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IX. Siviglia
VIII X

IX.


Il viaggio da Cordova a Siviglia non desta la meraviglia come quello da Toledo a Cordova; ma è pur bello ancora; sono sempre quei boschi di aranci, quegli oliveti sconfinati, quei colli vestiti di pampini, quei prati coperti di fiori. A poche miglia da Cordova si vedon le torri diroccate del formidabile castello di Almodovar, posto sur una roccia altissima, che domina un immenso spazio all'intorno; a Hornachuelos, un altro vecchio castello sulla sommità d'una collina, in mezzo un paesaggio solitario e melanconico; più oltre la bianca città di Palma, nascosta in un foltissimo bosco d'aranci, cinto alla sua volta da una corona di orti e di giardini; e via via si trascorre in mezzo a campi biondeggianti di grano, fiancheggiati da lunghissime siepi di fichi d'India, da filari di piccole palme, da boschetti di pini, da folte piantagioni di alberi fruttiferi; e ad ogni tratto si vedon colli e castelli e torrenti e svelti campanili di villaggi celati tra gli alberi, e cime azzurre di monti lontani.

Son belle sopra ogni cosa le piccole case campestri sparse lungo la strada. Non ricordo d’averne veduta una che non fosse bianca come la neve. È bianca la casa, bianco il parapetto del pozzo vicino, bianco il muricciuolo che cinge l’orto, bianchi i due pilastrini della porta del giardino; ogni cosa par stata imbiancata il giorno innanzi. Alcune di queste case hanno una o due finestrine binate alla moresca, altre qualche arabesco sulla porta, altre il tetto coperto di tegole variopinte come le case arabe. Qua e là, pei campi, si vedon cappe rosse e bianche di contadini, cappelli di velluto in mezzo all’erba, ciarpe di tutti i colori. I contadini che si vedono sulle aiuole, o che accorrono a veder passare il treno, sono vestiti tal quale ce li rappresentano i quadri di costumi di quarant’anni fa: hanno un cappello di velluto con una grandissima tesa un po’ rivoltata, con una piccola cupola a pan di zucchero; una giacchettina corta, un panciotto aperto, un par di calzoni tagliati al ginocchio come quelli dei preti, un par di ghette alte fino ai calzoni, e una fascia intorno alla vita. Questa foggia di vestire, incomoda, ma bella, s’attaglia mirabilmente alle forme snelle di quegli uomini, i quali preferiscono assai lo star bellamente male allo star bene senza grazia, e s’acconciano di buon grado a stintignare una mezz’ora ogni mattina, pur di avere indosso un paio di calzoncini che mettano in rilievo il fianco svelto e la gamba ben tornita. Non han nulla di comune coi nostri contadini del settentrione, dal muso duro e dall’occhio attonito. Quelli vi fissan negli occhi, con un sorriso, i loro grandi occhi neri, come se vi volessero dire: — Non mi riconoscete? — lancian degli sguardi audaci alle signore che metton la testa fuori del finestrino; accorrono per porgervi un fiammifero prima che voi glielo abbiate domandato; qualche volta rispondono in rima a una vostra interrogazione, e son capaci persino di ridere per farvi vedere i loro denti bianchi.

A la Rinconada si comincia a vedere, in dirittura della strada ferrata, il campanile della Cattedrale di Siviglia; e a destra, di là dal Guadalquivir, le belle colline coperte d’oliveti, ai piedi delle quali giaccion le rovine d’Italica. Il treno volava, e io parlavo tra me e me, a mezza voce, affrettando le parole via via che spesseggiavan le case, con quell’affanno pien di desiderio e di gioia, che si prova salendo le scale dell’amante. Siviglia! Siviglia è là! È là la regina dell’Andalusia, l’Atene spagnuola, la madre del Murillo, la città dei poeti e degli amori, la famosa Siviglia, di cui pronunciavo il nome fin da fanciullo con un sentimento di dolce simpatia! Chi m’avesse detto, qualche anno fa, che io l’avrei veduta! Eppure non è un sogno! Quelle case son ben di Siviglia, quei contadini laggiù son Sivigliani; quel campanile ch’io vidi, è la Giralda! Io a Siviglia? È strano! Mi vien voglia di ridere! Che farà mia madre in questo momento! Se fosse qui! Se fosse qui il tale, il tal altro! Peccato esser solo! Ecco le case bianche, i giardini, le stradine... Siamo nella città... Ora si scende... Ah! come è bella la vita!...

Arrivai a un albergo, buttai la valigia nel patio, e cominciai a errare per la città. Mi parve di riveder Cordova ingrandita, abbellita e arricchita; le strade son più larghe, le case son più alte, i patios più spaziosi; ma l'aspetto generale della città è il medesimo; è quella bianchezza purissima, quella rete intricata di stradine, quell'odor diffuso d'aranci, quell'aria gentile di mistero, quella sembianza orientale, che desta nel cuore un sentimento dolcissimo di amorosa malinconia, e nella mente mille fantasie e desiderii e visioni d'un mondo lontano, d'una vita nuova, d'una gente ignota, d'un paradiso terrestre pieno d'amori, di delizie, di pace. In quelle strade si legge la storia della città; ogni balcone, ogni frammento di scultura, ogni crocicchio solitario rammenta l'avventura notturna d'un Re, le ispirazioni d'un poeta, le vicende di una bella, un amore, un duello, un rapimento, una favola, una festa. Qui è una memoria di Maria Padilla, là di don Pedro, più oltre del Cervantes, altrove del Colombo, di Santa Teresa, del Velasquez, del Murillo. Una colonna rammenta la dominazione Romana, una torre, lo splendore della monarchia di Carlo V, un alcazar, la magnificenza della corte degli Arabi. Accanto alle modeste casine bianche, s'innalzano i sontuosi palazzi marmorei; le piccole strade tortuose sboccano nelle vaste piazze popolate di aranci; dal crocicchio deserto e silenzioso si riesce, con un breve giro, nella strada corsa da una folla rumorosa; e per tutto dove si passa, si vedono a traverso i graziosi cancelli dei patios, fiori, statue, fontane, fughe di sale, muri coperti di arabeschi, finestrine arabe, sottili colonne di marmi preziosi; e a ogni finestra, in ogni giardino, donnine vestite di bianco, mezzo nascoste, come timide ninfe, fra le foglie dei pampini e i cespugli delle rose.

Di strada in strada arrivai alla riva del Guadalquivir, sui viali del passeggio della Cristina, che è per Siviglia ciò che per Firenze il Lungarno. Qui si gode uno spettacolo incantevole.

Mi avvicinai prima alla famosa Torre dell’Oro. Questa famosa Torre, chiamata dell’Oro o perchè vi si chiudeva l’oro che i bastimenti spagnuoli portavano dall’America, o perchè il re Don Pedro vi nascondeva i suoi tesori, è ottagona, formata da tre piani rientranti, coronata di merli e bagnata dal fiume. La tradizione narra che questa torre fu costrutta al tempo dei Romani, e che vi soggiornò per lungo tempo la bellissima favorita di quel Re, quando la torre era congiunta all’alcazar da un edifizio che venne demolito per far luogo al passeggio della Cristina.

Questo passeggio si stende dal palazzo del duca di Montpensier fino alla Torre dell’Oro ed è tutto ombreggiato da platani d’Oriente, da quercie, da cipressi, da salici, da pioppi, e d’altri alberi del settentrione, che gli Andalusi ammirano come ammireremmo noi le palme e gli aloè nelle campagne del Piemonte e della Lombardia. Un gran ponte accavalcia il fiume, e conduce al sobborgo di Triana, del quale si vedono le prime case sulla sponda opposta. Una lunga fila di bastimenti, di golette, di barconi si stende sul fiume, e fra la Torre dell’Oro e il palazzo del Duca, è un va e vieni di barchette. Tramontava il sole. Una folla di signore formicolava pei viali, frotte di operaie passavano nel ponte, ferveva il lavoro sui bastimenti, sonava una banda musicale nascosta tra gli alberi, il fiume era color di rosa, l’aria odorava di fiori, il cielo pareva tutto in fuoco.

Rientrai in città, e godetti il meraviglioso spettacolo di Siviglia notturna. I patios di tutte le case erano illuminati; quei delle case modeste, rischiarati da una mezza luce che ne abbelliva d’un’aria di mistero la grazia; quei dei palazzi, pieni di fiammelle, che facevan sfolgorare gli specchi e scintillare come getti d’argento vivo gli zampilli delle fontane, e luccicare di mille colori i marmi dei vestiboli, i musaici delle pareti, le vetriere delle porte, i cristalli dei doppieri. Si vedeva dentro un formicaio di signore, si sentiva per tutto un suon di risa, di voci, di musiche; pareva di passare in mezzo a tante sale da ballo; da ogni porta usciva un’onda di luce, di fragranze e d’armonie; le strade erano affollate; fra gli alberi delle piazze, sotto gli atrii, in fondo ai vicoli, sui terrazzini, da ogni parte si vedevan gonnelle bianche ondeggiare, sparire e riapparire nell’ombra; e testine ornate di fiori vezzeggiare alle finestre; e gruppi di giovani attraversar la folla gettando allegre grida; e gente salutarsi e discorrere fra le finestre e la strada, e per tutto un moto affrettato, un gridìo, un riso, una gaiezza carnevalesca. Siviglia non era più che un immenso giardino, nel quale folleggiava un popolo fremente di giovinezza e d’amore.

