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VIII.
Arrivato a Castillejo dovetti aspettare fino a mezzanotte il treno dell'Andalusia; desinai a uova sode e ad aranci, con un po' d'innaffio di Val de Peñas, brontolai una poesia dell'Espronceda, chiaccherai un po' con un doganiere (il quale, tra parentesi, mi fece la sua professione di fede politica: Amedeo, libertà, accrescimento di paga ai doganieri, ec.); finchè s'udì il sospirato fischio, ed entrai in un carrozzone pieno stipato di donne, di ragazzi, di guardie civili, di scatole, di cuscini, d'involti; e via, con una rapidità insolita sulle strade ferrate di Spagna. La notte era bellissima; i miei compagni di viaggio parlavano di tori e di Carlisti; una bella ragazza, che più d'uno divorava cogli occhi, fingeva di dormire, per scaldare le fantasie con un saggio dei suoi atteggiamenti notturni; chi faceva cigarritos, chi sbucciava aranci, chi canterellava ariette di Zarzuela. Nullameno, dopo pochi minuti, m'addormentai. Credo che avevo già sognato la Moschea di Cordova e l’Alcazar di Siviglia, quando fui svegliato da un rauco grido:
— Puñales?
— Pugnali? Caspita! Per chi? Prima ch’io vedessi chi avea gridato, mi balenò davanti agli occhi una lama lunga ed acuta, e lo sconosciuto ridomandò:
— Le gusta?
Bisogna convenire che vi sono dei modi assai più piacevoli di essere svegliati. Io guardai in viso i miei compagni di viaggio con un’espressione di stupore che li fece prorompere tutti insieme in uno scoppio di risa. Allora mi fu detto che ad ogni stazione della strada ferrata c’eran dei venditori di coltelli e di pugnali, che offrivano ai viaggiatori la loro merce come da noi si offrono i giornali e i rinfreschi. Rassicurato della vita, comprai il mio spauracchio: cinque lire, un bel pugnale da tiranno di tragedia, con manico fregiato, iscrizione sulla lama e fodero di velluto ricamato; e lo misi in tasca, pensando che mi avrebbe fatto comodo in Italia per sciogliere questioni cogli Editori. Il venditore n’avrà avuti una cinquantina in una gran fascia rossa che gli stringeva la vita. Altri viaggiatori ne comprarono; le guardie civili complimentarono uno dei miei vicini per la buona scelta fatta; i ragazzi gridarono: — Uno anche a me! — le mamme risposero: — Ve ne compreremo uno più lungo un’altra volta. — Oh beata la Spagna! io esclamai, e pensai con raccapriccio alle nostre barbare leggi che ci vietano l’innocente trastullo d’un po’ di lama affilata.
Attraversammo la Mancia, la celebrata Mancia, teatro immortale delle avventure di Don Chisciotte. È tal quale io me l'immaginava: ampie pianure nude, lunghi tratti di terreno sabbioso, qualche mulino a vento, pochi villaggi meschini, viottole solitarie, casuccie abbandonate. Vedendo quei luoghi, provai quel vago senso di malinconia che desta sempre in me la lettura del libro del Cervantes, e ridissi a me stesso quello che, leggendo, mi dico sempre: Costui non può far ridere, o sotto il sorriso fa spuntare la lacrima. Don Chisciotte è una figura mesta e solenne; la sua pazzia è un lamento; la sua vita è la storia dei sogni, delle illusioni, dei disinganni, delle aberrazioni di tutti; la lotta della ragione coll'immaginazione, del vero col falso, dell'ideale col reale; tutti noi abbiamo del Don Chisciotte, tutti noi prendiamo dei mulini a vento per giganti, tutti noi siamo a volta a volta spinti in su da un impeto d'entusiasmo, e ricacciati giù da una risata di scherno; tutti siamo un misto di sublime e di follia; tutti sentiamo con amarezza profonda il contrasto perpetuo tra la grandezza delle nostre aspirazioni e la debolezza delle nostre facoltà. Bei sogni della fanciullezza e dell'adolescenza, propositi generosi di consacrar la vita alla difesa della virtù e della giustizia, care immaginazioni di affrontati pericoli, di lotte venturose, di gesta magnanime e di eccelsi amori, ad una ad una cadute, come foglie di fiori, sull'angusto e uniforme sentiero della vita, come ce le ravvivi nell'anima, e quanti vaghi pensieri e profondi insegnamenti ne derivi, o generoso e sventurato cavaliere dalla triste figura!
Si toccò Argasamilla di Alba, dove Don Chisciotte nacque e morì, e dove il povero Cervantes, esattore del gran priorato di San Giovanni, in nome del magistrato speciale di Consuegra, fu arrestato dagli irascibili debitori, e tenuto prigione in una casa che, a quanto si dice, esiste tuttora, e nella quale è fama egli concepisse il disegno del suo romanzo. Passammo accanto al villaggio di Val de Peñas, che dà il nome a uno dei più squisiti vini di Spagna, nero, frizzantino, esilarante, il solo, forse, che permetta allo straniero del Norte le copiose libazioni dei suoi banchetti; e giungemmo infine a Santa Cruz de Tudela, villaggio famoso per le sue fabbriche di navajas, (coltelli, rasoi) presso il quale la via comincia a sollevarsi dolcemente verso la montagna.
S'era levato il sole, eran discese donne e bambini dalla carrozza, eran saliti contadini, ufficiali e toreros, che andavano a Siviglia. Si vedeva, in quel ristretto spazio, una varietà di vestimenti che non si vede da noi in un mercato: cappelli a punta di contadini della Sierra Morena, calzoni rossi di soldati, grandi sombreros di picadores, scialli di gitane, mantas di catalani, lame di Toledo appese alle pareti, cappe, ciarpe, fronzoli di tutti i colori d'Arlecchino.
Il treno s'innoltrò tra le roccie della Sierra Morena, che separa la Valle della Guadiana da quella del Guadalquivir, famosa per canti di poeti e gesta di briganti. La strada corre tratto tratto fra due pareti di sasso tagliate a picco, alte tanto, che per vederne la sommità convien mettere tutta la testa fuor del finestrino, e torcere il viso in su, come per guardare il tetto del carrozzone. Altrove le roccie son più distanti, e sorgono le une sulle altre, le prime in forma di macigni enormi franati, le ultime ritte, sottili, simili a torri ardite, innalzate su smisurati bastioni; in mezzo, un ammonticchiamento di massi, tagliati a denti, a scalini, a creste, a gobbe, dove quasi sospesi in aria, dove separati da caverne profonde e da precipizi spaventevoli, che presentano una confusione di forme capricciose, di abbozzi fantastici d'edifizi, di figure gigantesche, di rovine, e offrono a ogni passo mille profili ed aspetti inattesi; e su quella infinita varietà di forme un'infinita varietà di colori, di ombre, di guizzi, di sbattimenti di luce. Per lungo tratto, a destra, a sinistra, in alto, non si vede che pietra, senza una casa, senza un sentiero, senza un palmo di terra dove si possa posare il piede d'un uomo; e man mano che si va oltre, roccie, burroni, precipizii, ogni cosa s'allarga, s'approfonda, s'innalza, fino al punto culminante della Sierra, dove la sovrana maestà dello spettacolo strappa un grido di meraviglia.
