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XII. Granata
XI XIII

XII.


Il viaggio da Malaga a Granata fu il più avventuroso e sfortunato ch'io abbia fatto in Spagna.

Perchè i lettori compassionevoli mi possano compiangere quanto vorrei, bisogna che sappiano (mi vergogno d'intrattener la gente con queste piccinerie) che a Malaga avevo fatto solamente una leggerissima colazione all'andalusa, della quale, al momento di partire, mi restava appena una confusa reminiscenza. Ma ero partito colla sicurezza di poter scendere a qualche stazione della strada ferrata, dove fosse una di quelle sale, o pubblici strozzatoi, nelle quali si entra galoppando, si mangia ansando e si paga scappando, per tornare nel carrozzone impinzati, soffocati e derubati, a maledire l'orario, i viaggi e il ministro dei lavori pubblici che tradisce il paese. Partii, e per le prime ore fu una delizia. La campagna era tutta colline gentili e campi verdissimi, sparsi di villette coronate di palme e di cipressi; e nel carrozzone, in mezzo a due vecchiotti che tenevan gli occhi chiusi, v'era un'andalusina che guardava intorno con un sorrisetto briccone che pareva voler dire: — Via, lanciatemi degli sguardi languidi. — Ma il treno andava colla lentezza d'una diligenza sconquassata, e non si soffermava che pochi momenti alle stazioni. Al declinare del sole, lo stomaco cominciò a suonare a soccorso, e a render più fieri gli stimoli della fame dovetti fare un lungo tratto di strada a piedi. Il treno si fermò dinanzi a un ponte malfermo, tutti i viaggiatori scesero e sfilarono a due a due per andar ad aspettar le carrozze sull'altra sponda del fiume. Eravamo in mezzo alle roccie della Sierra Nevada, in un luogo deserto e selvaggio, che ci faceva parere d'esser gente condotta in ostaggio da una banda di briganti. Rimontati che fummo nei carrozzoni, il treno riprese a andare colla fiaccona di prima, e il mio stomaco ricominciò a languire più miseramente che mai. Arrivammo, dopo lungo tempo, a una stazione tutta ingombra di treni, dove una gran parte dei viaggiatori si precipitarono a terra, prima che io mettessi il piede sul montatoio.

"Dove vuol andare?" mi domandò un impiegato della strada ferrata, vedendomi scendere.

"A desinare," risposi.

"Ma lei non va a Granata?"

"A Granata."

"Se è così, non ha tempo; il treno riparte subito."

"Ma gli altri sono discesi."

"Li vedrà tornare di corsa di qui a un momento."

I treni delle merci ch'eran dinanzi, m'impedivano di vedere la stazione; credetti che fosse lontana; non scesi. Passan due minuti, ne passan cinque, ne passan otto, e i viaggiatori non tornano, e il treno non si muove. Salto giù, corro alla stazione, vedo un caffè, entro in una gran sala.... Dei del cielo! Cinquanta affamati stavano intorno a una tavola da refettorio, col muso sul piatto, coi gomiti in aria, cogli occhi all'orologio, divorando e gridando; e un'altra cinquantina si pigiavano intorno al banco, afferrando e intascando pani, frutti, confetti, mentre il padrone e i camerieri, ansimanti come cavalli, stillanti di sudore, correvano, si sbracciavano, urlavano, inciampavan nelle seggiole, urtavano gli avventori, buttavan qua e là spruzzi di brodo e d'intingoli; e una povera donna, che doveva essere la padrona del caffè, prigioniera in una nicchietta dietro al banco assediato, si metteva le mani nei capelli in atto di disperazione. A quella vista, mi cascaron le braccia. Ma subito mi feci forza e mi slanciai al saccheggio. Respinto da una gomitata nel petto, mi slanciai daccapo; ributtato da una fiancata nel ventre, raccolsi tutto il mio vigore per tentare un terzo assalto. In quel punto suonò la campanella. Fu uno scoppio di imprecazioni, e poi un cader di seggiole, un acciottolìo di piatti, un serra serra, un tramenìo di casa del diavolo. Chi trangugiando in furia gli ultimi bocconi, diventava livido e cacciava gli occhi fuor del capo come un impiccato; chi allungando una mano per afferrare un arancio, sospinto da un che scappava, l’andava a tuffare in un piatto di crema; chi girava per la sala in cerca della valigia con un gran sberleffe di salsa sulle guancie; chi, per aver voluto ber d’un sol fiato andatogli il vino per traverso, tossiva da schiantarsi lo stomaco; e gl’impiegati di sulla porta gridavano: — Presto! — e i viaggiatori dalla sala rispondevano: — Ahógate! (affogati), — e i camerieri davan dietro a chi non aveva pagato, e chi voleva pagare non trovava i camerieri, e le signore facevan l’atto di svenire, e i ragazzi strillavano, e ogni cosa era sossopra.

Fu una fortuna ch’io potessi infilarmi nel mio carrozzone prima che il treno partisse.

Ma là m’aspettava un nuovo supplizio. I due vecchi e l’andalusina, che doveva essere figliuola dell’uno e nipote dell’altro, erano riusciti a fare un po’ di preda in mezzo a quella maledetta folla del banco; e mangiavano a due palmenti. Io mi misi a guardarli con occhio malinconico, contando i bocconi e le dentate, come fa il cane accanto alla tavola del padrone. L’andalusa se n’accorse, e mostrandomi un qualchecosa che pareva una polpetta, fece un atto grazioso col capo come per domandarmi se la volevo.

"Oh! grazie!" risposi con un sorriso da moribondo; "ho mangiato!"

Angelo mio, soggiunsi subito tra me e me, se tu sapessi che in questo momento preferirei le tue polpette alle acerbe poma, come direbbe nobilmente messer Niccolò Macchiavelli, colte nel famoso orto delle Esperidi!

"Assaggi almeno un sorsetto di liquore!" disse lo zio.

Non so per che fanciullesca picca contro di me, o contro quella buona gente; ma era una picca che in simili occasioni provano spesso anche gli uomini; risposi anche questa volta: — "No, grazie, mi farebbe male."

Il buon vecchio mi guardò da capo a piedi coll'aria di dire che non gli parevo un omino da patire una goccia di liquore, e l'andalusa sorrise, e io diventai rosso dalla vergogna.

Si fece notte, e il treno continuò a andare al passo della cavalcatura di Sancho Panza, non so per quante ore. Quella sera esperimentai per la prima volta in vita mia i tormenti della fame, che immaginavo d'aver provati già nella famosa giornata del ventiquattro giugno milleottocentosessantasei. Per alleviar quei tormenti, pensavo ostinatamente a tutti i mangiari che m'inspirano più ripugnanza, ai pomidoro crudi, alle lumache nel brodo, ai gamberi arrostiti, ai bianchetti in insalata. Ahimè! una voce di scherno mi gridava d'in fondo alle viscere che, se li avessi avuti, me ne sarei leccato le dita. Allora mi misi a far delle mescolanze immaginarie di piatti disparati, come sarebbe di creme e di pesci, spruzzati di vino, con una manata di pepe e uno strato di conserva di ginepro; per veder di tenere a segno lo stomaco. Oh infelice! Lo stomaco vigliacco non ripugnava neanco da quelle sozzure. Allora feci un ultimo sforzo, e immaginai di essere a tavola in un albergo di Parigi, al tempo dell'assedio e di sollevar pian piano per la coda un topino in salsa piccante, che riacquistando improvvisamente gli spiriti, mi addentasse il pollice, e mi fissasse in viso due occhietti inviperiti, ed io, colla forchetta alzata, fossi nel dubbio o di dargli l’andare o d’infilzarlo senza pietà. Ma, grazie a Dio, prima ch’io uscissi da questo bivio orribile, per consumare un atto che non avrebbe avuto riscontro nella storia degli assedii, il treno si fermò e un barlume di speranza mi ravvivò gli spiriti affaticati.

Eravamo arrivati non so a che villaggio. Mentre cacciavo la testa fuor del finestrino, una voce gridò: — Scenda chi va a Granata! — Mi precipitai giù dal carrozzone e mi trovai a faccia a faccia con un omaccione baffuto che mi tolse la valigia di mano, dicendomi che l’andava a mettere nella diligenza, perchè da quel villaggio fino a non so quante miglia dalla imperial Granada, non c’è strada ferrata.

"Un momento!" gridai allo sconosciuto con voce supplichevole: "Quanto tempo c’è per partire?"

"Due minuti!" rispose.

"C’è un’osteria?"

"È là."

Volai nell’osteria, trangugiai un uovo sodo, e scappai verso la diligenza gridando: "Quanto tempo c’è ancora?"