Per uno straniero, quelli son momenti assai tristi. Mi ricordo che avrei dato del capo nel muro. Erravo qua e là mezzo sbalordito, col capo basso, col cuore stretto, come se tutta quella gente si divertisse per insultare la mia solitudine e la mia malinconia. Era troppo tardi per portare le lettere di raccomandazione, troppo presto per andare a dormire: ero schiavo di quella folla e di quell’allegrezza, e dovetti subirla per molte ore. Provai un sollievo sforzandomi di non guardar in viso le donne; ma non ci riuscivo sempre, e quando i miei occhi incontravano per caso due pupille nere, la trafittura era più acerba, appunto perchè improvvisa, che se avessi sfidato il pericolo col cuore pronto. Ero pure in mezzo a quelle Sivigliane tremendamente famose! Le vedevo passare, strette al braccio dei loro mariti e dei loro amanti, toccavo le loro vesti, inspiravo il loro profumo, sentivo il suono delle loro molli parole, e il sangue mi saliva al capo come un’onda di fuoco. Fortunatamente mi ricordai d’aver inteso dire a Madrid da un Sivigliano che il Console d’Italia soleva passar la serata nella bottega d’un suo figliuolo negoziante; cercai questa bottega, la rinvenni, vi trovai il Console, e consegnandogli una lettera d’un amico suo: — Caro Signore! — gli dissi con un tuono drammatico che lo fece ridere; — mi soccorra lei; Siviglia mi fa paura!

A mezzanotte la città non aveva mutato aspetto; v'era ancora tutta quella folla e tutta quella luce; tornai all'albergo e mi chiusi nella camera coll'intenzione di andar a letto. Peggio che peggio. Le finestre della camera davano sur una piazza dove formicolava un visibilio di gente intorno a una banda musicale che non finiva mai di suonare; cessata la musica, cominciaron le chitarre, le grida degli acquaioli, i canti, le risa; tutta la notte fu un baccano da svegliare le talpe. Io feci un sogno delizioso e tormentoso ad un tempo; ma più tormentoso. Mi pareva d'esser legato al letto da una lunghissima treccia nera attorcigliata in mille nodi, e di sentirmi sulle labbra una bocca di brage che mi toglieva il respiro, e intorno al collo due manine vigorose che mi schiacciavano il capo contro il manico d'una chitarra.

La mattina seguente andai difilato a vedere la Cattedrale.

Per descrivere ammodo codesto smisurato edifizio, bisognerebbe aver sotto mano una raccolta di tutti gli aggettivi più sperticati e di tutte le più strampalate similitudini che uscirono dalla penna degli iperboleggiatori di tutti i paesi, ogni volta che ebbero a dipingere qualcosa di prodigiosamente alto, di mostruosamente largo, di spaventosamente profondo, d'incredibilmente grandioso. Quando ne parlo cogli amici, senza accorgermene, faccio anch'io, come il Mirabeau di Vittor Ugo, un colossal mouvement d’épaules, e gonfio le gote e ingrosso a grado a grado la voce a somiglianza di Tommaso Salvini nella tragedia Sansone, quando con un accento che fa fremer la platea, dice che si sente ricrescer ne’ nervi il vigore. Parlar della Cattedrale di Siviglia, stanca come suonare un grosso strumento a fiato o sostenere una conversazione da una sponda all’altra d’un torrente rumoroso.

La Cattedrale di Siviglia è isolata in mezzo ad una vastissima piazza, e però se ne può misurar la grandezza con un colpo d’occhio. Sul primo momento, pensai al motto famoso che proferì il Capitolo della Chiesa primitiva, decretando l’8 luglio del 1401, la costruzione della nuova Cattedrale: — Inalziamo un siffatto monumento che faccia dire ai posteri che noi eravamo pazzi. — Quei reverendi canonici non hanno fallito al loro intento. Ma per accertarsene bisogna entrare. L’aspetto esterno della Cattedrale è grandioso e magnifico; ma senza paragone meno che l’interno. Manca la facciata; un alto muro circonda tutto l’edifizio a modo d’una fortezza. Per quanto si giri e si guardi, non si riesce a fissar nella mente un contorno unico che, al pari dell’epigrafe d’un libro, porga un chiaro concetto del disegno dell’opera; si ammira e si prorompe più d’una volta nell’esclamazione: — È immenso! — ma non ci si appaga; e s’entra nella chiesa frettolosamente, desiderosi di provare un sentimento di meraviglia più intero.

Al primo entrare si rimane sbalorditi, ci si sente smarriti come in un abisso; e per qualche momento non si fa che descrivere collo sguardo immense curve per quell'immenso spazio, quasi per accertarsi che la vista non c'inganna e la fantasia non c'illude. Poi ci si avvicina a uno dei pilastri, si misura, e si guardano gli altri lontani: son grossi come torri, e paion sottili da far fremere al pensiero che l'edifizio vi poggia su. Si percorrono ad uno ad uno, con uno sguardo rapido, dal pavimento alla vòlta, e par di poter contare i momenti che lo sguardo impiega a salire. Son cinque navate, che formerebbero ciascuna una grande chiesa. In quella di mezzo potrebbe passeggiare a testa alta un'altra Cattedrale colla sua cupola e il suo campanile. Tutte insieme formano sessantotto vòlte ardimentose che, a guardarle, par che lentamente si allarghino e si sollevino. Tutto è enorme in questa Cattedrale. La cappella maggiore, posta nel mezzo della navata principale, e alta fin quasi a toccar la volta, pare una cappella costrutta per de' sacerdoti giganti a' quali gli altari comuni non arrivino sino al ginocchio; il cero pasquale sembra un albero di bastimento; il candelabro di bronzo che lo sopporta, un pilastro d'una chiesa; gli organi, case; il coro, è un museo di scultura e di cesellatura, da meritare ei solo una visita d'una giornata. Le cappelle sono degne della chiesa: vi sono profusi i capolavori di sessantasette scultori e di trentotto pittori. Il Montanes, il Zurbaran, il Murillo, il Valdes, l'Herrera, il Boldan, il Roëlas, il Campana, v'hanno lasciato mille traccie immortali della loro mano. La cappella di san Ferdinando, che racchiude i sepolcri di questo Re, della sua sposa Beatrice, di Alfonso il Saggio, del celebre ministro Florida Blanca, e d'altri personaggi illustri, è una delle più belle e più ricche. Il corpo del re Ferdinando, che redense Siviglia dalla signoria degli Arabi, vestito della sua assisa guerriera, colla corona e col manto, riposa in una cassa di cristallo, coperta d'un velo. Da un lato è la spada che portava il giorno della sua entrata in Siviglia; dall'altro la canna, emblema del comando. In quella stessa cappella si conserva una piccola vergine d'avorio, che il santo Re portava seco in guerra, e altre reliquie di gran valore. Nelle restanti cappelle sono grandi altari di marmo, tombe di stile gotico, statue di pietra, di legno, d'argento, chiuse in ampie casse di cristallo, col petto e le mani coperte di diamanti e di rubini; e stupendi quadri, che, sgraziatamente, la scarsa luce che scende dalle alte finestre non rischiara tanto che si possano ammirare in tutta la loro bellezza.

Ma dalla considerazione delle cappelle, dei quadri, delle sculture, si ritorna senza posa ad ammirare la Cattedrale nel suo grandioso e, se si potesse dire, formidabile aspetto. Dopo essersi slanciati su fino a quelle altezze vertiginose, lo sguardo e la mente ricadono a terra, quasi stanchi dello sforzo, come per ripigliar nuova lena a salire. E le immagini che vi pullulano nel capo, rispondono alla vastità della Basilica: angeli smisurati, teste di cherubini mostruose, ali grandi come vele di naviglio, e svolazzi di manti candidi immensi. L'impressione che vi produce codesta Cattedrale è tutta religiosa; ma non mesta; è quel sentimento che trasporta il pensiero negli spazi interminati e nei tremendi silenzi, nei quali s'annegava il pensiero di Leopardi; è un sentimento pieno di desiderio e di ardire; il brivido voluttuoso che si prova sull'orlo d'un abisso; il turbamento e la confusione delle grandi idee; il divino terrore dell'infinito.