Là il treno si arrestò per qualche minuto, e tutti i viaggiatori misero la testa fuor del finestrino.
"Aquí," disse un tale ad alta voce, "iba saltando de risco en risco el Roto de la mala figura para cumplir su penitencia."
(Cardenio, uno dei più notevoli personaggi del Don Chisciotte, che saltava in camicia, su per le roccie della Sierra, per far penitenza dei suoi peccati).
"Yo," continuò il viaggiatore, "quisiera que obligáran à hacer lo mismo à Sagasta."
Tutti risero, e cominciarono a cercare, ciascuno per conto suo, un uomo politico inviso, al quale infliggere, coll'immaginazione, quel castigo; e chi propose il Serrano, e chi il Topete, e chi altri; di modo che, in pochi minuti, se i desiderii fossero stati soddisfatti, si sarebbe visto tutta la Sierra popolata di ministri, di generali e di deputati in camicia, ruzzolanti di bricca in bricca, come il masso famoso di Alessandro Manzoni.
Il treno ripartì, le roccie sparirono, e la deliziosa valle del Guadalquivir, il giardino della Spagna, l'Eden degli Arabi, il paradiso dei pittori e dei poeti, la beata Andalusia si dischiuse ai miei occhi. Risento ancora il fremito di gioia fanciullesca col quale mi slanciai al finestrino, dicendo a me stesso: — Godiamo!
Per un lungo spazio la campagna non offre alcun nuovo aspetto all'ardente curiosità del viaggiatore. A Vilches si stende una vasta pianura, e al di là la rasa campagna di Tolosa, dove Alfonso VIII, re di Castiglia, riportò sull'esercito mussulmano la celebrata vittoria de las Navas. Il cielo era limpidissimo, si vedevano in lontananza i monti della Sierra di Segura. A un tratto, mi vien fatto uno di quei rapidi movimenti, che par che rispondano a un grido interno di stupore: i primi aloè, dalle ampie foglie carnose, inaspettati annunziatori della vegetazione del Tropico, sorgono ai lati della via. Al di là cominciano ad apparire i campi tempestati di fiori. I primi tempestati, quei che seguono quasi coperti, poi vaste distese di terreno vestite interamente di rosolacci, di margherite, di fioralisi, di pratoline, di primavere, di ranuncoli, in modo che la campagna si presenta come una successione d'immensi tappeti di porpora, d'oro, di neve; e lontano, in mezzo agli alberi, innumerevoli striscie azzurre, bianche, gialle, a perdita d'occhio; e vicino, sulle sponde dei fossi, sui rialzi, fin sulla scarpa, fin sulla proda della via, fiori a strati, a cespi, a ciuffi, gli uni sugli altri, aggruppati a guisa di grandi mazzi, tremolanti sugli alti steli, che quasi si toccano colla mano. Poi campi biondeggianti di grano dalle grossissime spighe, fiancheggiati da lunghi roseti; poi boschetti d'aranci, vasti oliveti, collinette variate di cento sfumature di verde, sormontate d'antiche torri moresche, sparse di casine variopinte, e tra l'una e l'altra, ponti bianchi e snelli che accavalciano rigagnoli nascosti dagli alberi. All'orizzonte appaiono le cime nevose della Sierra Nevada; sotto quella striscia bianca, altre strisce azzurre, ondulate, dei monti più vicini; la campagna di più in più variata e florida; Arjonilla, in mezzo a un bosco d'olivi, di cui non si scorgono i confini; Pedro Abad, in mezzo a una pianura coperta di vigneti e d'alberi fruttiferi; Ventas di Alcolea, su gli ultimi colli della Sierra Morena, popolati di ville e di giardini. Ci s'avvicina a Cordova, il treno vola, si vedono le piccole stazioni mezzo nascoste dagli alberi e dai fiori, il vento porta le foglie delle rose dentro alle carrozze, grandi farfalle trasvolano rasente le finestre, un profumo delizioso si spande nell'aria, i viaggiatori cantano, si trascorre per un giardino incantevole, spesseggiano gli aloé, gli aranci, le palme, le ville; s'ode un grido: — Ecco Cordova!
Quante belle immagini e grandi ricordi si destan nella mente al suono di questo nome!
Cordova, l'antica perla d'occidente, come la chiamano i poeti arabi, la città delle città, Cordova dai trenta borghi e dalle tremila moschee, che chiudeva tra le sue mura il più grande tempio dell'Islam! La sua fama si spandeva per l'Oriente, ed oscurava la gloria dell'antica Damasco. Dalle più remote regioni dell'Asia traevano i fedeli alle rive del Guadalquivir, per prostrarsi nel Mhirab meraviglioso della sua Moschea, al chiarore delle mille lampade di bronzo, fuse colle campane delle Cattedrali di Spagna. Accorrevano gli artisti, i dotti, i poeti, da ogni parte del mondo maomettano, alle sue fiorenti scuole, alle sue biblioteche immense, alle corti magnifiche dei suoi Califfi. Affluivano i ricchi e le belle, tratte dalla fama della sua splendidezza. E di qui si spandevano, avidi di sapere, lungo le coste dell'Affrica, per le scuole di Tunisi, di Cairo, di Bagdad, di Cufa, e fino all'India e alla China, a raccoglier libri, ispirazioni e memorie; e le poesie cantate alle falde della Sierra Morena, volavano, di cetra in cetra, fino alle vallate del Caucaso, ad eccitare l'ardore dei pellegrinaggi. La bella, la poderosa, la sapiente Cordova, coronata di tremila villaggi, ostentava alteramente i suoi bianchi minareti in mezzo ai boschetti d'aranci, e spandeva intorno per la valle divina un'aura voluttuosa di letizia e di gloria!