"Altri due minuti!" mi rispose la voce di prima.

Rivolai all’osteria, mandai giù un altr’uovo, e corsi di nuovo alla diligenza, ridomandando: "Si parte?"

"Fra un minuto!"

All'osteria daccapo, e un terz'ovo, e poi alla diligenza: "Si va?"

"Fra mezzo minuto!"

Questa volta tirai un moccolo da far rabbrividire, ricorsi all'osteria, inghiottii un quart'ovo e un bicchier di vino, e mi slanciai di corsa verso la diligenza. Ma fatti appena dieci passi, mi sentii mancare il respiro, e mi fermai coll'ovo a mezza gola. In quel punto schioccò la frusta. — Aspettate! — urlai con una voce rantolosa, agitando le mani come un uomo che affoghi.

"Que hay?" (che c'è?) domandò il vetturino.

Non potei rispondere.

"Se le ha quedado un huevo en la garganta!" (Le è rimasto un uovo nella gola) rispose per me uno sconosciuto.

Tutti i viaggiatori diedero in uno scoppio di risa, l'ovo andò giù, risi anch'io, raggiunsi la diligenza che partì subito, e ripreso ch'ebbi fiato, feci ai miei compagni di viaggio il racconto delle mie disgrazie, che li esilarò e gl'impietosì più che non avrei osato sperare dopo quella crudele risata sul mio strangolamento.

Ma le mie disgrazie non eran finite. Uno di quei sonni irresistibili, che mi saltavano addosso a tradimento nelle lunghe marcie notturne in mezzo ai soldati, mi prese tutt'a un tratto, e mi torturò fino alla stazione della strada ferrata, senza ch'io potessi dormire un momento. Credo che una palla da cannone appesa per uno spago in mezzo al cielo della diligenza, avrebbe dato meno noia ai miei disgraziati compagni di viaggio, di quello che ne diede la mia povera testa dondolando, come fece, da tutte le parti, che pareva non fosse più attaccata al collo che per un nervo. Avevo da una parte una monaca, dall'altra un ragazzo, davanti una contadina, e per tutto il tragitto non feci che picchiar capate su quelle tre vittime, col monotono va e vieni del battaglio d'una campana. La monaca, poveretta, si lasciava picchiare e taceva, forse in espiazione dei suoi peccati di pensiero; ma il ragazzo e la contadina brontolavano di tratto in tratto: — Es una barbaridad!Así no se puede estar!Tiene una cabeza de plomo! (una testa di piombo). — Finalmente uno scherzo d'uno dei viaggiatori ci liberò tutti e quattro da quel supplizio. La contadina essendosi lamentata un po' più forte del solito, una voce in fondo alla diligenza esclamò: — Si consoli! Se non le ha rotto la testa finora, può star sicura che non gliela rompe più, perchè vuol dire che l'ha a prova di martello. — Tutti risero, io mi svegliai chiedendo scusa, e le tre vittime furon così contente di vedersi libere da quello spietato picchiare, che invece di vendicarsi con qualche parola acerba, mi dissero: — Pobrecito! Ha descansado Usted muy mal! Se ha lastimado Usted la cabeza! (Poveretto! Ha riposato molto male! Deve essersi fatto male alla testa!)

Arrivammo finalmente alla strada ferrata, e, vedete, iniqua sorte! solo com'ero nel carrozzone che avrei potuto dormire come un sultano, non riuscii a chiuder occhio. Mi sentivo una spina nel cuore pensando che avevo fatto quel viaggio di notte, e che non avevo veduto nulla, e che non potevo godere dello spettacolo di Granata lontana! E mi sonavano in mente i dolci versi di Martinez della Rosa:

«Oh amata patria mia! Ti riveggo al fine! Riveggo il tuo bel suolo, i tuoi campi lieti e fecondi, il tuo splendido sole, il tuo quieto cielo!

«Oh sì! veggo la famosa Granata stendersi al piano dall’uno e dall’altro colle, le sue torri sollevarsi in mezzo ai giardini eternamente verdi, i suoi fiumi cristallini baciar le sue mura, i monti superbi circondar la sua valle, e la Serra Nevada coronare gli orizzonti lontani!

«Oh! la tua memoria mi seguiva in ogni parte, Granata! turbava i miei piaceri, la mia pace, la mia gloria, e mi opprimeva l’anima e il cuore! Sulle gelide rive della Senna e del Tamigi, io ricordava le amene sponde del Dauro e del Genil, e sospirava! e ben sovente, intonando una lieta canzone, il mio dolore s’inacerbiva, e il pianto mal represso soffocava la mia voce!

«Invano l’Arno delizioso mi offerse le sue rive smaltate di fiori, asilo degli amori e della pace. La pianura irrigata dal quieto Genil, — diceva, — è più fiorita! Il soggiorno della bella Granata è più caro! — E mormorava queste parole con accento sconsolato, e ricordando la casa dei miei padri, alzava gli occhi melanconici al cielo. «Qual’è la tua magia, il tuo ineffabile incanto, o patria, o dolce nome, che ci sei tanto caro! Il nero Affricano, lungi dal suo deserto nativo, guarda con doloroso sdegno i campi verdeggianti; il rozzo Lappone, rapito alla sua terra materna, sospira le notti perpetue e il perpetuo gelo; ed io, io cui la sorte benigna concesse di nascere e di crescere nel tuo beato grembo, benedetto di tanti doni da Dio, io, lontano da te, avrei potuto dimenticarti, Granata?»

Arrivai a Granata, era buio fitto, non vidi neanco il profilo d’una casa. Una diligenza, tirata da due cavalli

«....... anzi due cavallette
Di quelle di Mosè là dell'Egitto»

mi sbarcò in un albergo, dove dovetti aspettare un’ora che mi si facesse il letto, e finalmente, poco prima delle tre della mattina, potei metter la testa sul guanciale. Ma le mie disgrazie non eran finite. Quando cominciavo a pigliar sonno, sentii un mormorio indistinto nella stanza accanto, e poi una voce maschile che disse chiaramente: — Oh che piedino! — Chi ha viscere di umanità, giudichi. Il guanciale era un po’ scucito, tirai fuori due bioccoli di lana, me li cacciai nelle orecchie e riandando col pensiero le traversie del mio viaggio m’addormentai del sonno dei disperati.

La mattina per tempo uscii e passeggiai per le strade di Granata fin che fosse un’ora decente per andar a trar fuor di casa un giovane granatino che avevo conosciuto a Madrid, in casa di Fernandez Guerra, di nome Gongora, figliuolo d’un archeologo illustre, e discendente del famoso poeta cordovese Luigi Gongora; di cui dissi qualcosa di volo. La parte della città che vidi in quelle poche ore non rispose alla mia aspettativa. Credevo di trovar le stradine misteriose e le casine bianche come a Cordova e a Siviglia; trovai invece delle piazze spaziose, alcune belle strade diritte, e le altre tortuose ed anguste sì, ma fiancheggiate da case alte, dipinte in gran parte di falsi bassorilievi, con amorini e ghirlande e svolazzi di tende e di veli di mille colori; senza quell’aspetto orientale delle altre città andaluse. La parte più bassa di Granata è quasi tutta fabbricata colla regolarità d’una città moderna. Passando per quelle strade, mi pigliò il dispetto, e avrei certo portato al signor Gongora una faccia rannuvolata, se per caso, in quell’andar così alla ventura, non fossi riuscito nella famosa Alameda, che gode la fama di essere il più bel passeggio del mondo, e che mi compensò a mille doppi della odiosa regolarità delle strade che vi conducono.

S’immagini chi legge un lungo viale di sì straordinaria larghezza, che vi potrebbero passare cinquanta carrozze di fronte, fiancheggiato da altri viali minori, lungo i quali corrono file di alberi smisurati, che formano a una grande altezza una immensa vòlta di verzura fitta tanto da non lasciar penetrar un raggio di sole; e alle due estremità del viale di mezzo due fontane monumentali che gettan l’acqua a larghi sprazzi ricadenti in finissima pioggia vaporosa, e tra viali e viali, ruscelli cristallini, e in mezzo, un giardino tutto rose e mirti e gelsomini e schizzi d’acqua; e da un lato il fiume Genil che scorre in mezzo a due sponde coperte di boschi d’allori, e lontano i monti coperti di neve, sui quali le palme lontane disegnano le loro fantastiche chiome; e per tutto un verde vivo, chiuso, stracarico, che lascia vedere qua e là qualche striscia di cielo d’un color zaffiro che innamora.