Come è la cattedrale più varia della Spagna (chè l'architettura gotica, la germanica, la greco-romana, l'araba e quella nominata volgarmente plateresca vi lasciarono ciascheduna una impronta), ella è pure la più ricca e la più privilegiata. Nei tempi della maggior potenza del clero, vi si bruciavano, ogni anno, ventimila libbre di cera; vi si celebravano, ogni giorno, su ottanta altari, cinquecento messe; il vino che si consumava nel sacrifizio ascendeva all'incredibile quantità di diciottomila settecento cinquanta litri. I canonici avevano un servidorame da monarchi, si recavano alla chiesa in splendide carrozze tirate da superbi cavalli, si facevano sventolare dai chierici, mentre celebravan la messa, con enormi ventagli ornati di piume e di perle; diritto concesso loro dal Papa, del quale alcuni approfittano ancora oggigiorno. Non occorre parlare delle feste della settimana santa che sono ancora adesso famose nel mondo, e alle quali accorre gente da tutte le parti d'Europa.

Ma il privilegio più curioso della cattedrale di Siviglia è la così detta danza de los seises, che ha luogo ogni sera, sull’imbrunire, per otto giorni consecutivi, dopo la festa del Corpus Domini. Poichè fui a Siviglia in quei giorni, l’andai a vedere, e mi parve cosa degna di esser descritta. Da quanto me n’era stato detto prima, mi pareva che la dovesse essere una pagliacciata scandalosa, ed entrai nella chiesa coll’animo preparato a un sentimento di sdegno per la profanazione del luogo sacro. La chiesa era buia; la sola cappella maggiore illuminata; una folla di donne ginocchioni ingombrava lo spazio fra la cappella e il coro. Alcuni preti stavan seduti a destra e sinistra dell’altare; davanti alla gradinata era disteso un ampio tappeto; due file di ragazzi dagli otto ai dodici anni, vestiti da cavalieri spagnuoli del medio evo, con cappello piumato e calze bianche, eran schierati gli uni di fronte agli altri, in faccia all’altare. A un cenno dato da un sacerdote, una soave musica di violini ruppe il silenzio profondo della chiesa, e le due schiere di ragazzi si mossero con un passo di contraddanza, e cominciarono a dividersi, a intrecciarsi, a sciogliersi, a riannodarsi, con mille graziosissimi giri; e poi proruppero tutti insieme in un canto armonioso e gentile, che echeggiò nell’oscurità della vasta cattedrale come la voce d’un coro d’angeli; e un momento dopo, si misero ad accompagnare la danza ed il canto colle nacchere. Nessuna cerimonia religiosa mi commosse mai come questa. È impossibile esprimere l’effetto che producevano quelle vocine sotto quelle immense vòlte; quelle creaturine ai piedi di quell'altare enorme; quella danza composta, quasi umile; quel costume antico, quella folla prostrata, e intorno intorno quelle tenebre. Uscii dalla chiesa coll'anima serena come se avessi pregato.

A proposito di questo ballo mi fu raccontato un aneddoto assai curioso. Due secoli or sono, un arcivescovo di Siviglia al quale pareva che colle contraddanze e le nacchere non si lodasse degnamente il Signore, volle proibire la cerimonia. Ne seguì un sottosopra: il popolo strepitò; i canonici alzaron la voce; l'arcivescovo fu costretto a chieder soccorso al papa. Il papa, curioso, volle vedere coi suoi occhi il ballonzolo per poter giudicare con conoscimento di causa. I ragazzi, vestiti da cavalieri, furon condotti a Roma, ricevuti nel Vaticano e fatti danzare e cantare in presenza di Sua Santità. Sua Santità rise, non disapprovò, e volendo dare un colpo al cerchio e uno alla botte, ossia contentare i canonici senza scontentare l'arcivescovo, decretò che i ragazzi potessero continuare a ballare finché avessero logorato i vestiti che si trovavano addosso; dopo di che la cerimonia si sarebbe considerata come abolita. L'arcivescovo rise sotto i baffi, se li aveva, e i canonici risero anch'essi, come quelli che avevan già trovata la maniera di farla in barba all'arcivescovo e al papa. E infatti essi rinnovarono ai ragazzi ogni anno una parte del vestiario, in modo che non si potesse dire mai che tutto il vestiario era logoro; e l'arcivescovo che, da uomo scrupoloso, pigliava l'ordine del papa alla lettera, non si potè opporre alla ripetizione della cerimonia. Così si continuò a ballare e si balla e si ballerà fin che piaccia ai canonici e a Domeneddio.

Mentre stavo per uscir dalla chiesa, un sacrestano mi fece un cenno, mi condusse dietro al coro, e m'indicò una lastra del pavimento, sulla quale lessi una iscrizione che mi fece battere il cuore. Sotto quella pietra sono sepolte le ossa di Ferdinando Colombo, figlio di Cristoforo, nato a Cordova, morto a Siviglia il 12 luglio del 1536, nell'età di cinquant'anni. Sotto l'iscrizione si leggono alcuni distici latini del seguente significato:

«Che vale ch'io abbia bagnato dei miei sudori l'intero universo, ch'io abbia percorso tre volte il nuovo mondo scoperto da mio padre, ch'io abbia abbellito le rive del tranquillo Beti, e preferito i miei gusti semplici alle ricchezze per riunire intorno a te le divinità della sorgente di Castalia, e offrirti i tesori raccolti già da Tolomeo, se tu, passando in silenzio su questa pietra, non rivolgi nemmeno un saluto a mio padre, e a me un lieve ricordo?»

Il sacrestano che ne sapeva più di me, mi spiegò questa iscrizione. Ferdinando Colombo fu, giovanissimo, paggio di Isabella la Cattolica e del principe Don Giovanni; viaggiò nelle Indie con suo padre e suo fratello, l'ammiraglio Don Diego, seguì l'imperatore Carlo V nelle sue guerre, fece altri viaggi in Asia, in Affrica e nell'America, e per tutto raccolse con infinite cure e ingenti spese libri preziosissimi, dei quali compose una biblioteca, che dopo la sua morte passò nelle mani del capitolo della cattedrale, e rimane tuttora col titolo famoso di Biblioteca Colombina. Prima di morire scrisse egli stesso i distici latini che si leggono sulla pietra della sua tomba e manifestò il desiderio di essere sepolto nella cattedrale. Negli ultimi momenti della sua vita, si fece portare un vassoio pieno di cenere, se ne asperse il viso pronunziando le parole della Sacra Scrittura: Memento homo quia pulvis es, intonò il Te Deum, sorrise e spirò colla serenità d'un santo. Subito mi prese il desiderio di visitar la biblioteca e uscii dalla chiesa.

Un cicerone mi arrestò sulla soglia per domandarmi se avevo visto il Patio de los Naranjos (il cortile degli aranci), e avendogli risposto di no, mi ci condusse. Il cortile degli aranci è posto a tramontana della cattedrale, e cinto d'un gran muro merlato. Nel mezzo sorge una fontana, circondata da un boschetto d'aranci, e da un lato, accanto al muro, un pulpito di marmo, ai piedi del quale narra la tradizione che predicasse san Vincenzo Ferrero. Nello spazio di questo cortile, che è amplissimo, sorgeva l'antica moschea che si crede sia stata costrutta verso la fine del secolo duodecimo. Ora non ne rimane più traccia. All'ombra degli aranci, sull'orlo della vasca della fontana, vanno a pigliare il fresco i buoni sivigliani en las ardientes siestas del estio; e a rammentare il voluttuoso paradiso di Maometto non resta che la leggiadra verzura e l'aria imbalsamata, e ad ora ad ora qualche bella fanciulla dai grandi occhi che vi saetta trasvolando in mezzo agli alberi lontani.

La famosa Giralda della cattedrale di Siviglia, è un'antica torre araba, costrutta, a quanto si afferma, nell'anno mille, sul disegno dell'architetto Gaver, inventore dell'algebra; modificata nella parte superiore dopo la riconquista, e ridotta così a campanile cristiano; ma pur sempre araba all'aspetto, e tuttavia più altera dello sparito stendardo dei vinti, che non della croce a lei nuovamente imposta dai vincitori. È un monumento che produce una sensazione nuova; fa sorridere; è smisurato e imponente come una piramide egizia, e ad un tempo gaio e gentile come un chiosco di giardino. È una torre di mattoni, quadrata, d'un bellissimo color di rosa, nuda fino a una certa altezza, e di qui in su ornata di finestrine moresche, binate, sparse qua e là come a caso, munite di balconcini che fanno un bellissimo vedere. Sul piano dove posava anticamente un tetto variopinto, sormontato d'un'asta di ferro che sorreggeva quattro enormi palle dorate; sorge il campanile cristiano, di tre piani, il primo occupato dalle campane, il secondo cinto d'una balaustrata, il terzo formato da una specie di cupola, sulla quale gira come una banderuola una colossale statua di bronzo dorato, che rappresenta la Fede, con una palma da una mano e dall'altra uno stendardo, visibile a grande distanza da Siviglia, e quando vi batte il sole, scintillante a somiglianza di un enorme rubino confitto nella corona d'un re titano che signoreggi collo sguardo tutta la vallata andalusa.