Scendo dal treno, attraverso un giardino, mi guardo intorno, son solo; i viaggiatori che scesero con me sparirono chi di qua chi di là; sento ancora il rumore d'una carrozza che s'allontana; poi tutto tace. È mezzogiorno, il cielo purissimo, l'aria accesa. Vedo due casine bianche: è l'imboccatura d'una strada, entro, vado oltre. La strada è stretta, le case piccine come le villette che s'innalzano sui poggi artificiali dei giardini, quasi tutte d'un sol piano, colle finestre a pochi palmi da terra, i tetti che quasi si toccan col bastone, i muri bianchissimi. La strada svolta, guardo, non vedo nessuno, non sento un passo, non una voce. Dico: sarà una strada abbandonata. Piglio un'altra strada: casette bianche, finestre chiuse, solitudine, silenzio. O dove sono? mi domando. Vado innanzi: la strada, stretta da non potervi passare una carrozza, serpeggia; a destra e a sinistra si vedono altre strade deserte, altre case bianche, altre finestre chiuse; il mio passo risuona come in un corridoio; il bianco dei muri è tanto vivo che persino il riflesso m'offende, e son costretto a camminare a occhi socchiusi; mi par di andare in mezzo alla neve. Giungo a una piazzetta: tutto chiuso e nessuno. Allora mi comincia a entrar nel cuore un senso di vaga malinconia, non mai provata pel passato; un misto di piacere e di tristezza, simile a quello che provano i fanciulli, quando, dopo una lunga corsa, giungono in un bel sito campestre, e se ne rallegrano, ma col tremito d'essersi troppo dilungati da casa. Al di sopra di molti tetti s'alzano le palme degl'interni giardini. Oh fantastiche leggende di Odalische e di Califfi! Oltre, di strada in strada, di piazza in piazza; comincio ad incontrare qualcuno, ma tutti passano e spariscono come fantasmi. Tutte le strade si somigliano, le case non hanno più di due o quattro finestre; e non una macchia, non uno sgorbio, non una screpolatura nei muri, che son lisci e bianchi come un foglio di carta. Tratto tratto sento un bisbiglio dietro una persiana, e vedo quasi nello stesso momento spuntare e sparire una testa bruna con un fiore tra le treccie. M'affaccio a una porta.....
Un patio! Come descrivere un patio? Non è un cortile, non è un giardino, non è una sala: è queste tre cose insieme. Tra il patio e la strada v'è un vestibolo. Ai quattro lati del patio s'alzano colonne sottili che sostengono all'altezza del primo piano una specie di galleria chiusa da ampie vetrate; sopra la galleria si stende una tela che ombreggia il cortile. Il vestibolo è lastricato di marmo, la porta fiancheggiata da colonne, sormontata da bassorilievi, chiusa da un sottile cancello di ferro di vaghissimo disegno. In fondo al patio, in dirittura della porta, sorge una statua; in mezzo, una fontana; intorno, seggiole, tavolini da lavoro, quadri, vasi di fiori. Corro a un'altra porta: un altro patio, colle pareti coperte dall'edera, e una corona di nicchie, con entro statuine, busti, urne. M'affaccio a una terza porta: un patio colle pareti lavorate di musaico, una palma nel mezzo, e intorno un mucchio di fiori. A una quarta porta: dopo il patio, un altro vestibolo, dopo questo un secondo patio, nel quale si vedono altre statue, altre colonne, altre fontane. E tutte queste sale e questi giardini son puliti e nitidi da poter passare la mano sui muri e per terra senza che ci resti la traccia; e freschi, odorosi, rischiarati da una luce incerta che ne accresce la bellezza e il mistero.
Avanti ancora, di strada in strada, alla ventura. Via via che cammino, mi s'accresce la curiosità, e affretto il passo. Mi pare impossibile che la città debba esser tutta così; temo d'imbattermi in una casa o di riuscire in una strada che mi richiami alla mente le altre città e rompa il mio bel sogno. Ma no, il sogno dura: tutto è piccino, gentile, misterioso. Ogni cento passi, una piazzetta deserta, nella quale mi arresto trattenendo il respiro; di tratto in tratto un crocicchio, e non un'anima viva; — e sempre bianco e tutto bianco, — e finestre chiuse, — e silenzio. Ed a ogni porta un nuovo spettacolo: archi, colonne, fiori, zampilli, palme; una meravigliosa varietà di disegni, di tinte, di luce, di profumi; qui di rose, là di aranci, più là di viole; e col profumo un soffio d'aria fresca, e coll'aria un suono sommesso di voci di donne, e stormir di foglie, e canto d'uccelli; un'armonia varia e soave, che senza turbare il silenzio della strada, molce l'orecchio come l'eco d'una musica lontana. Ah! non è un sogno! Madrid, l'Italia, l'Europa, sono certo a una grande distanza di qui! Qui si vive un'altra vita, qui spira l'aria d'un altro mondo, io sono in Oriente!
Mi ricordo che a un certo punto mi arrestai in mezzo alla strada e, non so come, mi accorsi improvvisamente ch'ero tristo e inquieto, e che nel mio cuore v'era un vuoto che la meraviglia e il piacere non bastavano a colmare. Io sentivo un bisogno irresistibile di penetrare in quelle case e in quei giardini, di squarciare, per dir così, il velo di mistero, che avvolgeva la vita della gente sconosciuta che vi era dentro; di partecipar di quella vita; di afferrare una mano, e di fissare i miei occhi in due occhi pietosi, e di dire: — Sono uno straniero, son solo, voglio esser felice anch'io, lasciatemi stare in mezzo ai vostri fiori, lasciatemi godere di tutti i segreti del vostro paradiso, ditemi chi siete, come vivete, sorridetemi, quetatemi, la mia testa brucia! — E questa tristezza giunse sino a tal segno, che dissi a me stesso: — Io non posso stare in questa città, io ci soffro, io parto!—
E sarei partito in fatti, se in buon punto non mi fossi ricordato che avevo in tasca una lettera di raccomandazione per due giovani di Cordova, fratelli d’un amico mio di Firenze. Smisi il proposito di partire e corsi subito a cercarli.
Quanto risero, quando io dissi loro l’impressione che Cordova mi faceva! Mi proposero d’andar subito a vedere la Cattedrale, infilammo una stradina bianca, e via.
La moschea di Cordova, che venne ridotta a Cattedrale dopo la cacciata degli Arabi; ma che è pur sempre moschea, fu costrutta sulle rovine della cattedrale primitiva, poco lontano dalla sponda del Guadalquivir. Abdurrahman ne cominciò la costruzione l’anno 785 o 786. — Inalziamo una moschea, — egli disse, — che vinca quella di Bagdad, quella di Damasco e quella di Gerusalemme; che sia il più grande tempio dell’Islam, che diventi la Mecca d’Occidente. — Si pose mano all’opera con grande ardore, gli schiavi cristiani portavano alle fondamenta le pietre delle chiese distrutte, Abdurrahman lavorava egli stesso un’ora ogni giorno, la moschea, nello spazio di non molti anni, fu fatta, i Califfi successori di Abdurrahman l’abbellirono, dopo un secolo di quasi continui lavori fu compiuta.
— Eccoci, — mi disse uno dei due ospiti, arrestandosi tutt’a un tratto davanti a un vasto edifizio.
Io credetti che fosse una fortezza. Era il muro che cinge la moschea, un vecchio muro merlato, nel quale s'aprivano una volta venti grandi porte di bronzo, contornate di bellissimi rabeschi, e di finestrine arcate, rette da sottili colonne: coperto ora da un triplice strato di calce. Un giro intorno a quel muro di cinta è una passeggiatina da farsi dopo desinare: si giudichi della vastità dell'edifizio.