Tornando dall’Alameda, incontrai un gran numero di contadini che uscivan dalla città a due a due, a drappelli, colle loro donne e i loro ragazzi, canterellando e celiando. Il loro vestire non mi parve diverso da quello dei contadini della campagna di Cordova e di Siviglia. Avevano il cappello di velluto, alcuni colla tesa larghissima, altri colla tesa alta e ricurva; una giacchettina fatta di liste di panno di vario colore, una fascia rossa o azzurra, calzoni stretti, abbottonati lungo la coscia, e un par di ghette di cuoio aperto da un lato in modo da lasciar vedere le gambe. Le donne son vestite come nelle altre provincie, e non v’è differenza notevole neanche nei visi.

Andai a casa del mio amico, e lo trovai sepolto nei suoi studi archeologici, davanti a un mucchio di vecchie medaglie e di pietre istoriate. Mi ricevette con una allegrezza e una cortesia carissimamente andalusa, e scambiati che ci fummo i primi saluti, pronunziammo tutti e due a una voce quella magica parola che in ogni parte del mondo desta in ogni anima un tumulto di grandi ricordi e un sentimento di desiderio segreto; che dà l’ultima spinta verso la Spagna a chi ha concepito il disegno del viaggio e non ancora preso la risoluzione della partenza; che fa battere il cuore dei poeti e dei pittori, e scintillar gli occhi delle donne: l’Alhambra!

Ci precipitammo fuor di casa.

L’Alhambra è posta sur un’alta collina che domina la città, ed offre da lontano l’aspetto d’una fortezza, come quasi tutti i palazzi orientali. Ma quando io m’avviai col Gongora su per la strada de los Gomeles per andar a visitare la reggia famosa, non ne avevo ancora visto le mura neanco da lontano, e non avrei saputo dire da che lato della città si trovasse. La strada de los Gomeles è in salita e descrive una leggiera curva, onde per un buon tratto non si vede dinanzi altro che case, e si può credere che l’Alhambra sia ancora lontana. Il Gongora non parlava; ma gli leggevo in viso che godeva nel più vivo dell’anima pensando alla meraviglia e al diletto che avrei provato io. Guardava in terra sorridendo; rispondeva a tutte le mie domande con un cenno che voleva dire: — a momenti; — e di tratto in tratto alzava gli occhi quasi furtivamente per misurare la strada che ci rimaneva a percorrere. Ed io godevo tanto di quel suo piacere che gli avrei gettato le braccia al collo per ringraziarlo.

Arrivammo dinanzi a una gran porta che chiude la strada; il Gongora mi disse: — Ci siamo, — io entrai.

Mi trovai in un gran bosco di alberi d’un’altezza smisurata, inclinati gli uni verso gli altri di qua e di là d’un grande viale che ascende su per la collina e si perde nell’ombra; e fitti tanto che appena vi potrebbe passare un uomo frammezzo, e dovunque si guardi, non si vedon che tronchi che par che chiudan la via come una parete continua. Gli alberi incrociano i rami al di sopra del viale; nel bosco non penetra un raggio di sole; l’ombra è oscurissima; e da ogni parte mormorano ruscelli, e cantano usignoli, e spira una freschezza primaverile.

"Siamo già nell’Alhambra" mi disse il Gongora; "si volti indietro, e vedrà le torri e le mura merlate della cinta."

"Ma dov’è il palazzo?" domandai.

"È un mistero," mi rispose; "andiamo innanzi, a caso."

Salimmo per un viale che fiancheggia il gran viale del mezzo, e va su a giravolte verso la sommità della collina. Gli alberi vi formano sopra come un padiglione di verzura che non lascia vedere un palmo di cielo, e l’erbe, i cespugli e i fiori gli fanno ai lati due leggiadrissime spalliere variopinte e odorose, e un po’ inclinate l’una verso l’altra, come se tendessero a congiungersi, attratte a vicenda dalla vaghezza dei colori e dalla soavità delle fragranze.

"Fermiamoci un momento," dissi "voglio tirare un gran sorso di quest’aria; mi par che debba contenere non so che germi arcani che infusi nel sangue allunghin la vita; è un’aria che odora di gioventù e di salute."

"Ecco la porta," esclamò il Gongora.

Mi voltai come se m’avessero punto in un fianco, e vidi pochi passi dinanzi a me una grossa torre quadrata, di color rosso cupo, coronata di merli, con una porta arcata, sopra la quale si vedono scolpiti una chiave ed una mano.

Interrogai il mio duca, il quale mi disse che quella era l’entrata principale dell’Alhambra, e che si chiamava la porta della Giustizia perchè sotto quell’arco i Re arabi solevan pronunziare le loro sentenze. La chiave significa che quella porta è la chiave della fortezza, e la mano simboleggia i cinque principali precetti dell’Islam: orazione, digiuno, beneficenza, guerra santa e pellegrinaggio alla Mecca. Un’iscrizione araba attesta che l’edifizio fu costrutto quattro secoli or sono dal sultano Abul Hagag Jusuf, ed un’altra che si legge tuttora sulle colonne dice: «Non c’è altro Dio che Allah, e Maometto è il suo profeta! Non v’è potere nè forza fuori di Allah!»

Passammo sotto la porta e continuammo a salire per una strada incassata, fin che ci trovammo sulla sommità della collina in mezzo a una spianata ricinta d’un parapetto e sparsa di piante e di fiori. Io mi voltai subito verso la valle per godere il colpo d’occhio; ma il Gongora mi afferrò pel braccio e mi fece guardare dalla parte opposta. Ero dinanzi a un grande palazzo dello stile del Rinascimento, mezzo in rovina, e fiancheggiato da alcune piccole case di meschina apparenza.

"Che gioco è questo?" domandai "Mi conduce qui per vedere una reggia araba, e mi trovo la via chiusa da un palazzo moderno? Chi ha avuto la scellerata idea di rizzar quell’edifizio in mezzo al giardino dei Califfi?"

"Carlo V."

"Era un vandalo. Non gli ho perdonato ancora la chiesa gotica che piantò in mezzo alla Moschea di Cordova; ed ora questa baracca finisce di mettermelo in tasca tutto intero colla sua corona e la sua gloria. Ma in nome del cielo, dov’è l’Alhambra?"

"È là."

"Dove là?"

"In quelle casuccie."

"Eh via!"

"Glie ne dò la mia parola d’onore."

Incrociai le braccia e lo guardai; egli rise.

"Ma dunque," esclamai; "questo gran nome dell’Alhambra non è che una delle solite iperbolaccie ciarlatanesche dei poeti! Io, l’Europa, il mondo, siamo indegnamente corbellati! E valeva la pena di sognar l’Alhambra per trecento sessantacinque notti di seguito, per venir poi a vedere un gruppo di catapecchie con qualche colonna mozza e qualche iscrizione affumicata?"

"Quanto mi ci godo!" rispose il Gongora dando in uno scoppio di risa; "orsù, venga a persuadersi che il mondo non è corbellato: entriamo nelle catapecchie."

Entrammo per una piccola porta, attraversammo un corridoio, ci trovammo in un cortile. Io afferrai la mano del Gongora con un vivissimo slancio, ed egli mi domandò con un accento di trionfo:

"S'è persuaso?"

Non risposi, non lo vidi, ero già sterminatamente lontano da lui: l'Alhambra aveva già cominciato ad esercitare su di me quel fáscino misterioso e profondo a cui nessuno può sfuggire e che nessuno sa esprimere.

Eravamo nel patio detto de los Arrayanes (dei mirti), che è il più vasto dell'edifizio, e presenta insieme l'aspetto d'una sala, d'un cortile e d'un giardino. Una gran vasca di forma rettangolare, piena d'acqua, cinta d'una siepe di mirto, si stende da un lato all'altro del patio, e riflette come uno specchio gli archi, gli arabeschi e le iscrizioni dei muri. A destra dell'entrata si stendono due ordini sovrapposti d'archi moreschi, sostenuti da leggiere colonne; e dal lato opposto del cortile s'alza una torre, con una porta, per la quale si vedono le interne sale semioscure e le finestrine binate, e di là dalle finestre, l'azzurro del cielo e le cime dei monti lontani. I muri sono ornati, fino a una certa altezza dal suolo, di splendenti musaici, e dal musaico in su, arabescati con disegno finissimo, che par che tremoli e si cangi a ogni passo; e qua e là fra gli arabeschi e lungo gli archi s'allungano e serpeggiano e s'intrecciano come ghirlande iscrizioni arabe che racchiudon saluti, sentenze e leggende.

Presso la porta d'entrata è scritto in caratteri cufici: — Salute eterna! — Benedizione! — Prosperità! — Felicità! — Lodato sia Iddio per il beneficio dell'Islam.

