amici, sodisfacendo per questo modo a’ suoi presentimenti ed alle sue simpatie politiche. Così Bruno sa far biasimare i suoi antagonisti e lodare i suoi difensori nei discorsi detti nel consiglio presieduto da Giove, e singolarmente nelle tirate di Momo, specie di spirito forte che si beffa di coloro medesimi ai quali obbedisce, e che volge spesso a suo grado tutta l’augusta assemblea. Dante è condotto e diretto da Virgilio, vale a dire dalla poesia in persona; il Nolano, sotto il nome di Saulino, 7 è ammaestrato vuoi da Sofia, vuoi da Mercurio, vale a dire dalla saggezza e dall’eloquenza. Nè Dante nè Bruno, attraverso le loro peregrinazioni, in mezzo a tutto quello che sentono o veggono, nel maggior fervore delle loro pinture e delle loro dissertazioni non dimenticano d’essere italiani: ma dimostrano ai popoli d’altri tempi e ai paesi vicini fin a qual punto il patriotismo italiano può esaltarsi. La teologia, la regina delle scienze secondo Dante, occupa nello Spaccio fin troppe pagine.

  1. Bestia è presa collettivamente per tutto il regno animale; in abstracto per tutta la specie dei bruti.
  2. Bruno rifiuta senza misericordia i sogni astrologici: «Influxus nullus est ex iis quos ingens distantia ab orbe subjecto diremit.» (De Mon., num. et fig. c. 1.)
  3. «Adde hoc universi systema tot cyclis et epicyclis constans, non ad veri rationem, sed ut hypothesin, ad commodum astronomicarum computationum fuisse excogitatum. Ubi vero stultitia adolevit, et hebescere cœpit ingenii humani acies, genera quædam fabulosorum numinum conflicta fuerunt, quibus quasi animis motricibus systematis illius partes procurarentur. Istæ fabulæ Ægyptiorum, quæ ad reconditos sensus occultandos initio fuerunt inventæ, demum procedente ævo pro veris habitæ sunt. Tandem insania hominum eo processit, ut vitiatæ longo usu cœlestium rerum imagines in pessimum vitæ exemplum adhibitæ sint, et in totidem numina mutatæ. Denique explosa luce per gentes, turpis fabula genita est, quæ crudelia et impia facta induxit, tyrannidemque, schismata et ignorantiam omnium rerum pietatem esse voluit, perverso omni vitæ ratione et usu.»
    Ecco quel che Bruno scriveva sette anni dopo la pubblicazione dello Spaccio (de Monade, ecc. pag. 151, 12.)
  4. Il titolo dell’opera di Manzolli (Marcellus Palingenius) è qui significativo: Zodiacus vitæ, 1537. Il libro di B. Zanchi, Hortus Sophiæ, dedicato al cardinal Bembo, è una splendida descrizione in versi delle dottrine cristiane; ma l’autore, canonico lateranense, ne cavò di morire in prigione sotto Paolo IV.
  5. Bruno adopera sovente il nome di Giove per indicare con gli stoici, particolarmente con Crisippo, la natura universale.
  6. Lo stesso spirito, secondo lui, può trovarsi in parecchi individui, in corpi diversi, come l’anima del profeta Elia in Giovanni Battista. Gli anacronismi che Bruno si piace di commettere, facendo, per esempio, i frati servi degli Dei, incaricando Giove di riformare il clero cattolico, o veramente (nell'allegoria del Corvo) assimilando Noè ed Apollo; questi anacronismi, queste anomalie non sono un mero divertimento, ma resultano dal desiderio di trovare nelle religioni positive i principj della religione naturale. Questo desiderio è più che evidente laddove Bruno si studia di provare una specie d'identità tra i miti delle nazioni, tra le tradizioni dell'oriente e quelle dell'occidente, tra i racconti biblici e le storie profane. Cotale tendenza, presa dagli Alessandrini, procede in lui da quel principio essenziale della sua filosofia che in tutte le cose bisogna cercare di rinvenire il punto di contatto e di coincidenza, la base dell’unione fra i contrari, il terreno in cui tutte le dualità devono ridursi all’unità, la coincidenza dei contrari. Certo un tale amalgama del divino e dell’umano, del cristianesimo e del politeismo, urta troppo spesso, oltre la ragione ed il gusto, il sentimento religioso delle menti illuminate; ma al secolo decimosesto non produceva tal effetto. All’apertura del Concilio di Trento, il vescovo di Bitonto, Cornelii Musso, stabilì la necessità dei concilj sull’esempio che, nell’Eneide, Giove aduna gli Dei, e Dio che, alla creazione dell'uomo, e in occasione della torre di Babele, convocò pure un concilio. Bruno suppone costituito un simile concilio per la riforma del cielo, riforma che deve precedere e servir d’esempio a quella della terra.
  7. In apparenza Saulino e Nolano son due persone distinte; l’una ascolta, l’altra scrive: udito da Saulino, registrato dai Nolano.

Note

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