La porta principale della cinta è a tramontana nel punto dove sorgeva il minareto di Abdurrahman, sulla cima del quale sventolava lo stendardo maomettano. Entrammo; io credevo di veder subito l'interno della Moschea, e mi trovai in un giardino pieno di aranci, di cipressi e di palme, cinto da tre lati da un porticato leggerissimo, e chiuso al quarto lato dalla facciata della moschea. Nel mezzo di questo giardino era al tempo degli Arabi la fonte per le abluzioni, e all'ombra di questi alberi si raccoglievano i fedeli prima d'entrare nel tempio. Stetti qualche momento guardando intorno, e aspirando l'aria fresca e odorosa con un senso vivissimo di piacere; e mi batteva il cuore al pensare che la famosa moschea era lì accanto, e mi sentivo ad un tempo spinto verso la porta da una immensa curiosità, e trattenuto da non so quale trepidazione fanciullesca. — Entriamo, — mi dicevano i compagni. — Ancora un momento, — rispondevo; lasciatemi assaporare bene la dolcezza dell'aspettazione. — Finalmente mi mossi, e senza neanco guardare la meravigliosa porta che i compagni m'accennarono, entrai.
Che cosa feci o dissi appena entrato, non so; ma certo qualche strana voce mi deve esser sfuggita o debbo aver fatto qualche gesto assai strano, perchè alcune persone che in quel punto venivano verso di me, si misero a ridere, e si voltarono di nuovo a guardare intorno, come per rendersi conto della profonda sensazione ch'io avevo manifestata.
Immaginate una foresta, e supponete di trovarvi nel più fitto, e di non veder altro che tronchi d'alberi. Così, nella moschea, da qualunque parte uno si volga, lo sguardo si perde tra le colonne. È una foresta di marmo della quale non si scorge la fine. Si seguono collo sguardo ad una ad una le lunghissime file delle colonne che s'incrociano ad ogni passo con altre innumerevoli file, e s'arriva a un fondo semi-oscuro, nel quale par di vedere biancheggiare ancora altre colonne. Son diciannove navate che s'allungano nella direzione dei passi di chi entra, attraversate da altre trentatre, sostenute, fra tutte, da più di novecento colonne di porfido, di diaspro, di breccia, di marmi d'ogni colore. Ogni colonna sorregge un pilastrino, e tra l'una e l'altra s'incurva un arco, e un secondo tra pilastrino e pilastrino, questo sovrapposto al primo, e tutti e due della forma d'un ferro di cavallo; in guisa che, immaginando essere le colonne tanti tronchi d'albero, gli archi rappresentano i rami, e la similitudine della moschea a una foresta è completa. La navata del mezzo, assai più larga che le altre, riesce innanzi alla Maksura, che è la parte più sacra del tempio, dove si adorava il Corano. Qui, dalle finestre del soffitto, scende un pallido raggio di luce che rischiara una fila di colonne; là v'è un tratto oscuro; più oltre scende un altro raggio che rischiara un'altra navata. È impossibile esprimere il sentimento di mistica meraviglia che vi si desta nell'animo a quello spettacolo. È come la rivelazione improvvisa d'una religione, d'una natura e d'una vita ignota, che vi rapisce la fantasia tra le delizie di quel paradiso pieno d'amore e di voluttà, dove i beati, seduti all'ombra dei platani frondosi e dei roseti senza spine, libano nei vasi di cristallo i vini scintillanti come perle, mesciuti da fanciulli immortali, e riposano nell'amplesso delle amabili vergini dai grandi occhi neri! Tutte le immagini dell'eterno piacere che il Corano promette ai fedeli, vi si presentano in folla alla mente, alla prima vista della moschea, vive, ardenti, scintillanti, e vi danno una momentanea ebbrezza dolcissima, che vi lascia nel cuore una non so qual molle malinconia! Un breve tumulto nella mente, e una rapida scintilla che percorre le vene, tale è la prima sensazione che si prova all'entrare nella cattedrale di Cordova.
Cominciammo a girare di navata in navata, osservando ogni cosa minutamente. Quanta varietà in quell'edifizio che sembra a primo aspetto uniforme! Le proporzioni delle colonne, i disegni dei capitelli, le forme degli archi cangiano, si può dire, ad ogni passo. Delle colonne, la maggior parte sono antiche, e furon tolte dagli Arabi alla Spagna del Norte, alla Gallia, all'Affrica romana; e qualcuna è fama appartenesse ad un tempio di Giano, sulle rovine del quale venne costrutta la chiesa che gli Arabi distrussero per costrurre la moschea. Sopra parecchi capitelli si scorgono ancora le traccie delle croci che v'erano scolpite, e che gli Arabi ruppero a colpi di scalpello. In qualche colonna sono confitti ferri ricurvi ai quali si dice che gli Arabi legassero i Cristiani; e se n'accenna uno, tra gli altri, cui la tradizione popolare narra esser stato legato un cristiano per lo spazio di molti anni; nel qual tempo, a furia di raschiare coll'unghie, riuscì a incavare nella pietra una croce che i ciceroni fanno vedere con profonda venerazione.
Giungemmo alla Maksura, che è l'opera più completa e più meravigliosa dell'arte degli Arabi nel decimo secolo. Sul dinnanzi, sono tre cappelle contigue, colla volta ad archi dentellati, e le pareti coperte di stupendi musaici, che rappresentan gruppi di fiori e sentenze del Corano. In fondo alla cappella di mezzo, è il mihrab principale, il luogo sacro dove stava lo spirito di Dio. È una nicchia di base ottagonale, chiusa di sopra da una colossale conchiglia di marmo. Nel mihrab era deposto il Corano, scritto dalla mano del califfo Othman, coperto d'oro, guernito di perle, inchiodato sovra una seggiola di legno d'aloe; e intorno ad esso venivano a fare sette giri ginocchioni le migliaia dei fedeli. Avvicinandomi al muro mi sentii mancar sotto il pavimento: il marmo è incavato!
Uscendo dalla nicchia, mi arrestai lungo tempo a contemplare la vòlta e le pareti della cappella principale, la sola parte della moschea che si conservò quasi intatta. È un luccichìo abbarbagliante di cristalli di mille colori, un intreccio di arabeschi che confonde la mente, una complicazione di bassorilievi, di dorature, di ornamenti, di minuzie di disegno e di colorito, d'una delicatezza, d'una grazia, d'una perfezione da far disperare il più paziente pittore. È impossibile ritener nulla nella mente di quel portentoso lavoro; voi potreste tornar cento volte a guardarlo, che non vi rimarrebbe dinanzi agli occhi, ripensandoci, altro che un formicolìo di puntini azzurri, rossi, verdi, dorati, luminosi, o un ricamo intricatissimo, cangiante continuamente e rapidissimamente di disegno e di colori. Solamente dalla focosa e instancabile immaginazione degli Arabi poteva uscire un siffatto miracolo d'arte.
Ricominciammo a girare per la moschea, osservando qua e là sui muri i rabeschi delle antiche porte che si scoprono via via sotto il detestabile intonaco cristiano. I miei compagni mi guardavano, ridevano e si mormoravan nell'orecchio non so che.
"Non se n'è ancora accorto?" mi domandò l'uno.
"Di che?"
Si riguardarono e sorrisero di nuovo.
"Crede lei d'aver visto tutta la moschea?" ripigliò il compagno.
"Io sì," risposi guardandomi intorno.