In un altro punto è scritto: — Io cerco il mio rifugio nel Signore dell'Aurora. — Altrove: — O Dio! A Te si debbono grazie eterne e lodi imperiture. —

In altre parti son versi del Corano e poesie intere in lode dei Califfi.

Stemmo qualche minuto guardando senza aprir bocca; non si sentiva il ronzio d'una mosca; di tratto in tratto il Gongora faceva movimento per avviarsi verso la torre, e io lo trattenevo pel braccio, e sentivo che fremeva d'impazienza.

"Ma bisogna spicciarsi," mi disse finalmente, "se no non torneremo a Granata prima di sera."

"Ma che so io di Granata!" gli risposi; "che so io di sera e di mattina e di me stesso; io sono in Oriente!"

"Ma lei non è che nell'anticamera dell'Alhambra, caro il mio arabo!" mi disse il Gongora spingendomi innanzi; "venga, venga con me, che le parrà ben altrimenti d'essere in Oriente!"

E mi condusse, riluttante, fin sulla soglia della porta della torre. Di là mi voltai a guardare ancora una volta il cortile dei mirti, e misi una voce di stupore. Fra due colonnine della galleria arcata che è di fronte alla torre, dal lato opposto del cortile, s’era affacciata una ragazza, un bel viso bruno d’andalusa, con un mantello bianco avvolto intorno al capo e cascante sulle spalle; e stava appoggiata sul parapetto in un atteggiamento melanconico, cogli occhi fissi su di noi. Non si può dire l’effetto fantastico che produceva quella figura in quel punto; la grazia che riceveva dall’arco che le si curvava sul capo, e dalle due colonne che le facevan cornice, e la bella armonia che dava a tutto il cortile, quasi come fosse un ornamento necessario di quell’architettura, concepito dalla mente dell’architetto nell’atto stesso che ne immaginava il disegno. Pareva una sultana che aspettasse il suo signore pensando a un altro cielo e a un altro amore. E continuava a guardarci, ed il cuore mi cominciava a batter forte, e interrogavo cogli occhi il mio amico, come per esser assicurato che non travedevo. Tutt’a un tratto la sultana rise, abbassò il mantello bianco e scomparve.

"È una serva," mi disse il Gongora.

Rimasi ingrullito.

Era infatti una serva dell’amministratore dell’Alhambra che soleva far quello scherzo agli stranieri.

Entrammo nella torre, chiamata torre di Comares, o volgarmente degli Ambasciatori.

L’interno della torre forma due sale, la prima delle quali si chiama la sala della Barca, chi dice perchè ha la forma d’una barca, e chi perchè era chiamata dagli arabi sala della baraka, o benedizione, la qual parola sarebbe stata contratta dal volgo in quella di barca. Questa sala non sembra più opera umana: è tutta un prodigioso intreccio di ricami in forma di ghirlande, di rosoni, di rami, di foglie, che copron vòlta, archi, pareti, da ogni parte e in ogni senso, fitti, attorcigliati, reticolati, sovrapposti gli uni agli altri, e pure meravigliosamente distinti fra loro, e combinati in maniera che si presentano allo sguardo tutti insieme e tutt'a un tratto, ed offrono un aspetto di magnificenza che sbalordisce e di grazia che incanta. Mi avvicinai a una parete, fissai gli occhi sul punto estremo d'un arabesco e provai a seguirne i giri e i rigiri su per la parete; è impossibile; lo sguardo si perde, la mente si turba, e tutti gli arabeschi dal pavimento alla vòlta par che si muovano e si confondano per farvi sfuggire il filo della loro inestricabile rete. Potete fare uno sforzo per non guardare intorno, fissar tutta la vostra attenzione sur un palmo solo di parete, metterci il viso sopra, e seguire il filo col dito: è inutile; dopo un minuto i ricami si scompigliano, si stende un velo tra voi e il muro, e il vostro braccio ricade. La parete pare tessuta come il panno, è crespa come il broccato, forata come la trina, reticolata come una foglia; non si può guardar da vicino; non se ne può fissar nella mente il disegno: sarebbe come voler contare le formiche in un formicaio; bisogna contentarsi di scorrer le pareti con uno sguardo vago; poi riposare, e riguardare daccapo, e riposando, pensare ad altro, e discorrere. Dopo aver guardato un po' intorno coll'aria d'un uomo preso più dal capogiro che dall'ammirazione, mi voltai verso il Gongora perchè mi leggesse nel viso quello che avrei voluto dirgli.

"Entriamo nell'altra catapecchia," mi rispose sorridendo, e mi spinse nella grande sala degli Ambasciatori, che occupa tutto l'interno della torre, poichè veramente la sala della barca appartiene a un piccolo edifizio che, sebbene congiunto alla torre, non ne fa parte. La sala è di forma quadrata, spaziosa ed illuminata da nove grandi finestre ad arco in forma di porte, che presentan quasi l'aspetto di altrettante alcove, cosiffatto è lo spessore dei muri; e ciascuna è divisa per mezzo, verso il di fuori, da una colonnina di marmo che sorregge due archetti eleganti, sormontati alla loro volta da due piccole finestre arcate. Le pareti sono coperte di musaici e d'arabeschi indescrivibilmente delicati e multiformi; e d'innumerevoli iscrizioni che si stendono a guisa di larghi nastri ricamati sopra gli archi delle finestre, su per gli spigoli, lungo i fregi, e intorno alle nicchie, nelle quali ponevansi i vasi ripieni di fiori e d'acque odorose. Il soffitto che s'eleva ad una grande altezza, è composto di pezzuoli di legno di cedro, bianchi, dorati e azzurri, commessi insieme, in forma di cerchi, di stelle e di corone; e forma tante volticine e cellule e finestrette centinate dalle quali scende una vaga luce, e dalla cornice che congiunge il soffitto alle pareti, pendono pezzi di stucco faccettati e ricamati a modo di stallattiti e di ciocche di fiori. Il trono era posto nella finestra di mezzo del lato opposto alla porta d’entrata. Dalle finestre di questo lato si gode la stupenda vista della valle del Dauro, profonda e silenziosa, come se anch’essa sentisse il fascino della maestà dell’Alhambra; dalle finestre degli altri due lati, si vedon le mura di cinta e le torri della fortezza; e dalla parte dell’entrata, in lontananza, gli archi leggeri del cortile dei mirti, e le acque della vasca che riflettono l’azzurro del cielo.

"Ebbene," mi domandò il Gongora, "valeva la pena di sognare l’Alhambra per trecentosessantacinque notti?"

"È strano," gli risposi; "quello che mi passa per la testa in questo momento. Quel cortile come lo si vede di qui, questa sala, queste finestre, questi colori, tutto quello che mi circonda, mi pare che non mi riesca nuovo; mi par che risponda a una immagine che avevo in capo, non so da quando, non so come, confusa in mezzo a mille altre, forse nata in un sogno, che so io! Quando avevo sedici anni, ed ero innamorato, e guardandoci fissi negli occhi, io e quella bambina, soli, in un giardino, all’ombra d’un capanno, ci lasciavamo sfuggire, senza accorgercene, un grido di gioia, che ci rimescolava il sangue come se fosse uscito dalla bocca d’una terza persona che avesse scoperto il nostro segreto; ebbene, allora io desideravo spesso di essere un re e di avere una reggia; ma nel dar forma a quel desiderio, la mia immaginazione non si arrestava mai nelle grandi reggie dorate dei nostri paesi, e volava in terre lontane e là, sulla cima di un'altissima montagna, si fabbricava una reggia a modo suo, nella quale ogni cosa era gentile e piccino, e illuminato d'una luce misteriosa; e si vedevan lunghe fughe di sale decorate di mille ornamenti capricciosi e delicati, con finestre alle quali avremmo potuto affacciarci solamente noi due, e piccole colonne dietro cui quella bambina avrebbe appena potuto nascondere il viso per farmi uno scherzo amoroso, quando avesse sentito avvicinarsi il mio passo di sala in sala, o suonar la mia voce in mezzo al mormorio delle fontane del giardino. Senza saperlo, nel fabbricare colla fantasia quelle reggie, fabbricavo l'Alhambra; in quei momenti ho immaginato qualcosa di simile a queste sale, a queste finestre, a quel cortile che si vede di qui; di tanto simile che, più guardo intorno, meglio me ne ricordo, e mi par di riconoscere il luogo, piuttosto che di vederlo la prima volta. Quando s'è innamorati si sogna tutti un po' d'Alhambra, e se si potessero tradurre in linee e in colori tutti quei sogni, s'avrebbero dei quadri che farebbero strabiliare per la loro somiglianza con tutto quello che qui si vede. Quest'architettura non esprime la potenza, la gloria, la grandezza; esprime l'amore e la voluttà; l'amore coi suoi misteri, coi suoi capricci, colle sue effervescenze, coi suoi slanci di gratitudine verso Dio; la voluttà colle sue malinconie e i suoi silenzi. V'è dunque un legame intimo, un'armonia fra la bellezza di quest'Alhambra e l'anima di coloro che hanno amato a sedici anni, quando i desiderii son sogni e visioni. E di qui nasce l'indescrivibile fáscino che esercita questa bellezza; e per questo l'Alhambra, tuttochè così deserta e dimezzata, è ancora la più incantevole reggia del mondo, e al vederla per l'ultima volta, gli stranieri versano una lagrima. Gli è perchè salutando l'Alhambra, si dà un ultimo addio ai nostri più bei sogni giovanili, che fra le sue mura si son rifatti vivi per l'ultima volta! si dà un addio a dei visi immensamente cari che hanno rotto l'oblio di molti anni per affacciarsi un'ultima volta in mezzo alle colonnine di queste finestre! si dà un addio a tutti i fantasmi della giovinezza! si dà un addio a quell'amore che non rinasce mai più."