Salii fino alla sommità, e là fui ampiamente compensato delle fatiche della salita. Siviglia, tutta bianca come una città di marmo, cinta d'una corona di giardini, di boschi e di viali, in mezzo ad una campagna sparsa di ville, si stende sotto allo sguardo in tutta la pompa della sua bellezza orientale. Il Guadalquivir carico di navi l'attraversa e l'abbraccia con un larghissimo giro. Qui la Torre dell'Oro disegna le sue graziose forme sulle acque azzurre del fiume, là l'Alcazar ostenta le sue austere torri, più oltre giardini del Montpensier spingono oltre i tetti degli edifizii un ammasso enorme di verzura; lo sguardo penetra dentro il circo dei tori, nei giardini delle piazze, nei patios delle case, nei claustri delle chiese, in tutte le strade che vengono a sboccare intorno alla cattedrale; lontano, si scorgono i villaggi di Santi-Ponce, di Algaba ed altri che biancheggiano alle falde delle colline; a destra del Guadalquivir, il grande borgo di Triana; da un lato, lontanissimo, le creste dentellate della Sierra Morena; dal lato opposto altri monti svariati d'infinite tinte azzurrine; e sopra questo meraviglioso panorama il più puro, il più trasparente, il più incantevole cielo che abbia mai sorriso allo sguardo dell'uomo.

Sceso dalla Giralda, andai a vedere la biblioteca Colombina, posta in un edifizio antico, accanto al Patio de los Naranjos. Dopo aver visto una collezione di messali, di bibbie, di manoscritti preziosi, uno tra i quali attribuito ad Alfonso il Saggio, intitolato: Il Libro del Tesoro, scritto con diligentissima cura nella vecchia lingua spagnuola; vidi, — lasciatemelo ripetere, — vidi, — io — coi miei occhi inumiditi, e premendomi una mano sul cuore che mi batteva forte, vidi un libro, un trattato di cosmografia e di astronomia, in latino, coi margini coperti di note scritte dalla mano di Cristoforo Colombo. Egli aveva studiato quel libro quando volgeva in mente il grande disegno, aveva vegliato su quelle pagine, le aveva toccate, forse la sua divina fronte, in quelle veglie faticose, si era qualche volta chinata con uno stanco abbandono su quelle pergamene, e le aveva bagnate di sudore! È un pensiero che fa fremere! Ma c'è ben altro! Vidi uno scritto della mano di Colombo, nel quale sono raccolte tutte le profezie degli antichi scrittori sacri e profani intorno alla scoperta d'un nuovo mondo; scritto del quale egli si servì, a quanto pare, per indurre i sovrani di Spagna a fornirgli i mezzi di tentare la sua impresa. V'è, fra gli altri, un passo della Medea del Seneca, che dice: Venient annis sæcula seris, quibus oceanus vincula rerum laxet, et ingens Pateat tellus. E nel volume del Seneca, che si trova pure nella biblioteca Colombina, accanto al passo citato, v'è una annotazione del figlio Ferdinando, che dice: — Questa profezia è stata avverata da mio padre, l'ammiraglio Cristoforo Colombo, l'anno 1492. — Mi si riempiron gli occhi di lacrime; avrei voluto esser solo per baciare quei libri, per stancarmi a forza di rivolgerli tra le mani, per poterne staccare un piccolo frammento e portarlo con me, come una cosa sacra. Cristoforo Colombo! Ho visto i suoi caratteri! Ho toccato i fogli ch'egli ha toccato! L'ho sentito così vicino a me! Uscendo dalla biblioteca, non so... mi sarei gettato in mezzo alle fiamme per salvare un bambino, mi sarei spogliato per soccorrere un povero, avrei fatto lietamente qualche grande sacrifizio; ero tanto ricco!

Dopo la biblioteca, l'Alcazar; ma prima di arrivare all'Alcazar, benchè si trovi nella stessa piazza della cattedrale, sentii per la prima volta che cos'è il sole dell'Andalusia. Siviglia è la città più calda della Spagna, quella era l'ora più calda della giornata, ed io mi trovavo nel punto più caldo della città; v'era un oceano di luce; non una porta, non una finestra aperta, non un'anima viva; se m'avessero detto che Siviglia era disabitata, l'avrei potuto credere. Attraversai la piazza lentamente cogli occhi socchiusi, col viso raggrinzato, col sudore che mi filava a grosse goccie giù per le guancie e per il petto, con le mani che mi pareva d'averle tuffate in un secchio d'acqua. Vicino all'Alcazar trovai una specie di baracca d'un acquaiolo, e mi cacciai sotto colla precipitazione d'un uomo che si ripari da una tempesta di sassi. Ripreso un po' di fiato, mi mossi verso l'Alcazar.

L'Alcazar, antico palazzo dei Re mori, è uno dei monumenti meglio conservati della Spagna. Visto di fuori, pare una fortezza: è tutto cinto di alte mura, di torri merlate e di vecchie case, che formano davanti alla facciata due spaziosi cortili. La facciata è nuda e severa come le altre parti esteriori dell'edifizio. La porta è ornata di arabeschi dorati e dipinti, fra i quali si vede una iscrizione gotica che accenna il tempo in cui l'Alcazar fu restaurato per ordine del re Don Pedro. L'Alcazar, infatti, benchè sia un palazzo arabo, è opera più dei re Cristiani che dei re Arabi. Fondato non si sa precisamente in che anno, fu ricostrutto dal re Abdelasio verso la fine del dodicesimo secolo; conquistato dal re Ferdinando verso la metà del secolo decimo terzo; rifatto una seconda volta, nel secolo seguente, dal re Don Pedro; abitato poi, per più o meno tempo, da quasi tutti i re di Castiglia; e infine scelto da Carlo V per celebrarvi il suo matrimonio coll'Infanta di Portogallo. L'Alcazar fu testimone degli amori e dei delitti di tre schiatte di Re; ogni sua pietra desta un ricordo e custodisce un segreto.

Si entra, si attraversano due o tre sale, nelle quali non riman più d'arabo che il soffitto e qualche musaico a piè dei muri, e si riesce in un cortile dove si rimane attoniti dalla meraviglia. Un portico ad archi elegantissimi si stende lungo i quattro lati, sostenuto da colonnine di marmo, unite a due a due; e gli archi e i muri e le finestre e le porte son coperte di sculture, di musaici, di arabeschi intricatissimi e delicatissimi, dove traforati come veli di trina; dove fitti e chiusi come tappeti trapunti; dove sporgenti e penzoli come mazzi e ghirlande di fiori; e fuor che i musaici dai mille colori, ogni cosa è bianco, nitido, luccicante come l'avorio. Ai quattro lati son quattro grandi porte per le quali si entra nelle sale reali. Qui la meraviglia si muta in incanto. Quanto di più ricco, di più vario, di più splendido può sognare la più ardente fantasia nel più ardente dei suoi sogni, si trova in codeste sale. Dal pavimento alla volta, intorno alle porte, lungo gli spigoli delle finestre, negli angoli più appartati, in qualunque parte cada lo sguardo, appare un tal formicolío di ornamenti d'oro e di pietre preziose, una così fitta rete di arabeschi e d'iscrizioni, una così meravigliosa profusione di disegni e di colori, che appena si son fatti venti passi, si è sbalorditi e confusi, e l'occhio erra qua e là stanco, quasi cercando un palmo di parete nuda, in cui rifugiarsi e riposare. In una di queste sale il custode vi accenna una macchia rossastra che copre un buon tratto del pavimento marmoreo, e vi dice con voce solenne:

"Questa è la traccia del sangue di Don Fadrique gran mastro dell'Ordine di Sant'Jago, ucciso in questo luogo medesimo, l'anno 1358, per ordine del re Don Pedro, suo fratello."

Mi ricordo che quando udii queste parole guardai in viso il custode coll'aria di voler dire: — Gnamo, via; — e che il buon uomo mi rispose con un tuono secco:

"Caballero, se io le dicessi di creder la cosa sulla mia parola, ella avrebbe ogni ragione di dubitarne; ma quando la cosa la può veder lei coi suoi occhi, sbaglierò, ma... mi pare..."

"Sì," m'affrettai a dire, "sì, è sangue, lo credo, lo vedo, non parliamone più."