"Ebbene," disse il primo "lei non ha veduto tutto; e quello che le riman da vedere è nientemeno che una chiesa."
"Una chiesa!" esclamai stupefatto; "ma dov'è?"
"Guardi," rispose l'altro compagno, accennando, "è nel bel mezzo della moschea."
"Potenzinterra!" E io non l'avevo veduta!
Si giudichi da questo della vastità della moschea. Andammo a vedere la chiesa. È una bella e ricchissima chiesa, con un altar maggiore magnifico e un coro degno di star accanto a quelli delle cattedrali di Burgos e di Toledo; ma come tutte le cose messe fuor di posto, muove più la stizza che l'ammirazione. Senza codesta chiesa, l'aspetto della moschea sarebbe molto migliore. Lo stesso Carlo V, che diede al Capitolo il permesso di costruirla, quando vide la prima volta il tempio maomettano, se ne pentì. Accanto alla chiesa è una specie di cappella araba, mirabilmente conservata, ricca di musaici non meno variati e splendidi che quelli della Maksura; nella quale è fama si radunassero i ministri della religione per discutere il libro del profeta.
Tale è la moschea d'oggigiorno. Ma quale doveva essere al tempo degli Arabi! Non era chiusa intorno intorno da un muro; ma aperta, in modo che da ogni sua parte si vedeva il giardino, e dal giardino si vedeva fino in fondo alle lunghissime navate, e l'aria spandeva fin sotto le volte della Maksura la fragranza degli aranci e dei fiori. Le colonne, che ora son meno di mille, erano millequattrocento; il soffitto era di legno di cedro e di larice, scolpito e smaltato con finissimo lavoro; le pareti eran rivestite di marmo; la luce di ottocento lampade riempite d'olio odoroso, faceva scintillare come perle i cristalli dei musaici, e produceva sul pavimento, sugli archi, sui muri, un gioco meraviglioso di colori e di riflessi. Un mare di splendori, — cantò un poeta, — riempiva il misterioso recinto, e il tepido ambiente era pregno d'aromi e d'armonie, e il pensiero dei fedeli vagava e si smarriva nel labirinto delle colonne luccicanti come lancie percosse dal sole.
Federico Schack, autore d'una bell'opera intitolata: Poesia e arte degli Arabi in Spagna e in Sicilia, fece una descrizione della moschea in un giorno di festa solenne, che dà una immagine vivissima del culto maomettano e completa il quadro del monumento.
All'uno e all'altro lato dell'Almimbar, o pulpito, ondeggiano due stendardi, per significare che l'Islam ha trionfato del Giudaismo e del Cristianesimo, e che il Corano ha vinto l'antico e il nuovo Testamento. Gli almnedani salgono sulla galleria dell'alto minareto e intuonano il selam o il saluto al profeta. Allora le navate della moschea si riempiono di credenti, i quali, con bianchi vestiti e festoso aspetto, accorrono alla orazione. In pochi istanti, per tutta l'estensione dell'edifizio, non si vede più che gente inginocchiata. Per la via segreta che congiunge il tempio all'alcazar, giunge il Califfo e va a sedere al suo posto elevato. Un lettore del Corano legge una Sura sul leggìo della tribuna. La voce del muccin risuona nuovamente invitando alle preghiere del mezzogiorno. Tutti i fedeli si alzano e mormorano le loro preghiere, facendo reverenze. Un servitore della moschea apre le porte del pulpito e impugna una spada, colla quale, voltandosi verso la Mecca, ammonisce che si lodi Maometto, mentre già dalla tribuna lo celebrano cantando i mubaliges. Sale quindi il predicatore sul pulpito, togliendo di mano al servitore la spada, la quale ricorda e simboleggia la soggezione della Spagna al potere dell'Islam. È il giorno che si deve proclamare il Djihad o la guerra santa, la chiamata di tutti gli uomini atti ad andare alla guerra, perchè scendano in campo contro i Cristiani. La moltitudine ascolta con silenziosa devozione il discorso, intessuto di testi del Corano, il quale comincia così:
«Lodato sia Allà, che ha ingrandita la gloria del Islam, mercè la spada del campione della Fede, e che nel suo santo libro ha promesso al credente aiuto e vittoria.
Allà sparge i suoi benefizii sui mondi.
Se non spingesse gli uomini a slanciarsi armati contro gli uomini, la terra si perderebbe.
Allà ha ordinato di combattere contro i popoli fin che conoscano che non v'è che un Dio.
La fiamma della guerra non si estinguerà fino alla fine del mondo.
La benedizione divina cadrà sovra la criniera del cavallo guerriero fino al giorno del giudizio.
Armati da capo a piedi, o leggermente armati, alzatevi, partite!
Oh credenti! Che sarà di voi se, quando vi si chiama alla battaglia, rimanete col viso rivolto al suolo?
Preferite la vita di questo mondo alla vita futura?
Credetemi: le porte del paradiso stanno all'ombra delle spade.
Colui che muore nella battaglia per la causa di Dio, lava col sangue che sparge tutte le macchie dei suoi peccati.
Il suo corpo non sarà lavato come gli altri cadaveri perchè nel giorno del giudizio le sue ferite manderanno fragranza come il musco.
Quando i guerrieri si presenteranno alle porte del paradiso, una voce domanderà di dentro: — Che avete fatto nella vostra vita? —
Ed essi risponderanno: — Noi abbiamo brandito la spada nella lotta per la causa di Dio!
Allora le porte eterne si apriranno e i guerrieri entreranno quarant'anni prima degli altri.
Su, dunque, credenti; abbandonate donne, figli, fratelli, averi, e uscite alla guerra santa!
E tu, o Dio, signore del mondo presente e del mondo futuro, combatti per gli eserciti di coloro che riconoscono la tua unità! Atterra gli increduli, gl'idolatri, i nemici della tua santa fede! Rovescia i loro stendardi, e rimettili, con quanto posseggono, come bottino, ai mussulmani!»
Il predicatore, appena terminato il suo discorso, esclama, volgendosi alla Congregazione: — Chiedete a Dio! — e prega in silenzio. Tutti i fedeli, toccando il suolo colla fronte, seguono il suo esempio. I mubaliges cantano: — Amen! Amen, o Signore di tutti gli esseri! — Ardente come il calore che precede l'imminente tempesta, l'entusiasmo della moltitudine, rattenuto prima in un silenzio meraviglioso, prorompea allora in sordi mormorii, che alzandosi come le onde e traboccando per tutto il tempio, fanno finalmente risuonar le navate, le cappelle, le volte dell'eco di mille voci unite in un sol grido: — Non v'è altro Dio che Allà! — ......
La moschea di Cordova è oggi ancora, per consentimento universale, il più bel tempio mussulmano, e uno dei più ammirabili monumenti del mondo.