"È vero!" rispose il mio amico; "ma che cosa dirà quando avrà visto il cortile dei Leoni! Venga! corriamo!"

Uscimmo a rapidi passi dalla torre, attraversammo il cortile dei mirti, e giungemmo davanti a una porticina posta di fronte a quella d'entrata.

"Si fermi!" mi gridò il Gongora.

Mi fermai.

"Mi faccia un favore."

"Cento."

"Un solo: chiuda gli occhi e non li apra che quando glielo dirò io."

"Eccoli chiusi."

"Ma badi che ci tengo; se li apre, m'inquieto!"

"Non dubiti!"

Il Gongora mi pigliò per mano e mi condusse innanzi: tremavo come una foglia.

Facemmo forse una quindicina di passi e ci arrestammo. Il Gongora disse con voce commossa: — Guardi! — Guardai, e lo giuro sul capo dei miei lettori: mi sentii scorrere due lagrime giù per le guancie.

Eravamo nel cortile dei Leoni.

Se in quello stesso momento m’avessero fatto uscire per dove ero entrato, non so se avrei saputo dire quello che avevo visto. Una foresta di colonne, un visibilio d’archi e di ricami, un’eleganza indefinibile, una delicatezza inimmaginabile, una ricchezza prodigiosa, un non so che di aereo, di trasparente, di ondeggiante, come un gran padiglione di trina; un’apparenza quasi d’un edifizio che si debba dissolvere con un soffio, una varietà di luci, di prospetti, di oscurità misteriose, una confusione, un disordine capriccioso di cose piccine, una maestà di reggia, una gaiezza di chiosco, una grazia amorosa, una stravaganza, una delizia, una fantasia di fanciulla appassionata, un sogno d’un angelo, una follia, una cosa senza nome; tale è il primo effetto del cortile dei Leoni.

È un cortile non più spazioso d’una gran sala da ballo, della forma d’un rettangolo, coi muri alti come una casetta andalusa d’un sol piano. Tutt’intorno ricorre un leggero portico, sostenuto da sveltissime colonne di marmo bianco aggruppate in un disordine simmetrico a due a due, a tre a tre, prive quasi di piedestallo, così che paion fusti d’alberi posati in terra; munite di capitelli svariati, alti, sottili, a guisa di pilastrini, su cui si incurvano dei piccoli archi di graziosissima forma, i quali meglio che appoggiati, sembran sospesi sulle colonne, a modo di cortine, che sorreggano le colonne stesse come nastri e ghirlande spenzolanti. Dal mezzo dei due lati più corti, si avanzano due gruppi di colonne che formano due specie di tempietti quadrati, di nove archi ciascuno, sormontati da una cupoletta multicolore. I muri di questi tempietti e quello esterno del portico sono una vera trina di stucco, ricamati, orlati, ritagliati, traforati da una parte all'altra, e trasparenti come un lavoro a maglia e cangianti di disegno a ogni passo; qui rabescati a fiori, là a stelle, più oltre a scudi, a scacchiere, a figure poligonali ripiene di minutissimi ornati; dove terminati in dentelli, in crespe, in festoni, dove in nastri ondeggianti intorno agli archi, in specie di stallattiti, di frangie, di ciondoli, di fiocchi, che par che debban oscillare e scompigliarsi al più leggero movimento dell'aria. Larghe iscrizioni arabe ricorrono lungo i quattro muri, sopra gli archi, intorno ai capitelli, sulle pareti dei tempietti. In mezzo al cortile s'alza una gran vasca di marmo sostenuta da dodici leoni, e circondata da un canaletto lastricato, in cui metton capo altri quattro piccoli canali, i quali descrivendo una croce fra i quattro lati del cortile, attraversano il portico, entrano nelle sale circostanti e si congiungono ad altri condotti d'acqua che girano per tutto l'edifizio. Dietro ai due tempietti, e nel mezzo degli altri due lati, s'aprono sale e fughe di sale, con grandi porte aperte, che lascian vedere il fondo oscuro, sul quale le bianche colonnine spiccano come dinanzi all’imboccatura di una grotta. A ogni passo che si fa nel cortile, quella foresta di colonne par che si muova e si disordini per disporsi in un’altra maniera; dietro una colonna che pareva sola, ne saltan fuori due, tre, una fila; altre scompaiono, altre si stringono, altre si disgiungono; a guardar d’infondo a una delle sale, tutto appare mutato; gli archi della parte opposta, sembran lontanissimi; le colonne, spostate; i tempietti, d’un’altra forma; si vede a traverso i muri, si scopron nuovi archi e nuove colonnine, qui illuminati dal sole, là nell’ombra, lì rischiarati appena dal po’ di luce che passa pei fori degli stucchi, più lontano perduti quasi nel buio. È un continuo variare di prospetti, di lontananze, d’inganni, di misteri, di giuochi, che vi fa l’architettura e il sole, e la fantasia sovreccitata e bollente.

Che cosa doveva essere questo patio, — mi disse il Gongora, — quando i muri interni del portico erano luccicanti di musaici, i capitelli delle colonne scintillanti d’oro, i soffitti e le volte dipinti di mille colori, le porte chiuse da tende di seta, le nicchie piene di fiori, e sotto i tempietti e nelle sale correva l’acqua odorosa, e dalle nari dei leoni schizzavano dodici zampilli che ricascavan nella vasca, e l’aria era pregna dei più deliziosi profumi dell’Arabia!

Ci trattenemmo nel cortile più d’un’ora, che ci passò come un lampo; ed anch’io feci quello che fanno tutti in quel luogo, spagnuoli e stranieri, uomini e donne, poeti o non poeti che siano. Feci scorrer la mano sui muri, toccai tutte le colonnine, le strinsi colle due mani una per una come la vitina d’una bimba, mi ci nascosi in mezzo, le contai, le guardai da cento parti, percorsi il cortile in cento sensi, provai se era vero che dicendo una parola sottovoce in bocca a uno dei leoni, la si sentiva distintamente dalla bocca di tutti gli altri; cercai sui marmi le macchie di sangue delle leggende poetiche, mi stancai gli occhi e la mente sugli arabeschi. Vi eran parecchie signore. Le signore, nel cortile dei Leoni, fanno ogni sorta di fanciullaggini; mettono il viso fra le colonne gemelle, si nascondono negli angoli oscuri, siedono in terra, stanno per ore immobili colla testa appoggiata sulla mano, sognando. Quelle signore facevan così. Ve n’era una vestita di bianco che, passando dietro alle colonne lontane, quando credeva di non esser veduta, pigliava una certa andatura molle e maestosa di sultana melanconica, e poi rideva con una sua amica: era incantevole. Il mio amico mi diceva: "Andiamo," e io rispondevo: "Andiamo," e non potevo muovermi. Non provavo soltanto un sentimento dolcissimo di meraviglia; ma fremevo di piacere, e avevo addosso una smania di toccare, di frugare, che so io, di veder dentro quei muri e quelle colonne, come se fossero d’una materia arcana, e si dovesse scoprire nelle loro intime parti la causa prima del fáscino che quel luogo esercitava. In tutta la mia vita non ho mai pensato nè detto, nè dirò mai tante care follie, tante belle scempiaggini, tante fole, tante gentili cose senza senso, quante ne pensai e ne dissi in quell’ora.

"Ma bisogna venir qui," mi diceva il Gongora, "al levar del sole, bisogna venirci al tramonto, bisogna venirci di notte quando splende la luna, per veder che meraviglie di colori, di ombre e di luce! C’è da perderci il capo!"