Ma se si può scherzar sulla macchia del sangue, non si può sulla tradizione di quel delitto; l'aspetto del luogo ne ravviva nella mente tutti i più orrendi particolari. Per l'ampie sale dorate par di sentir risuonare il passo di Don Fadrique, inseguito dai balestrieri armati di mazze; il palazzo è immerso nelle tenebre; non si sente altro rumore che quello dei carnefici e della vittima; Don Fadrique cerca di entrar nel cortile, Lopez de Padilla lo agguanta, Fadrique si scioglie, è nel cortile, afferra la spada, maledizione! la croce dell'elsa s'è intricata nel mantello dell'Ordine di Sant'Jago, i balestrieri sopraggiungono, ei non ha più tempo a sguainare la lama, fugge qua e là a tentoni, Fernandez de Roa lo raggiunge e lo atterra con un colpo di mazza, gli altri gli si avventano addosso e feriscono, Faldrico spira in un lago di sangue...

Ma questo tristo ricordo si perde in mezzo alle mille immagini della vita deliziosa dei re Arabi. Quelle finestrine gentili, alle quali par che si debba affacciar da un momento all'altro un volto languido di Odalisca; quelle porte segrete, davanti alle quali vi fermate vostro malgrado, come se aveste sentito il fruscío d'una veste; quei dormentori dei Sultani, immersi in una oscurità misteriosa, nei quali vi par di sentir confusi in un solo i gemiti amorosi di tutte le fanciulle che vi perdettero il fior verginale; quella prodigiosa varietà di colori e di fregi che a somiglianza di una concitatissima e sempre cangiante sinfonia vi leva i sensi in non so quale smarrimento fantastico che vi fa dubitar di sognare; quell'architettura delicata e leggerissima, tutta colonnine che paion braccia di donne, archetti capricciosi, stanzini, volte affollate di ornamenti che pendono in forma di stallatiti, di diacciuoli e di grappoli, variopinte come aiuole fiorite; tutto questo vi mette il desiderio di sedervi in mezzo a una di quelle sale, e di star là premendovi sul cuore una bella testa bruna d'Andalusa, che vi faccia dimenticare il mondo e il tempo, e con un lunghissimo bacio che vi assorbisca la vita vi addormenti per sempre.

Al pian terreno, la più bella sala è quella degli ambasciatori, formata da quattro grandi archi che sostengono una galleria di quarantaquattro archi minori, e in alto una leggiadra cupola scolpita, dipinta, dorata, ricamata con una grazia inimitabile e uno sfarzo favoloso. Al piano superiore, dov'eran gli appartamenti d'inverno, non rimane che un oratorio di Ferdinando e d'Isabella la Cattolica, e una piccola stanza che si dice sia quella in cui dormiva il re Don Pedro. Di qui si scende per una scala stretta e misteriosa nelle stanze in cui abitava la famosa Maria di Padilla, favorita di Don Pedro, che la tradizione popolare accusa d'aver istigato il re al fratricidio.

I giardini dell'Alcazar non sono molto vasti, nè straordinariamente belli; ma i ricordi che destano valgon più della vastità e della bellezza. All'ombra di quegli aranci e di quei cipressi, al mormorio di quelle fontane, quando splendeva in quel purissimo cielo andaluso una grande e candida luna, e il folto sciame dei cortigiani e degli schiavi posava; quanti lunghi sospiri di ardenti sultane! quante umili parole di re superbi! che tremendi amori, e che tremendi amplessi! — Itimad! mio amore! — mormoravo io, pensando all'amante famosa di re Al-Motamid, e intanto giravo di sentiero in sentiero come inseguendo il suo fantasma; — Itimad! Non lasciarmi solo in questo tacito paradiso! Arrestati! Rendimi un'ora della felicità di questa notte! Ti ricordi? Tu venisti a me, e la tua ricca chioma cadde sulle mie spalle come un manto; e in quel modo che il guerriero impugna la sua spada, io afferrai il tuo collo più bianco e più morbido di quello del cigno! Com'eri bella! Come il mio cuore ansioso estinse la sua sete dentro la tua bocca color di sangue! Il tuo bel corpo uscì dalla tua veste splendidamente ricamata, come una lama nitida e scintillante esce dalla guaina; e allora io premetti con ambe le mani i tuoi grandi fianchi, e la tua vita sottile e tutta la perfezione della tua bellezza! Come sei cara, Itimad! Il tuo bacio è dolce come il vino, e il tuo sguardo, come il vino, fa smarrir la ragione!

Mentre facevo così la mia dichiarazione amorosa con frasi e immagini rubacchiate ai poeti arabi, e proprio nel momento che infilavo un sentiero tutto fiancheggiato da' fiori, mi sentii a un tratto venir su tra gamba e gamba uno zampillo d'acqua; feci un salto indietro, ricevetti uno spruzzo nel viso; mi voltai a destra, uno spruzzo nel collo; mi girai a sinistra, uno spruzzo nella nuca; mi misi a correre, acqua di sotto, dai lati, da tutte le parti, a zampilli, a sprazzi, a pioggia, così che in un momento mi trovai fradicio come se mi avessero tuffato in una tinozza. Nel punto che apro la bocca per gridare, tutto cessa, e sento una sonora risata in fondo al giardino; mi volto, e vedo un giovanotto, appoggiato a un muricciuolo, che mi guarda coll'aria di dire: — Le è piaciuto? — Quando uscii mi mostrò l'ordigno che aveva toccato per farmi quella broma (facezia), e mi confortò assicurandomi che il sole di Siviglia non mi avrebbe lasciato molto tempo in quello stato di spugna intrisa, a cui ero passato così bruscamente, me infelice! dalle braccia amorose della mia sultana.

La sera, malgrado le voluttuose immagini che m'avea suscitate nella mente l'Alcazar, fui abbastanza calmo da poter considerare la bellezza delle sivigliane senza esser poi costretto cercare uno scampo tra le braccia del console. Io non credo che in nessun paese esistan donne più atte delle andaluse a far concepire il disegno d'un rapimento; non solo perchè destin la passione che fa far le corbellerie; ma perchè davvero paion fatte apposta per esser prese, abballottate e nascoste, tanto son piccole, leggiere, rotondette, elastiche, morbidine. I loro piedini vi entrerebbero agevolmente tutti e due in una tasca del soprabito, con una mano le levereste su per la vita come le bambole, e premendole un po' con un dito le pieghereste come una verghetta di giunco. Alla bellezza naturale accoppian poi l'arte di camminare e di guardare in una maniera da far dar di volta al cervello. Scivolano, sguisciano, ondeggiano; in un momento solo, passandovi accanto, vi mostrano il piedino, vi fanno ammirare il braccio, vi mettono in evidenza la vitina, vi scoprono due file di denti bianchissimi, e vi lanciano uno sguardo lungo e velato che si figge e muore nel vostro; e poi tiran via con aria di trionfo, sicure d'avervi messo il sangue sossopra.

Per avere un'idea della bellezza delle donne del popolo e della loro foggia di vestire, andai a vedere il giorno dopo la fabbrica di tabacchi, che è una delle più vaste d'Europa e conta non meno di cinquemila operaie. L'edifizio è di fronte al vasto giardino del duca di Montpensier; le operaie si trovan quasi tutte in tre grandissime sale, divisa ciascuna in tre parti da tre file di pilastri. Il primo colpo d'occhio è stupendo; vi si presentano tutte insieme allo sguardo ottocento ragazze, divise in gruppi di cinque o sei, sedute intorno ai tavolini da lavoro, fitte come una folla, le lontane confuse, le ultime appena visibili; tutte giovani, poche bambine; ottocento chiome nerissime e ottocento visi bruni di ogni provincia d'Andalusia, da Iaen a Cadice, da Granata a Siviglia. Si sente un brulichío come in una piazza piena di popolo. Le pareti, dalla porta d'entrata fino alla porta d'uscita, in tutte tre le sale, sono tappezzate di gonnelle, di scialli, di fazzoletti, di sciarpe; e, cosa curiosissima, tutto quell'ammasso di cenci che basterebbe a riempire cento botteghe da rigattiere, presenta due colori dominanti, tutti e due continui, l'uno sotto l'altro, come i colori d'una lunghissima bandiera: il nero degli scialli sopra, il roseo delle vesti sotto; misto al rosso il bianco, il porporino, il giallo; e par di vedere un'immensa bottega di maschere o un'immensa sala da ballo in cui le ballerine, per esser più libere, abbiano appeso al muro tutto ciò che non è strettamente necessario a salvare il pudore. Le ragazze si rimettono quei vestiti per uscire; per lavorare veston roba da strapazzo; ma ugualmente bianca o rosea. Il caldo essendo insopportabile, tutte s'alleggeriscono quant'è possibile, e perciò fra quelle cinquemila ve ne saranno appena una cinquantina delle quali il visitatore non possa contemplare a suo bell'agio il braccio e la spalla, senza tener conto dei casi straordinari che si presentano all'improvviso passare da una sala all'altra, dietro le porte e le colonne, e in fondo agli angoli lontani. Vi sono dei visi bellissimi; ed anco i non belli hanno qualche cosa che attira lo sguardo e s'imprime nella memoria: il colorito, l'occhio, le ciglia, il sorriso. Molte, e specie le così dette gitane, sono d'un bruno carico come le mulatte, e han le labbra tumide; altre, gli occhi tanto grandi che un loro ritratto fedele parrebbe un'esagerazione mostruosa; la maggior parte son piccine e ben fatte, e tutte hanno una rosa o una viola o un mazzetto di fiori di campo fra le treccie. Sono pagate in ragione del lavoro che fanno; le più abili e le più operose guadagnano fino a tre lire il giorno; le pigre — las holgazanas — dormono colle braccia incrociate sul tavolo e la testa appoggiata sulle braccia; le mamme lavorano dimenando una gamba cui è legata una cordicella che fa dondolare una culla. Dalla sala dei sigari si passa in quella dei cigarritos, da quella dei cigarritos in quella delle scatole, da quella delle scatole in quella delle casse, e per tutto si vedon sottane color di rosa, treccie nere ed occhioni. In una sola di quelle sale quante storie d'amore, di gelosie, d'abbandoni e di miserie! All'uscire di quella fabbrica, per un pezzo vi par di vedere da ogni parte pupille nere che vi guardano con mille espressioni diverse di curiosità, di noia, di simpatia, di allegrezza, di mestizia, di sonno.