Quando uscimmo dalla moschea, era già trascorsa d'un buon tratto l'ora della siesta, che nelle città della Spagna meridionale fanno tutti, e ch'è una necessità il fare, a cagione dell'insopportabile calore dell'ore bruciate; e le strade cominciavano a popolarsi. Ohimè! — dicevo io ai miei compagni: — quanto sta male il cappello a staio per le strade di Cordova! Come avete cuore di appiccicare il figurino della moda su questo bel quadro orientale? Perchè non vi vestite da Arabi? — Passavano zerbinotti, operai, ragazzi: guardavo tutti con grande curiosità, sperando di trovare qualcuna di quelle fantastiche figure, che il Doré ci rappresentò come esempi del tipo anduluso: con quel bruno carico, con quelle grosse labbra, con quei grandi occhi. Non ne incontrai. Andando verso il centro della città, vidi le prime Andaluse, signore, signorine, donne del popolo, quasi tutte piccine, sottili, ben fatte, alcune belle, molte simpatiche, la maggior parte nè carne nè pesce, come in tutti i paesi. Nel vestire, all'infuori della così detta mantilla, nessuna differenza dalle donne francesi e nostre; gran volume di capelli finti, a treccie, a ciocche, a lunghi riccioli, e sottane succinte, a sgonfietti e increspature, e stivaletti col tacco a punta di pugnale. L'antico costume andaluso è scomparso dalle città.
Credevo che sul far della sera le strade sarebbero state affollate; ma non vidi che poca gente, e soltanto nelle strade dei quartieri principali; le altre rimasero deserte come nelle ore della siesta. E convien passare appunto per queste strade deserte, per goder Cordova la notte. Si vedono brillare i lumi nei patios; si vedono, negli angoli oscuri, le coppie amorose strette in intimo colloquio; la ragazza, per lo più, alla finestra, con una mano abbandonata mollemente fuori dell'inferriata, e il giovane accanto al muro, in atteggiamento poetico, e coll'occhio all'erta; non mai tanto però che gli riesca di staccar la bocca da quella mano, prima che se ne accorga chi passa; e si senton suoni di chitarra, mormorii di fontane, sospiri, risa di fanciulle, fruscii misteriosi...
L'indomani mattina, ancora tutto turbato dai sogni orientali della notte, ricominciai a girare per la città. Per descrivere tutto quello che v'è di notevole ci vorrebbe un volume; è un vero Museo d'antichità romane ed arabe; vi si trovano a profusione colonne militari, iscrizioni in onore degli imperatori, resti di statue e di bassorilievi; sei antiche porte; un gran ponte sul Guadalquivir, del tempo di Ottavio Augusto, ricostrutto dagli Arabi; rovine di torri e di mura, case che appartennero ai Califfi, e che serbano le colonne e gli archi sotterranei delle sale da bagno; e per tutto porte, vestiboli, scale, da far la delizia d'una legione d'archeologi.
Verso mezzogiorno, passando per una stradina solitaria, vidi scritto sul muro d'una casa, accanto a un'iscrizione romana: — Casa de huespedes. Almuerzos y comidas; — e leggendo, sentii lo stimolo, come dice il Giusti, di sì bassa fame, che deliberai di saziarla in quel qualunque bugigattolo al quale m'ero abbattuto. Infilai una porticina, mi trovai in un patio. Era un patio meschino, senza marmi e senza fontane, ma bianco come la neve e fresco come un giardino. Non vedendo nè tavole nè seggiole, temetti d'aver sbagliato porta, e mi mossi per uscire. Una vecchierella, sbucata non so di dove, mi arrestò.
"Si mangia?" domandai.
"Si señor" mi rispose.
"Che cosa c'è?"
"Uevos, chorizo, chuletas, pescado, naranjas, vino de Málaga."
"Muy bien: tráigame Usted todo lo que Usted tiene."
Cominciò a portarmi la tavola e la seggiola, ed io sedetti e aspettai. A un tratto sentii aprire una porta dietro di me, mi voltai.... Angeli del cielo, che vidi! La più bella di tutte le più belle Andaluse, non solo di quelle vedute a Cordova, ma di tutte quelle che vidi poi a Siviglia, a Cadice, a Granata; una ragazza, mi si lasci dir la parola, tremenda, da far fuggire, o commettere qualche diavoleria; uno di quei visi che facevan gridare: oh povero me! a Giuseppe Baretti, quando viaggiava in Spagna. Stette qualche momento immobile, cogli occhi fissi nei miei, come per dire: — ammirami; — poi si voltò verso la cucina e gridò: — Tia, despáchate! — (Zia, spicciati); il che offrì a me l'occasione di renderle muchas gracias colla lingua impacciata, e a lei il pretesto d'avvicinarsi rispondendo: — No hay de que — con una voce così soave, che mi sforzò ad offrirle una seggiola, sulla quale sedette. Era una ragazza sui vent'anni, alta, diritta come una palma, bruna, con due grand'occhi pieni di dolcezza, luccicanti ed umidi che pareva avessero versato allora allora una lagrima; e una nerissima capigliatura ondulata, con una rosa fra le treccie. Pareva una delle vergini arabe della tribù degli Usras, che facevano morir d'amore.
Cominciò la conversazione ella stessa.
"Usted es extranjero, me parece?"
"Sì."
"Frances?"
"Italiano."
"Italiano? Paisano del Rey?"
"Sì."
"Le conoce Usted?"
"Di vista."
"Dicenque es un buen mozo." (bel giovanotto).
Io non risposi, essa si mise a ridere; e mi domandò: — Que mira Usted? — e continuando a ridere, nascose il piede, che, sedendo, aveva messo bene innanzi, perchè lo vedessi. Oh! non v'è donna in quei paesi, che non sappia che i piedini andalusi sono famosi nel mondo.
Colsi l'occasione, tirai il discorso sulla fama delle donne d'Andalusia, e le espressi la mia ammirazione colle parole più calde del mio dizionario. Mi lasciò dire, guardando con molta attenzione dentro una fessura della tavola, poi rialzò il viso e mi domandò:
"Y en Italia, como son las mujeres?"
"Oh! belle, anche in Italia."
"Pero.... seran frias!" (fredde).
"Oh no, davvero!" m'affrettai a rispondere; "ma lei sa... in ogni paese le donne hanno un non so che di diverso da quelle di tutti gli altri paesi; e fra tutti i non so che, quello delle Andaluse, per un povero viaggiatore che non ha ancora i capelli bianchi, è forse il più pericoloso di tutti; e c'è una parola per dire quello che penso; se non se la ricordasse, glie la direi; le direi: Señorita, Usted es la Andalusa mas...." (più....)
"Salada!" (esclamò la ragazza coprendosi il viso colle mani).
"Salada!... la Andalusa mas salada de Córdoba."
Salada, salata: tale è la parola che si usa comunemente in Andalusia per dire una donna bella, vezzosa, carina, languida, ardente, e tutto quello che volete; una donna con due labbra che dicano: — Bebedme! — bevetemi; e due occhi che vi costringano a mordervi il labbro di sotto.
La zia mi portò le uova, le costolette, il chorizo, gli aranci, e la ragazza riprese la conversazione.
"Usted es italiano: ha visto Usted al Papa?"
"No, mi dispiace."