Andammo a vedere le sale. Al lato di levante v’è una sala chiamata della Giustizia, alla quale si giunge passando sotto tre grandi archi, di cui ciascuno corrisponde a una porta che dà nel cortile. È una sala lunga e stretta, di ricca e ardita architettura, colle pareti coperte di intricati arabeschi e di preziosi musaici, e la vòlta tutta punte e groppi e sgonfi di stucco che pendon dagli archi, lungo le pareti, e qua e là s’ammucchiano, si abbassano, escon gli uni dagli altri, e gli uni gli altri si comprimono e si sovrappongono e par che si disputino lo spazio, come le bolle d’un’acqua in bollore, presentando ancora in molti punti le traccie dei colori antichi, che dovevan dare a quella vòlta l’aspetto d’un padiglione coperto di fiori e di frutta sospese. La sala ha tre piccole alcove, in ciascuna delle quali, sulla vòlta, si vede ancora una pittura araba, a cui il tempo e la estrema rarità dei lavori di pennello che son rimasti degli Arabi, danno un grandissimo valore. Le pitture son fatte sul cuoio, e il cuoio è attaccato al muro. Nello stanzino di mezzo son rappresentati, sur un fondo dorato, dieci uomini, che si suppone esser dieci re di Granata, vestiti di bianco, col cappuccio in capo, con una mano sulla scimitarra, seduti su cuscini ricamati. I dipinti delle altre due alcove rappresentano castelli, dame e cavalieri, scene di caccia e d'amore, delle quali è difficile afferrare il significato. Ma i volti dei dieci re rispondono meravigliosamente all'immagine che noi ci formiamo di quella gente: è quel colore olivastro, son quelle bocche sensuali, son quegli occhi neri dallo sguardo intento e misterioso che par sempre di veder luccicare negli angoli oscuri delle sale dell'Alhambra.

Al lato norte del cortile v'è un'altra sala chiamata de las dos Hermanas, (delle due Sorelle) da due grandi lastre di marmo che ne formano il pavimento. È la sala più gentile dell'Alhambra. È piccola, di forma quadrata, coperta da una di quelle vòlte in forma di cupola, che gli Spagnuoli chiamano mezzi aranci, sorretta da colonnine ed archi disposti in cerchio, tutta lavorata in forma d'una grotta di stallattiti, con una infinità di punte e d'incavi, coloriti e dorati, e così leggera alla vista, che par sia sospesa in aria, e a toccarla debba tremolar tutta come una tenda, o squarciarsi come una nuvola, o svanire come se non fosse che un mucchio di bolle di sapone. Le pareti rivestite, come in tutte le altre sale, di stucco, e coperte di arabeschi incredibilmente fitti e delicati, sono uno dei più meravigliosi prodotti della fantasia e della pazienza umana. Più si guarda, e più le innumerevoli linee si stringono e s'incrociano, e da una figura nasce un'altra, e da questa una terza, e tutte tre ne presentano una quinta che c'era sfuggita e questa si divide tutt'a un tratto in altre dieci che non s'erano vedute, e poi si ricompone e si trasforma daccapo; e non si finisce più di scoprir nuove combinazioni, perchè quando le prime si riaffacciano, di già son dimenticate, e fan l'effetto della prima volta. E ci sarebbe da perder la vista e la ragione a voler venir a capo di quel labirinto; ci vuole un'ora per vedere il contorno d'una finestra, gli ornamenti d'un pilastro, gli arabeschi d'un fregio; un'ora non basta per imprimersi nella mente il disegno d'una delle stupende porte di cedro. Ai due lati della sala vi sono due piccole alcove; nel mezzo, un piccolo bacino con un tubo per lo zampillo, che è congiunto al canaletto che attraversa il cortile e va alla fontana dei Leoni. In dirittura della porta d'entrata, dal lato opposto, v'è un'altra porta, per la quale si entra in un'altra sala stretta e lunga, chiamata la sala degli Aranci. Da questa sala, per una terza porta, si entra in un piccolo gabinetto chiamato il gabinetto di Lindaraja, straricco di ornamenti, e chiuso da una graziosissima finestra a due archi che guarda in un giardino.

Per godere tutta la bellezza di questa magica architettura bisogna uscir dalla sala delle due Sorelle, attraversare il cortile dei Leoni, ed entrare nella sala chiamata degli Abencerrages che si trova dal lato di Mezzogiorno, di fronte a quella delle Sorelle, della quale ha quasi la stessa forma e gli stessi ornamenti. D'in fondo a questa sala lo sguardo attraversa il cortile dei Leoni, passa per la sala delle due Sorelle, entra nella sala degli Aranci, penetra nel gabinetto di Lindaraja e s’infila nel giardino del quale appare la folta verzura sotto gli archi di quel gioiello di finestra. Le due aperture di questa finestra, viste rimpicciolite così per la lontananza, e così piene di luce in fondo a quella fuga di sale oscure, paion due grandi occhi aperti che guardino, e fanno immaginare che di là ci siano chi sa quali misteri di paradiso.

Visto la sala degli Abencerrages, andammo a vedere i bagni che si trovano fra la sala delle due Sorelle e il cortile dei Mirti. Scendemmo una scaletta, passammo per uno stretto corridoio, riuscimmo in una splendida sala, chiamata sala de los Divanes, nella quale venivano a riposare le belle dei re, sui tappeti persici, al suon delle cetre, dopo aver fatto il bagno nelle stanze vicine. Questa sala fu ricostrutta sulle rovine dell’antica, e arabescata, dorata e dipinta da artisti spagnuoli, come l’antica doveva essere; in modo che si può considerare come una sala dei tempi degli Arabi rimasta intatta in tutte le sue parti. Nel mezzo è una fontana, in due pareti opposte due specie di alcove nelle quali si adagiavan le donne, più alto le tribune dove stavano i suonatori. Le pareti sono listate, brizzolate, screziate, picchiettate di mille vivissimi colori, e presentan l’aspetto d’una tappezzeria di stoffe chinesi trapunte di fili d’oro, con quegli interminabili intrecci di figure che farebbero ammattire il più paziente musaicista della terra.

Eppure in quella sala lavorava un pittore! Lavorava da tre mesi a copiar quelle pareti! Era un tedesco. Il Gongora lo conosceva, e gli domandò: "È un lavoro che ammazza, non è vero?" E quegli rispose sorridendo: "Non mi pare," e si ricurvò sul suo quadro.

Lo guardai come avrei guardato una creatura d'un altro mondo.

Passammo negli stanzini da bagno, piccoli, fatti a vòlta, e rischiarati dall'alto per mezzo di alcuni fori aperti nel muro, in forma di stelle e di fiori. Le tinozze sono d'un sol pezzo di marmo, vaste, e serrate fra le due pareti. I corridoi che conducono da uno stanzino all'altro son bassi e stretti in modo che appena ci può passare un uomo; e vi fa un fresco che è una delizia. Affacciandomi a uno di quegli stanzini, fui preso tutt'a un tratto da un pensiero tristo.

"Che cos'ha che si rannuvola?" mi domandò l'amico.

"Penso," risposi, "al come viviamo noi, d'estate come d'inverno, in quelle case che paion caserme, in quelle stanze al terzo piano o buie o inondate da un torrente di luce, senza marmo, senz'acqua, senza fiori, senza colonnine; penso che dovremo viver tutta la vita così, e morire fra quelle pareti, senza aver provato una volta la voluttà di questi palazzi fatati; penso che anche in questa misera vita terrena si può immensamente godere, e che io non godrò nulla! Penso che potevo nascere quattro secoli fa re di Granata, e che sono nato invece un poveromo!"

L’amico rise, e stringendomi un braccio fra l’indice e il pollice, come per darmi un pizzicotto, mi disse:

"Non pensi a questo. Pensi a quanto di bello, di gentile e di segreto debbono aver visto queste tinozze; ai piedini che sguazzarono nelle loro acque odorose, alle lunghe capigliature che si sparsero sui loro orli, ai grandi occhi languidi che guardarono il cielo a traverso i fori di quella vòlta, mentre sotto gli archi del cortile dei Leoni risonava il passo concitato d’un Califfo impaziente, e i cento zampilli della reggia dicevano col loro affrettato mormorio: — Vieni, vieni, vieni! — e in una sala profumata uno schiavo tremante di riverenza chiudeva le finestre colle cortine color di rosa."

"Ah! mi lasci un po’ l’anima in pace!" risposi scrollando le spalle.