Lo stesso giorno andai a vedere il Museo di pittura.

Il Museo di pittura di Siviglia non possiede un gran numero di quadri; ma quei pochi valgono un grande Museo. Vi sono i capolavori del Murillo, e fra questi l'immortale Sant'Antonio da Padova, che ha fama di essere la più divinamente ispirata delle sue creazioni, e una delle più grandi meraviglie del genio umano. Visitai quel Museo col signor Gonzalo Segovia e Ardizone, uno dei più illustri giovani di Siviglia, e vorrei ch'egli fosse ora qui, accanto al mio tavolino, per testificare con una noticina firmata che nel punto ch'io fissai gli occhi su quel quadro, lo afferrai pel braccio e gettai un grido.

Una volta sola, in vita mia, provai una commozione della natura di quella che m'assalì alla vista di quel l'immagine. Era una bella notte d'estate, il cielo tutto scintillante di stelle, e la vasta campagna che si abbracciava con uno sguardo dal luogo alto dove mi trovavo, immersa in una quiete profonda. Una delle più nobili creature ch'io abbia incontrato finora nella vita, era accanto a me. Poche ore prima avevamo letto alcune pagine d'un libro dell'Humboldt. Guardavamo il cielo, e parlavamo del moto della terra, dei milioni dei mondi, dell'infinito, con quel tuono sommesso, quasi di voce lontana, che vien spontaneo quando si parla di tali cose, di notte, in un luogo silenzioso. A un certo punto tacemmo, e ciascuno si abbandonò, cogli occhi fissi nel cielo, alle sue fantasie. Io non so per qual ordine di pensieri riuscii dove riuscii; non so che misterioso movimento d'affetti si sia prodotto nel mio cuore; non so che cosa abbia veduto, o traveduto, o sognato; so che tutto ad un tratto mi parve che si squarciasse un velo davanti alla mia mente, sentii dentro di me una infinita sicurezza di ciò che fino allora avevo piuttosto desiderato che creduto, il mio cuore si dilatò in un sentimento di gioia suprema, d'una dolcezza angelica, d'una speranza immensa; un'onda di lagrime ardenti mi sgorgò impetuosamente dagli occhi, e afferrando la mano amica che cercava la mia, gridai dal più profondo dell'anima: — È vero! È vero! È vero! — e mi misi a piangere come un bambino.

Il Sant'Antonio di Padova mi fece riprovare la commozione di quella sera. Il santo è inginocchiato in mezzo alla sua cella: il bambino Gesù, circonfuso d'una luce bionda e vaporosa, attirato dalla forza della preghiera, scende fra le sue braccia; Sant'Antonio, rapito in estasi, si slancia con tutto il suo corpo e tutta la sua anima verso di lui, rovesciando indietro la sua testa raggiante in uno spasimo di voluttà sovrumana. Tale fu la scossa che mi diede questo quadro, che pochi minuti di contemplazione mi lasciarono stanco come se avessi percorso un grande Museo; e mi prese un tremito che mi durò per tutto il tempo ch'io rimasi in quella sala. Vidi in seguito gli altri grandi quadri del Murillo: una Concezione, un San Francesco che abbraccia Cristo, un'altra Visione di Sant'Antonio, ed altri che non son meno di venti, tra i quali la incantevole e famosa Vergine della Servietta, dipinta dal Murillo sur una servietta vera, nel Convento de' Cappuccini di Siviglia, per soddisfare un desiderio del laico che lo serviva: una delle sue più delicate creazioni, nella quale profuse tutta la magia dei suoi inimitabili colori; ma nessuno di questi quadri che pur sono oggetto di meraviglia a tutti gli artisti del mondo, staccò il mio pensiero e il mio cuore da quel divino Sant'Antonio.

V’hanno pure in quel Museo quadri dei due Herrera, del Pacheco, di Alfonso Cano, di Paolo di Cespedes, del Valdes, del Mulato, che fu servitore del Murillo e ne imitò abilmente la maniera; e infine il famoso gran quadro l'Apoteosi di San Tommaso d’Aquino di Francesco Zurbaran, uno dei più eminenti artisti del secolo decimosettimo, soprannominato il Caravaggio spagnuolo, forse superiore a questi nella verità e nel sentimento morale, naturalista possente, colorista vigoroso, inimitabile rappresentatore di frati austeri, di santi macerati, di eremiti pensosi, di sacerdoti terribili; e poeta insuperato della penitenza, della solitudine, della meditazione.

Dopo avermi fatto vedere il Museo di Pittura, il signor Gonzalo Segovia mi condusse per un andirivieni di stradine, nella strada Francos, che è una delle principali della città, e fermatosi dinanzi a una piccola bottega da mercante di panni, mi disse sorridendo:

"Guardi; non le fa pensare a nulla questa bottega?"

"In verità," risposi, "a nulla."

"Guardi il numero."

"È il numero quindici: e con questo?"

"Oh! cospetto," esclamò allora il mio amabile cicerone:

«Numero quindici,
A mano manca!»

"La bottega del Barbiere di Siviglia!" gridai.

"Appunto," egli mi rispose; "la bottega del barbiere di Siviglia; ma badi, se ne parlerà in Italia, non giuri, perchè le tradizioni sono spesso traditrici, e io non vorrei addossarmi la responsabilità d'una affermazione storica di tanta importanza."

In quel momento il mercante s'affacciò alla porta della bottega, e indovinando il perchè eravamo là, rise, e ci disse: — No está. — Figaro non c'è, e facendoci un grazioso saluto, si ritrasse.

Allora pregai il signor Gonzalo di farmi vedere un patio, uno di quegl'incantevoli patios, che, a guardarli dalla strada, mi facevan fantasticare tante delizie. "Voglio vederne almeno uno," gli dissi, "penetrare una volta in mezzo a quei misteri, toccar le pareti, assicurarmi che sono una cosa vera, e non una visione." — Il mio desiderio fu subito appagato. Entrammo nel patio d'un amico suo. Il signor Gonzalo disse al servitore lo scopo della visita, e rimanemmo soli. La casa non aveva che un piano. Il patio non era più spazioso d'una sala comune; ma tutto marmo e fiori, e uno schizzo d'acqua nel mezzo, e intorno quadri e statuette, e fra tetto e tetto una tenda che riparava dal sole. In un canto si vedeva un tavolino da lavoro, e qua e là seggiole e panchettine, sulle quali s'eran forse posati poco prima i piedi di qualche Andalusa che in quel momento ci osservava di fra le stecche d'una persiana. Io guardai minutamente ogni cosa, come avrei fatto in una casa abbandonata dalle fate; sedetti, chiusi gli occhi e immaginai d'essere il padrone; poi m'alzai, bagnai una mano allo zampillo della fontana, palpai una colonnetta, m'affacciai alla porta, presi un fiore, alzai gli occhi alle finestre, risi, misi un sospiro, e dissi: — "Quanto debbono esser felici coloro che vivon qui!" — In quel punto sentii ridere, mi voltai, e vidi lampeggiar dietro una persiana due neri occhietti, che sparirono subito. "In verità," dissi "non credevo che su questa terra si potesse ancora vivere tanto poeticamente! E pensar che voi vi godete queste case per tutta la vita! E che avete ancora voglia di stillarvi il cervello colla politica!" — Il signor Gonzalo mi spiegò i secreti della casa. — "Tutti questi mobili," mi disse "questi quadri, questi vasi di fiori, all'avvicinarsi dell'autunno scompaion di qui e risalgono al primo piano, che è l'abitazione dell'inverno e della primavera. All'avvicinarsi dell'estate, letti, armadii, tavole, seggiole, ogni cosa si riporta nelle stanze a pian terreno, e la famiglia dorme qui, e desina, riceve gli amici e lavora, in mezzo ai fiori e ai marmi, al mormorío della fontana. E poichè la notte si lascian le porte aperte, dalle stanze dove si dorme si vede il patio illuminato dalla luna, e si sente l'odor delle rose." — "Oh basta!" esclamai, "basta, signor Gonzalo, abbia pietà degli stranieri!" — E ridendo di cuore tutti e due, uscimmo per andar a vedere la famosa Casa de Pilatos.