"Es posible? Un italiano que no viò al Papa! Y diga Usted: porqué le hacen tanto sufrir los italianos?" (perchè lo fanno tanto soffrire?)
"Soffrire, in che modo?"
"Ya! Dicen que le han cerrado en su casa y que le tiran pedradas en las ventanas!" (e che gli tiran sassate nelle finestre).
"Ma no! non lo creda! non c'è ombra di vero, ec."
"Viò Usted Venezia?"
"Oh! Venezia, sì."
"Es verdad que es una ciudad que sobrenada en la mar?" (una città che galleggia sul mare).
E qui mi fece mille istanze, perchè le descrivessi Venezia, e le dicessi com'era fatta la gente in quella strana città, e che fa tutto il giorno, e come va vestita. E mentre io discorrevo, oltre lo sforzo che avevo a fare per esprimermi con un po' di garbo, e per mandar giù le ova mal cotte e il chorizo stantìo, dovevo veder lei avvicinarsi man mano a me, forse senza accorgersene, per udir meglio; e avvicinarsi tanto da farmi sentir l'odore della rosa che aveva nei capelli, e il calore del suo respiro; dovevo, dico, far tre sforzi in una volta, l'uno colla testa, l'altro collo stomaco, e il terzo con tutto, e sentirmi anche dire di tanto in tanto: — Que bonito! — che significa: — Quanto è bello! — complimento che si riferiva al Canal Grande, e che mi faceva l'effetto che farebbe a uno spiantato, un sacchetto pieno di marenghi, fattogli sonar sotto il naso da un banchiere impertinente.
"Ah! señorita!" dissi in fine, cominciando a perdere la pazienza; "che vale che le città sian belle, alla fine dei conti? Chi ci è nato, non ci bada; e il viaggiatore... nemmeno. Io sono arrivato ieri a Cordova, è una bella città, non c'è dubbio; ebbene: lo vuol credere? ho già dimenticato tutto quello che ho visto, non ho più voglia di veder niente, non so neanco più in che città mi trovi. Palazzi! moschee! mi fan ridere! Quando vi avranno messo un fuoco nell'anima chi vi consumi, andrete a smorzarlo nella moschea! Si faccia un po' più in là, scusi. Quando vi sentirete una smania addosso che vi farebbe stritolar un piatto coi denti, andrete a contemplare i palazzi? Creda! è una triste vita quella del viaggiatore! È una penitenza delle più dure! È un supplizio! È un..." Un prudente colpo di ventaglio mi chiuse la bocca, che andava tropp'oltre e colle parole e coll'atto. Attaccai la costoletta.
"Pobrecito!" mormorò l'Andalusa ridendo, dopo aver dato un'occhiata intorno; "Son todos ardientes como Usted los italianos?"
"Che so io! Son tutte belle come lei le Andaluse?"
La ragazza stese la mano sulla tavola.
"Nasconda quella mano," le dissi.
"Porqué?" domandò essa.
"Perchè voglio mangiare in pace."
"Mangi con una mano sola."
"Ah!"
Mi parve di stringere la manina d'una bimba di sei anni; il coltello cadde in terra; un denso velo si stese sulla costoletta.
A un tratto mi sentii la mano vuota, apersi gli occhi, vidi la ragazza tutta turbata, mi voltai indietro: giusto cielo! c'era un bel pezzo di giovanotto, con la giacchettina attillata, coi calzoni stretti, col piccolo cappello di velluto, oh terrore! un torero! Diedi un guizzo, come se mi fossi sentito piantar nel collo due banderillas de fuego.
— Capisco a volo! — dissi tra me, come quel tale nella commedia Moglie e Buoi; e sfido a non capire! La ragazza, un po' imbarazzata, fece la presentazione: — "Un italiano de paso por Cordoba," e soggiunse in fretta: "che vorrebbe sapere a che ora parte il treno per Siviglia."
Il torero, che al primo vedermi, aveva corrugato la fronte, si rasserenò, mi disse l'ora della partenza, sedette, ed entrò amichevolmente in conversazione. Io gli domandai notizie dell'ultima corrida che s'era fatta a Cordova; era un banderillero, mi raccontò per filo e per segno le vicende della giornata. La ragazza, in quel frattempo, coglieva dei fiori nei vasi del patio. Terminai la mia colazione, offersi un bicchier di Malaga al torero, feci un brindisi al felice piantamento di tutte le sue banderillas avvenire, pagai lo scotto (tres pecetas, c'eran compresi i begli occhi, si capisce), e poi, fatto muso franco, anche per dissipare fin l'ombra d'un sospetto nell'anima del mio formidabile rivale, dissi alla ragazza: — "Señorita! A chi parte non si nega nulla; io, per lei, sono come un moribondo, non mi rivedrà mai più, non sentirà mai più pronunziare il mio nome: può dunque lasciarmi un ricordo: mi dia quel mazzolino di fiori."
"Eccolo," mi disse la ragazza; "l'avevo fatto per lei."
Diede un'occhiata al torero; il torero fece un atto di approvazione.
"Le doy gracias con toda la fuerza de mi corazon," risposi, e m'avviai per uscire. M'accompagnarono tutti e due verso la porta.
"Hay funciones de toros en Italia?" mi domandò il giovane.
"Oh Dio! no. Non le abbiamo ancora."
"Peccato! Cerchi di metterle in moda anche in Italia, e io andrò a banderillar a Roma."
"Farò tutto il possibile. Signorina, perch'io la possa salutare abbia la bontà di dirmi il suo nome."
"Consuelo."
"Quédese Usted con Dios, Consuelo!"
"Váyase Usted con Dios, señor italiano!"
E infilai la stradina solitaria.
Nei dintorni di Cordova non c'è notevoli monumenti arabi a vedere. Eppure tutta la valle era un tempo sparsa di stupendi edifizi. Lontano tre miglia dalla città, a settentrione, alle falde d'un monte, sorgeva Medina Az-Zahra, la città fiorente, una delle più meravigliose opere d'architettura del califfato di Abdurrahman III, iniziata dal Califfo stesso in omaggio a una sua favorita di nome Az-Zahra. Le fondamenta furon gettate l'anno novecentotrentasei, e diecimila operai vi lavorarono per venticinque anni. I poeti arabi celebrarono Medina Az-Zahra come la più splendida delle reggie umane, e il più delizioso giardino della terra. Non era un edifizio, ma un vastissimo congiunto di palazzi, di giardini, di cortili, di porticati, di torri. Ivi piante pellegrine della Siria, giuochi fantastici di fontane altissime, fiumicelli fiancheggiati dalle palme, e vasti bacini colmi di mercurio, che scintillavano ai raggi del sole come laghi di fuoco; porte d'ebano e d'avorio, tempestate di gemme; migliaia di colonne di preziosissimi marmi, grandi terrazze aeree, e fra la moltitudine innumerevole delle statue, dodici animali d'oro massiccio, luccicanti di perle, che schizzavan dalla bocca e dalle nari acque odorose. In questa immensa reggia formicolavano migliaia di servi, di schiavi, di donne, e accorrevano da ogni parte del mondo i musici e i poeti. E nondimeno, codesto Abdurrahman III, che visse fra tante delizie, che regnò per cinquant’anni, che fu potente, glorioso e fortunato in ogni vicenda e in ogni impresa, scrisse prima di morire che durante il suo lungo regno non era stato felice che quattordici giorni! E la sua favolosa città fiorente, settantaquattr’anni dopo che n’era stata posta la prima pietra, fu invasa, saccheggiata ed arsa da un’orda barbaresca, ed oggi non ne restan che poche pietre, che appena ne rammentano il nome. Di un’altra splendida città, di nome Zahira, che sorgeva ad oriente di Cordova, fatta costrurre dal poderoso Almansur, governatore del Regno, non restan neanco le rovine: una mano di ribelli la ridusse in cenere poco dopo la morte del suo fondatore.