Attraversammo il giardino del gabinetto di Lindaraja, e un cortile d’aspetto misterioso chiamato il patio della Reja, e per una lunga galleria che guarda la campagna, giungemmo sulla sommità di una delle estreme torri dell’Alhambra, sotto un piccolo padiglione aperto tutt’intorno, chiamato Tocador (toeletta) de la reina, che par sospeso sur un abisso come il nido d’un’aquila.

Lo spettacolo che si gode di lassù, lo si può dire senza paura d’essere smentiti da alcuno, non ha l’uguale sulla faccia della terra.

S’immagini una immensa pianura verde come un prato coperto d’erba novella, attraversata in tutti i sensi da sterminati filari di cipressi, di pini, di quercie, di pioppi, sparsa di foltissimi boschetti d’aranci, che a tanta lontananza non paion più che cespugli, e di grandi orti e giardini così affollati di alberi fruttiferi che presentano quasi l’aspetto di poggerelli vestiti di verzura; e a traverso questa immensa pianura il fiume Genil che luccica fra i boschi e i giardini come un gran nastro inargentato; e tutto intorno colline boscose, e di là dalle colline, altissime roccie di fantastiche forme che rendon l’immagine di una cinta di muri e di torri titaniche che separi quel paradiso terrestre dal mondo; e lì proprio sotto gli occhi, la città di Granata, parte distesa sul piano, parte sulla china d’un colle, tutta sparsa di gruppi d’alberi, di macchie, di mucchi informi di verzura che s’alzano e ondeggiano sopra i tetti delle case come enormi pennacchi, e par che tendano ad espandersi, a congiungersi e a coprir la città intera; e più sotto ancora, la valle profonda del Dauro, meglio che coperta, riempita, colmata quasi da un cumulo prodigioso di vegetazione che si solleva come una montagna, oltre la quale emerge ancora un bosco di pioppi giganteschi che agitano le cime sotto le finestre della torre quasi a portata della mano; e a destra, di là dal Dauro, sur una collina che s’alza al cielo ardita e svelta come una cupola, il palazzo del Generalife, coronato di giardini aerei, e quasi nascosto in mezzo a un bosco di allori, di pioppi e di melagrani; e dalla parte opposta, uno spettacolo meraviglioso, una cosa incredibile, una visione d’un sogno: la Sierra Nevada, le più alte montagne d’Europa, dopo le Alpi, bianche di neve, bianche fino a poche miglia dalle porte di Granata, bianche fino ai colli dove giganteggiano i melagrani e le palme, e si spiega in tutta la sua splendida pompa una vegetazione quasi tropicale. S’immagini ora sopra questo immenso paradiso, che racchiude tutte le ridenti grazie dell’oriente e tutte le più severe bellezze del settentrione, che sposa l’Europa all’Affrica tributando all’imeneo tutte le più belle meraviglie della natura, e che manda al cielo confusi in un solo tutti i profumi della terra, s’immagini sopra questa valle beata il cielo e il sole di Andalusia, che volgendo al tramonto, tinge d’un divino color di rosa le cime, e di tutti i colori dell’iride e di tutti i riflessi delle più limpide perle azzurrine i fianchi delle montagne della Sierra; e frange i suoi raggi in mille sfumature d’oro, di porpora e cinerine, nelle roccie che coronan la pianura; e declinando in mezzo a un incendio di raggi, getta, come un saluto, una corona luminosa intorno alle torri pensierose dell’Alhambra e ai pinnacoli inghirlandati del Generalife; e si dica se si può dare al mondo qualche cosa di più solenne, di più glorioso, di più innebriante di questa festa amorosa del cielo e della terra, dinanzi alla quale da nove secoli trema di voluttà e palpita di orgoglio Granata.

Il tetto del mirador de la reina è sostenuto da piccole colonne moresche fra le quali si stendono degli archi schiacciati che danno al padiglione un aspetto stranamente capriccioso e gentile. Le pareti sono dipinte a fresco, e vi si vedono lungo i fregi le iniziali d’Isabella e di Filippo V intrecciate con amorini e fiori. Accanto alla porta d’entrata, resta ancora una pietra del pavimento antico, tutta bucherellata, sulla quale si dice si mettessero le Sultane per avvolgersi nel nuvolo dei profumi che si bruciavan di sotto. Ogni cosa, lassù, spira amore e letizia. Vi si respira un’aria pura come sulla cima d’una montagna, vi si sente una fragranza confusa di mirti e di rose, e non vi arriva altro rumore che il mormorio del Dauro che si rompe tra i macigni del suo letto dirupato, e il canto di migliaia di uccelli nascosti nella folta verzura della valle; è un vero nido da innamorati, un’alcova pensile per andarvi a sognare, una loggia aerea per salirvi a ringraziar Dio d’esser felici.

"Ah! Gongora," esclamai dopo aver contemplato per qualche momento quello spettacolo incantevole; "io darei dieci anni di vita per poter far comparir qui, con un colpo di bacchetta magica, tutte le persone care che mi aspettano in Italia!"

Il Gongora mi accennava un largo spazio del muro tutto nero di date e di nomi scritti colla matita, col carbone, e incisi colla punta dei temperini dai visitatori dell’Alhambra.

"Che cos’è scritto qui?" mi domandò.

M’avvicinai e gittai un grido: — Chateaubriand!

"E qui?"

"Byron!"

"E qui?"

"Victor Hugo!"

Scendendo dal mirador de la reina io credevo d’aver visto l’Alhambra, e commisi l’imprudenza di dirlo al mio amico. Se avesse avuto in mano un bastone, son certo che me l’avrebbe dato fra capo e collo; ma non avendolo, si contentò di guardarmi coll’aria d’uno che domandasse se mi aveva dato volta il cervello.

Ritornammo nel cortile dei mirti, e visitammo le sale poste dall’altro lato della torre di Comares, la maggior parte mezzo rovinate, altre trasformate, alcune affatto nude, senza pavimento, senza tetto; ma tutte meritevoli d’esser vedute, e per i ricordi che destano, e per bene comprendere la struttura dell’edifizio. L’antica moschea, è stata convertita in cappella da Carlo V; una grande sala araba, in oratorio; qua e là si vedono ancora resti di arabeschi e di soffitti di cedro scolpiti; le gallerie, i cortili, i vestiboli, sembran di un palazzo devastato dalle fiamme.

Visto anche questa parte dell’Alhambra, credetti davvero che non mi rimanesse nulla a vedere, e commisi daccapo l’imprudenza di dirlo al Gongora. Questa volta non si potè più contenere; e condottomi nell’atrio del cortile dei mirti dinanzi a una pianta dell’edifizio affissa al muro, mi disse:

“Guardi, e vedrà che tutte le sale e i cortili e le torri che abbiamo visti finora, non occupano nemmeno la ventesima parte dello spazio che abbracciano le mura dell’Alhambra; vedrà che non abbiamo ancora visitato i resti di altre tre moschee, le rovine della casa del Cadì, la torre dell’Acqua, la torre delle Infante, la torre della Prigioniera, la torre del Candil, la torre dei Picos, la torre dei Pugnali, la torre dei Siete melos, la torre del Capitano, la torre della Strega, la torre delle Teste, la torre delle Armi, la torre degli Idalghi, la torre delle Galline, la torre del Cubo, la torre dell’Omaggio, la torre della Vela, la torre della Polvere, gli avanzi della casa di Mondejar, i quartieri militari, la porta di ferro, i muri interni, le cisterne, i passeggi; perchè ha da sapere che l’Alhambra non è un palazzo, ma una città; e che ci sarebbe da passar la vita a cercar arabeschi, a leggere iscrizioni, a scoprir ogni giorno un nuovo colpo d’occhio di colline e di montagne, e a andare in estasi una volta regolarmente per ognuna delle ventiquattr’ore della giornata.”

Ed io credevo d’aver visto l’Alhambra!