Passando per una stradina solitaria, vidi nelle vetrine d'una chincaglieria un assortimento di coltelli così spropositatamente larghi e lunghi e stravaganti, che mi venne il desiderio di comprarne uno. Entrai, me ne fu schierata una ventina sotto gli occhi, ed io me li feci aprire uno per uno. Ad ogni scatto di lama indietreggiavo d'un passo. Non credo che si possa immaginare un'arma di aspetto più barbaro e più orrendo di questa. Da un manico di rame, o d'ottone, o di corno, un po' curvo, e lavorato a trafori che lascian vedere delle striscioline di talco di varii colori, balza fuori, producendo un rumore simile a quello d'una raganella, una lama larga come la palma della mano, lunga due palmi, acuta come un pugnale, della forma di un pesce, ornata d'intagli colorati di rosso che paion righe di sangue rappreso, e d'iscrizioni minacciose e feroci. Sur una è scritto in spagnuolo: — Non aprirmi senza ragione, non chiudermi senza onore; — sur un'altra: — Dove tocco è finita; — sur una terza: — Quando questa serpe morde, il medico non ci ha più che fare; — ed altre galanterie di questa natura. Il nome proprio di questi coltelli è navaja che vuol dire anche rasoio, e la navaja è l'arma da duello del popolo. Ora, è un po' caduta in disuso, ma una volta era in grande onore; v'erano i maestri, ciascuno aveva il suo colpo segreto, si facevan dei duelli secondo tutte le regole della cavalleria. Comprai la più spropositata navaja della bottega, e ripigliammo la nostra strada.


La Casa de Pilato, posseduta dalla famiglia di Medina-Coeli, è, dopo l'Alcazar, il più bel monumento d'architettura araba che esista a Siviglia. Il nome di Casa di Pilato le venne da che il suo fondatore, Don Enriquez de Ribera, primo marchese di Tarifa, la fece costrurre, secondo si narra, ad imitazione della casa del pretore Romano ch'egli aveva vista a Gerusalemme dove s'era recato in pellegrinaggio. L'aspetto esteriore dell'edifizio è modesto; l'interno è meraviglioso. Si entra dapprima in un cortile, non meno bello di quello incantevole dell'Alcazar, cinto d'un doppio ordine di archi sostenuti da leggiadre colonne di marmo, che forman due leggerissime gallerie, l'una sovrapposta all'altra, e delicate tanto alla vista da far temere che rovinino al primo soffio di vento. Nel mezzo è una graziosa fontana, sorretta da quattro delfini di marmo e coronata d'una testa di Giano. I muri sono ornati, in basso, di fulgidi musaici; più su, coperti di ogni maniera di capricciosi arabeschi; qua e là aperti in belle nicchie che contengon busti d'imperatori romani. Ai quattro angoli del cortile, sorgono quattro statue colossali. Le sale son degne del cortile: i soffitti, i muri, le porte sono scolpiti, ricamati, fioriti, istoriati con una delicatezza da miniatura. In una vecchia cappella di stile misto di gotico e d'arabo, di forma elegantissima, si conserva una piccola colonna alta poco più di tre piedi, donata da Pio V a un discendente del fondatore del palazzo, allora vicerè di Napoli; alla qual colonna, narra la tradizione che sia stato avvinto Gesù Cristo per essere flagellato; il che, se pur fosse vero, proverebbe che Pio V non aveva nemmeno un pelo che ci credesse, chè altrimenti non avrebbe commesso, così alla leggiera, l'inqualificabile sproposito di privarsene per fare un regalo al primo venuto. Tutto il palazzo è sparso di sacre memorie. Al primo piano, il custode vi accenna una finestra che corrisponde a quella presso cui era seduto san Pietro quando rinnegò Gesù, e il finestrino dal quale la fante lo riconobbe. Dalla strada si vede un'altra finestra con un terrazzino di pietra, che occupa precisamente il posto di quella dove Gesù fu mostrato al popolo colla corona di spine. Il giardino è pieno di frammenti di statue antiche portate dall'Italia da quello stesso Don Pedro Afan de Ribera, vicerè di Napoli. Fra le altre fiabe che si raccontano intorno a quel misterioso giardino, si dice che Don Pedro Afan de Ribera vi aveva posto l'urna, recata dall'Italia, che conteneva le ceneri dell'Imperatore Traiano, e che un curioso senza garbo, avendola rovesciata con un urto, le ceneri dell'Imperatore s'erano sparse fra l'erba, e nessuno era più riuscito a raccoglierle. Così l'augusto monarca, nato a Italica, per uno stranissimo caso era tornato vicino alla sua città nativa, non assai bene in arnese, a dir vero, per poter recarsi a meditare sulle sue rovine; ma pur vicino in ogni modo.

Dopo quello che ho accennato, si può dire, non d'aver visto, ma d'aver cominciato a vedere Siviglia. Io però mi arresto qui, perchè tutto deve aver una fine. Lascio da un lato i passeggi, le piazze, le porte, le biblioteche, i palazzi pubblici, le case dei grandi, i giardini, le chiese; ristringendomi a dire che, dopo aver girato per parecchi giorni dal levar del sole al tramonto, dovetti partire da Siviglia col peso di molti rimorsi sulla coscienza. Non sapevo più dove battere il capo. Ero giunto a tal segno di stanchezza che l'annunzio d'una nuova cosa da vedere mi faceva più spavento che piacere. Il buon signor Gonzalo mi ispirava coraggio, mi confortava, mi accorciava il cammino colla sua piacevolissima compagnia; ma tant'è, di quello che vidi gli ultimi giorni non serbo che una memoria molto confusa.

Siviglia, benchè non meriti più il titolo glorioso di Atene spagnuola, come ai tempi di Carlo V e di Filippo II, quando madre ed ospite d'una folta ed eletta schiera di poeti e di pittori, era la sede della civiltà e delle arti del vasto impero dei suoi monarchi; è pur sempre fra le città di Spagna, eccettuata Madrid, quella in cui la vita artistica si mantiene più rigogliosa, e per la copia degli ingegni, e per l'opera dei mecenati, e per la natura del popolo amantissimo delle belle arti. V'è una fiorente Accademia letteraria, una Società protettrice delle arti, un'Università di bella fama, e una famiglia di dotti e di scultori, che godono d'una onorevole reputazione in Ispagna. Ma la prima gloria letteraria di Siviglia è una signora, Caterina Bohl, autrice delle novelle che portano il nome di Fernan Caballero, diffusissime in Spagna, e in America, tradotte in quasi tutte le lingue d'Europa, e note anche in Italia, dove alcune vennero non è molto pubblicate, a ogni persona che s'occupi nulla nulla di letteratura straniera. Son quadri ammirabili di costumi andalusi, pieni di verità, d'affetto, di grazia, e sopra tutto d'un così possente vigore di fede, d'un entusiasmo religioso così intrepido, d'una carità cristiana così ardente, che il più scettico uomo del mondo ne sarebbe scosso e turbato. Caterina Bohl è una donna che affronterebbe il martirio con la fermezza e la serenità di sant'Ignazio. E la coscienza della sua forza si rivela ad ogni sua pagina: non si ristringe a difendere la religione e a predicarla, assale, minaccia, fulmina i nemici; e non solo i nemici della religione, ma ogni uomo ed ogni cosa che accolga, per dirla con una frase fatta, lo spirito del secolo, poich'ella non perdona a nulla di quanto s'è fatto al mondo dai tempi dell'Inquisizione in poi, ed è più inesorabile del Sillabo. Ed è questo forse il suo più gran difetto di scrittrice, perchè i suoi predicozzi religiosi, e le sue invettive sono soverchio fitte, e quando non rivoltano, ristuccano, e nuocciono, più che non giovino alle sue stesse mire. Ma non c'è ombra di fiele nell'anima sua, e quale è nei libri, tale nella vita: gentile, buona, caritatevole; in Siviglia è venerata come una santa. Nacque nella città, si maritò giovanissima, ed ora è vedova per la terza volta. Il suo ultimo marito, che fu ambasciatore di Spagna a Londra, si uccise, ed ella da quel giorno non ha più deposto il lutto. Ha ora poco meno di settant'anni, fu bellissima, ed il suo aspetto nobile e sereno serba l'impronta della bellezza. Suo padre, ch'era uomo fornito di acuto ingegno e di vasta cultura, le fece apprendere in tenera età varie lingue: conosce profondamente il latino, e parla con facilità mirabile l'italiano, il tedesco, il francese. Oramai, benchè giornali ed editori d'Europa e d'America la stimolino con larghissime offerte a scrivere, non scrive più; ma non vive per questo inoperosa. Legge dalla mattina alla sera ogni sorta di libri, e leggendo o fa la calza o ricama, poichè ha fermissimamente deciso che i suoi studi di letteratura non debbano togliere neanche un minuto alle sue faccende da donna. Non ha figliuoli, vive in una casa solitaria, della quale ha ceduto il miglior quartiere a una famiglia povera, e spende una buona parte dell'aver suo in elemosine. Un tratto curioso del suo carattere è l'affetto vivissimo che porta alle bestie: ha la casa piena d'uccelli, di gatti e di cani; e la sua sensitività, a questo riguardo, è così delicata, ch'ella non ha mai voluto metter piede in una carrozza, dal timore di veder dare una frustata al cavallo per cagion sua. Tutti i dolori l'affliggono come suoi proprii dolori: la vista d'un cieco, d'un malato, d'una sventura quale essa sia, la turba per una giornata intera; non può chiuder gli occhi al sonno, se non ha prima asciugato una lacrima; darebbe lietamente tutta la sua gloria per risparmiare una trafittura di cuore ad uno sconosciuto. Prima della rivoluzione viveva meno solitaria: la famiglia Montpensier la riceveva con grandi onoranze, le più illustri famiglie di Siviglia facevano a gara per averla in casa; ora non vive che coi suoi libri e con poche amiche.