«Tutto ritorna alla gran madre antica.»
Invece di fare una scarrozzata nei dintorni di Cordova, mi diedi a errare qua e là, almanaccando sui nomi delle strade, che per me è uno dei più saporiti piaceri che si possan provare in una città sconosciuta. Cordova, alma ingeniorum parens, avrebbe di che scrivere ad ogni angolo di strada il nome d’un artista o d’un dotto illustre nato fra le sue mura; e, sia detto ad onor suo, li ha tutti ricordati con materna gratitudine. Voi ci trovate la piazzetta di Seneca, e la casa, — se sarà quella, — nella quale nacque; la via di Lucano; la via di Ambrosio Morales, l'istoriografo di Carlo V, continuatore della Cronaca generale della Spagna cominciata da Florian di Ocampo; la via di Paolo Cespedes, pittore, architetto, scultore, archeologo, autore d'un poema didattico El arte de la pintura, sfortunatamente non finito, sparso di stupende bellezze. Ardente di entusiasmo per Michelangelo, del quale aveva ammirato le opere in Italia, gli sciolse nel suo poema un inno di lode che è uno dei più bei tratti della poesia spagnuola; e mio malgrado, m'escon dalla penna gli ultimi versi, che ogni italiano, anche non conoscendo la lingua sorella, può intendere e sentire. Non credere, egli dice al lettore, di poter scoprire la perfezione della pittura in altra cosa
«Que en aquella escelente obra espantosa |
Mormorando questi versi, riuscii nella via Juan de Mena, l'Ennio spagnuolo, come lo chiamano i suoi concittadini, autore d'un poema fantasmagorico, intitolato: Il labirinto, imitazione della Divina Commedia, di gran fama ai suoi tempi; e non privo, in vero, di qualche pagina di poesia ispirata e profonda; ma, nell'assieme, gonfio di pedantesco misticismo, e freddo. Giovanni II, re di Castiglia, andava pazzo di questo Labirinto, lo teneva accanto al messale nel suo gabinetto, lo portava seco alla caccia; ma, vedete capriccio di Re! il poema non aveva che trecento strofe, e a Giovanni II parevan poche, e sapete per qual ragione? Per la ragione che l'anno è di trecento sessantacinque giorni, e a lui pareva che quanti sono i giorni dell'anno tante dovessero essere le strofe del poema; e pregò il poeta di comporne altre sessantacinque, e il poeta lo obbedì; lietissimo, l'adulatore! di vedersi offerto un pretesto per adulare ancora; benchè l'avesse già tanto adulato, fino al segno di pregarlo che gli correggesse i suoi versi! Dalla via Juan de Mena, passai nella via Gongora, il Marini della Spagna, non meno grande d'ingegno, ma forse anche più corruttore della sua letteratura che non sia stato della nostra il Marini, poichè guastò, stroppiò, imbastardì in mille modi anche la lingua; onde Lopez de Vega argutamente fa chiedere da un poeta gongorista al suo ascoltatore: — Mi capisci? — e questi risponde: — Sì! — e il poeta di rimando: — Menti! perchè non mi capisco neanch'io. — Non però scevro affatto di gongorismo neanche il Lopez, cui bastò l'animo di scrivere che il Tasso non era che l'aurora del sol di Marini; nè scevro il Calderon, nè gli altri più grandi. Ma basti di poesia, per non uscire di carreggiata.
Dopo la siesta, andai a ricercare i miei due compagni, che mi condussero nei sobborghi della città, nei quali vidi per la prima volta donne e uomini di tipo veramente andaluso, quale io me lo raffigurava, con occhi e colori e atteggiamenti d'Arabi; e intesi pure per la prima volta il parlar proprio del popolo d'Andalusia, più molle e più cantato che nelle Castiglie, ed anche più gaio e più immaginoso, e accompagnato da un gesticolare più vivo. Domandai ai miei compagni se fosse vero quello che suol dirsi dell'Andalusia: che cioè colla pubertà precoce sian precoci i vizii, e voluttuosi i costumi, e gli amori sfrenati. Harto verdadero! risposero: troppo vero! e qui spiegazioni, descrizioni e racconti, che tengo nella penna. Ritornammo in città, mi condussero in uno stupendo Casino, con giardini e sale splendide, in una delle quali, la più vasta e la più ricca, ornata dei ritratti di tutti i Cordovesi illustri, sorge una specie di palco scenico, su cui salgono i poeti a leggere le loro poesie le sere solenni destinate a pubblico certame d'ingegno; e i vincitori ricevono una corona d'alloro dalle mani delle più belle e colte fanciulle della città, assise sur un semicerchio di seggiole inghirlandate di rose. La sera ebbi il piacere di conoscere parecchi giovani Cordovesi, ardentemiente afectos, come si dice in spagnuolo leccato, al cultivo de las Musas, franchi, cortesi, vivacissimi, con una farraggine di versi nella testa, e infarinati di letteratura italiana; cosicchè, figuratevi, dall'imbrunire a mezzanotte, per quelle misteriose stradine che m'avevan fatto girar la testa la sera prima, fu un continuo clamoroso scambiarsi di sonetti, d'inni e di ballate delle due lingue, dal Petrarca al Prati, dal Cervantes allo Zorilla; e una allegrissima conversazione chiusa e suggellata da molte cordiali strette di mano, e da calde promesse di scriversi, di mandarsi libri, di venire in Italia, di tornare in Spagna, ec. ec.; non altro che parole, come sempre, ma parole non meno care per questo.
L'indomani partii per Siviglia. Alla stazione vidi Frascuelo, Lagartijo, il Cuco, e tutta la compagnia dei toreros di Madrid, che mi salutarono con uno sguardo benevolo di protezione. Mi cacciai in un vagone polveroso, e quando il treno si mosse, e Cordova apparve ai miei occhi per l'ultima volta, la salutai coi versi del poeta arabo, un po' troppo sensuali, se si vuole, per il gusto d'un europeo; ma, in fin dei conti, adatti all'occasione:
«Addio, Cordova! Per vivere sempre fra le tue mura, vorrei far vita più lunga di Noè. Vorrei avere i tesori di Faraone per spenderli in vino e in belle Cordovesi, dagli occhi soavi, che invitano ai baci.»