Ai tempi degli Arabi, Cordova aveva il primato nella letteratura, Siviglia nella musica; Averroes diceva: — Quando a Siviglia muore un dotto e si voglion vendere i suoi libri, si mandano a Cordova; ma se a Cordova muore un musico, i suoi strumenti si mandano a vendere a Siviglia. — Ora Cordova ha perduto anche il primato letterario, e Siviglia li ha tutti e due. Non son più i tempi, certo, in cui un poeta, cantando le bellezze d'una fanciulla, faceva accorrere intorno a lei, da tutte le parti del regno, una folla d'innamorati; e un principe invidiava un altro principe, solo perchè era stato fatto in sua lode un verso più bello di quanti ne fossero mai stati ispirati da lui; e un Califfo premiava l'autore d'un bell'inno con un regalo di cento cammelli, d'uno stuolo di schiavi e d'un vaso d'oro; e una ingegnosa strofa improvvisata a tempo scioglieva dalle catene uno schiavo o salvava la vita a un condannato a morte; e i musici passeggiavan per le strade di Siviglia con un corteggio da monarchi, e il favore dei poeti era cercato come quello dei re, e la lira era temuta come la spada. Ma il popolo sivigliano è pur sempre il popolo più poeta della Spagna. Il frizzo, la parola amorosa, l'espressione della gioia e dell'entusiasmo sgorgano dalle sue labbra con una spontaneità e una grazia che seduce. Il popolano di Siviglia improvvisa versi, parla che par che canti, gestisce che par che declami, ride e folleggia come i fanciulli. A Siviglia non s'invecchia. È una città in cui si sfuma la vita in un sorriso continuo, senz'altro pensiero che di godersi il bel cielo, le belle casine, i giardinetti voluttuosi. È la città più quieta di Spagna; è la sola, che dalla rivoluzione in poi, non sia stata agitata da alcuni di quei tristi commovimenti politici che sconvolsero le altre; la politica non passa la prima pelle; si bada a fare all'amore; tutte le altre cose si pigliano in ridere; todo lo toman de broma, dicono dei sivigliani gli altri spagnuoli; e in vero, con quell'aria profumata, con quelle stradine da città orientale, con quelle donnine piene di fuoco, confondersi! A Madrid si parla male di loro; si dice che son vani, falsi, mutevoli, pettegoli. È gelosia! Invidiano la loro indole felice, la simpatia che ispirano agli stranieri, le loro ragazze, i loro poeti, i loro pittori, i loro oratori, la loro Giralda, il loro Alcazar, il loro Guadalquivir, la loro vita, la loro storia! Così dicono i sivigliani battendosi una mano sul petto e cacciando in aria un nuvolo di fumo dal loro inseparabile cigarrito; e le loro belle donnine si vendicano delle madrilene e di tutte le donne del mondo, parlando con maligna pietà dei lunghi piedi, delle larghe vite e degli occhi morti che in Andalusia non riceverebbero l'onore d'uno sguardo e l'omaggio d'un sospiro. Bello ed amabile popolo in verità, al quale, ahimè! bisogna pur vedere il rovescio della medaglia, soverchia la superstizione e mancan le scuole, come a quasi tutta la Spagna meridionale, in parte non per sua colpa, ma in parte sì; e questa, forse, non è la parte minore.

Il giorno fissato per la partenza mi arrivò addosso inaspettato. È strano: io non ricordo quasi nulla dei particolari della mia vita a Siviglia; è un gran che se so dire a me stesso dove desinai, di che cosa parlai col Console, come passai le serate, perchè stabilii di partire quel dato giorno; ero assente da me stesso; vivevo, se posso così esprimermi, fuori di me; fui per tutto il tempo che rimasi in quella città, un po' intontito. Fuor che nel Museo e nel patio, il mio amico Segovia deve aver trovato che sapevo di poco; e ora, non so perchè, penso a quei giorni come a un sogno. Di nessun'altra città m'è rimasta una ricordanza così vaga come di Siviglia. Oggi ancora, mentre son ben sicuro di essere stato a Saragozza, a Madrid, a Toledo, qualche volta, pensando a Siviglia, mi piglia un dubbio. Mi pare che sia una città molto più lontana degli ultimi confini della Spagna, che per tornarci dovrei viaggiare mesi e mesi, e attraversare terre sconosciute e grandi mari e popoli in tutto diversi da noi. Penso alle strade di Siviglia, a certe piazzette, a certe case, come penserei alle macchie della luna. A volte, l'immagine di quella città mi passa dinanzi agli occhi, come una forma bianca, e dispare, quasi senza che io possa afferrarla colla mente; la vedo odorando un arancio cogli occhi chiusi; fiutando l'aria, in certe ore della giornata, sulla porta d'un giardino; canterellando una canzoncina che sentii cantare da un ragazzo su per le scale della Giralda. Non so spiegare a me stesso questo secreto; ci penso, come a una città che avessi ancora da vedere, e godo nel guardare stampe e nello sfogliar libri comprati là, perchè son cose che attestano a me stesso che ci sono stato. Un mese fa ricevetti una lettera del Segovia che mi diceva: — Ritornate fra noi; — e n'ebbi un piacere matto, e nello stesso tempo risi come se m'avessero detto: — Fate una corsa a Pekino. — E appunto per questo Siviglia mi è cara su tutte le altre città della Spagna; l'amo come una bella donna sconosciuta, che attraversando un bosco misterioso, m'avesse gettato uno sguardo ed un fiore. Quante volte, quando un amico mi scuote dicendomi: — A che pensi? — o nella platea d'un teatro o nella sala d'un caffè, io, per tornare a lui, debbo uscire dallo stanzino di Maria Padilla, o da una barca che scivola all'ombra dei platani della Cristina, o dalla bottega di Figaro, o dal vestibolo di un patio pieno di fiori, di zampilli e di lumi!

M'imbarcai sur un bastimento della Compagnia Segovia, presso la Torre dell'Oro, in un'ora che Siviglia era tutta immersa in un profondo sonno, e un sole ardentissimo la copriva d'un mare di luce. Mi ricordo che pochi momenti prima della partenza, un giovinetto venne a bordo a cercarmi, e mi rimise una lettera di Gonzalo Segovia, la quale racchiudeva un sonetto che serbo tuttora, come uno dei più preziosi ricordi di Siviglia. Sul bastimento era una compagnia di cantanti spagnuoli, una famiglia inglese, degli operai, dei bambini. Il capitano, da buon andaluso, aveva una parola cortese per tutti. Appiccai subito discorso con lui. Il mio amico Gonzalo è figliuolo del proprietario del bastimento; parlammo della famiglia Segovia, di Siviglia, del mare, di mille cose allegre. Ah! il pover uomo era ben lontano dal pensare che, pochi giorni dopo, quel malaugurato bastimento si sarebbe sfasciato in mezzo al mare, ed egli avrebbe fatto così un'orrenda fine! Era il Guadaira del quale scoppiò la caldaia a breve distanza da Marsiglia, il giorno 16 giugno del 1872.

A tre ore il bastimento partì alla volta di Cadice.


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