Per quel giorno non ne volli saper altro, e Dio sa come avevo la testa quando tornai all’albergo. Il giorno dopo, allo spuntar del sole, ci ritornai; ci ritornai la sera; e continuai a andarci ogni giorno per tutto il tempo che rimasi a Granata, col Gongora, con altri amici, coi ciceroni, solo; e l’Alhambra mi parve sempre più vasta e sempre più bella, e ripercorsi quei cortili e quelle sale, e vi passai ore ed ore, seduto tra le colonne o appoggiato alle finestrine, con un piacere di più in più vivo, scoprendo ogni volta bellezze nuove, e abbandonandomi sempre a quelle vaghe e deliziose fantasie, fra le quali aveva errato la mente il primo giorno. Non saprei più dire per dove gli amici mi facevan passare per entrar nell’Alhambra; ma mi ricordo che ogni giorno, nell’andare, vedevo mura e torri e strade deserte che non avevo viste mai, e mi pareva che l’Alhambra avesse mutato di sito, o si fosse trasformata, o le fosser sorti intorno, come per incanto, nuovi edifizii che ne alterassero l’aspetto primitivo. Chi potrebbe descrivere la bellezza di quei luoghi quando tramontava il sole! quel bosco fantastico quando vi batteva il lume della luna! la pianura immensa e le montagne coperte di neve, nelle notti serene! i grandiosi contorni di quelle mura enormi, di quelle superbe torri, di quegli alberi smisurati, sul cielo tempestato di stelle! lo stormire prolungato di quei mucchi immani di verzura che riempiono le valli e coprono i fianchi delle colline, quando soffiava la brezza! Era uno spettacolo dinanzi al quale, i miei compagni, nati a Granata, ed abituati a vederlo fin dalla infanzia, restavano senza parola, così che facevamo lunghi tratti di cammino in silenzio, ciascuno immerso nei suoi pensieri, col cuore compreso d’una mestizia dolcissima che a volte ci faceva inumidir gli occhi e alzar il viso al cielo con uno slancio di gratitudine e di tenerezza.


Il giorno del mio arrivo a Granata, quando rientrai all’albergo, a mezzanotte, invece del silenzio e della quiete, trovai il patio illuminato come una sala da ballo, gente ai tavolini che sorbiva granite, gente su nelle gallerie che andava e veniva, chiaccherando e ridendo; e mi toccò aspettare un’ora prima di andare a dormire. Ma passai quell’ora molto gradevolmente. Mentre stavo guardando una carta di Spagna affissa alla parete, un omaccione col viso color di barbabietola e una pancia che gli cascava sulle ginocchia, mi si avvicinò, e toccandosi il berretto, mi domandò s’ero italiano; risposi di sì, ed egli soggiunse sorridendo: — "Ed io pure; io sono il padrone dell’albergo."

"Me ne rallegro, tanto più che vedo che lei ci si fa d’oro."

"Dio buono..." mi rispose con un tuono che voleva parer melanconico; "sì... non mi lamento; ma... me lo creda, caro signore, per quanto gli affari vadan bene, quando si è lontani dal proprio paese, qui (e si mise una mano sull’enorme torace) qui si sente sempre un vuoto!"

Gli guardai la pancia.

"Un gran vuoto," ripetè l’albergatore; "la patria non si dimentica mai... Di che provincia è lei, signore?"

"Della Liguria. E lei?"

"Del Piemonte. Liguria! Piemonte! Lombardia! Quelli son paesi!"

"Son bei paesi, non c’è dubbio; ma lei, alla fine dei conti, non si può lamentare della Spagna. Sta in una delle più belle città del mondo, è padrone d’uno dei più belli alberghi della città, ha una folla di forestieri tutto l’anno, e poi vedo che gode d’una salute invidiabile."

"Ma il vuoto!"

Gli guardai di nuovo la pancia.

"Eh capisco, signor mio; ma lei s’inganna, sa, se mi giudica dalle apparenze. Lei non può immaginare quello che provo io quando capita qui un Italiano. Che vuole? Sarà una debolezza... non so... ma io lo vorrei vedere tutto il giorno a tavola, e creda che se mia moglie non mi trovasse a ridire, io sarei capace di mandargli per conto mio una dozzina di piatti d’antipasto... come nulla."

"A che ora si desina domani?"

"Alle cinque. Del resto... qui si mangia poco... paesi caldi... tutti si tengon leggeri... di qualunque nazionalità sieno... è una regola... Ma non ha visto l’altro italiano che è qui?"

Così dicendo guardò intorno, e un uomo che ci stava osservando da un angolo del cortile, ci si avvicinò. L’albergatore, dette poche parole, ci lasciò soli. Era un uomo sulla quarantina, meschinamente vestito, che parlava co’ denti stretti e stropicciando di continuo le mani con un movimento convulsivo, come se facesse uno sforzo per trattenersi dal picchiare dei pugni. Mi disse che era lombardo, corista, arrivato il giorno innanzi a Granata con altri artisti di canto scritturati al teatro dell’Opera per la stagione d’estate.

"Sucido paese!" esclamò senz’altro preambolo, guardandosi intorno come se volesse pronunziare un discorso.

"Non sta volentieri in Spagna?" gli domandai.

“In Spagna? Io? Scusi: gli è lo stesso come se mi domandasse: — Sta volontieri lei in galera?”

“Ma perchè?”

“Perchè?... Ma non vede che gente sono gli Spagnuoli: ignoranti, superstiziosi, orgogliosi, sanguinarii, impostori, furfanti, ciarlatani, infami?”

E restò un minuto immobile in un atto interrogativo, con le vene del collo gonfie che pareva gli volessero scoppiare.

“Mi perdoni,” risposi, “il suo giudizio non mi pare abbastanza favorevole per poterle dire che la penso come lei. Quanto a ignoranza, mi scusi, non tocca a noi Italiani, a noi che abbiamo ancora città in cui si pigliano a sassate i maestri di scuola, e si stilettano i professori che danno zero agli scolari; non tocca a noi, per ora, di riveder le buccie agli altri. Quanto a superstizione, oh poveri noi! quando vediamo nella città d’Italia, in cui è più diffusa l’istruzione popolare, seguir un sottosopra da non dirsi, per un’immagine miracolosa della Madonna trovata da una donnicciuola in mezzo strada... Quanto a delitti, io le dichiaro francamente che se dovessi far un raffronto fra i due paesi coi quadri statistici alla mano in presenza d’un uditorio di Spagnuoli, senza conoscer prima i dati e le risultanze, avrei una maledetta paura... Non voglio dire con questo che noi, su per giù, non ci troviamo in migliori acque che la Spagna; voglio dire che un italiano, giudicando gli Spagnuoli, se vuol esser giusto, bisogna che sia indulgente.”

“Non mi va, scusi... un paese senza indirizzo politico! un paese in preda all’anarchia! un paese... Andiamo, mi citi un grand’uomo spagnuolo di questi tempi!”

“Non saprei.... ce n’è così pochi da per tutto!”

“Mi citi un Galileo!”

“Oh dei Galilei non ce n’hanno nemmen uno.”

“Mi citi un Rattazzi!”

“Eh non ce l’hanno neppure.”

“Mi citi... ma già, non hanno niente. E poi, o che il paese le par bello?”

“Ah! scusi; su questo punto non la cedo; l’Andalusia, per citarle una sola provincia, è un paradiso; Siviglia, Cadice, Granata, sono stupende città.”

“Come?... E a lei piacciono le case di Siviglia e di Cadice, che a passare rasente i muri un povero diavolo s’imbianca dalla testa ai piedi? Le piacciono quelle strade che dopo un buon pranzo si stenta a passarci? E trova belle le donne andaluse, con quegli occhi da spiritate? Andiamo, lei è troppo indulgente, non è un popolo serio. Hanno chiamato Don Amedeo, e ora non lo voglion più; gli è perchè sono indegni d’esser governati da un uomo civilizzato!” (testuale).

“Ma non trova dunque nulla di buono in Spagna?”

“Nulla.”

“Ma perchè ci sta?”

“Ci sto.... perchè ci mangio.”

“È qualche cosa.”

“Ma come ci mangio? Come un cane! chi non sa cos’è la cucina spagnuola!”

“Ma scusi: invece di mangiare come un cane in Spagna perchè non va a mangiare come un uomo in Italia?"

Qui il povero artista si trovò un po’ impacciato; ed io per levarlo d’impaccio gli offersi un sigaro, che accettò ed accese senza far parola. E non fu il solo italiano in Spagna, che mi parlasse in quei termini del paese e degli abitanti, negando persino la serenità del cielo e la grazia delle andaluse. Io non so che gusto ci sia a viaggiare in quella maniera, col cuore chiuso ad ogni sentimento benevolo, e continuamente intesi a censurare e a vilipendere, come se ogni cosa buona e bella che si trova in un paese straniero, fosse stata rubata al nostro, e noi non ci potessimo vantare di valer qualcosa se non colla condizione che tutti gli altri non valgano nulla. La gente che viaggia con siffatta disposizione d’animo, mi fa più che stizza, pietà, perchè si priva volontariamente di molti piaceri e di molti conforti. Così mi pare almeno a giudicar gli altri da me, poichè dovunque io vada, il primo sentimento che m’inspiran le cose e la gente è un sentimento di simpatia; un desiderio di non trovar nulla che mi costringa a censurare; un bisogno di abbellire ai miei stessi occhi le cose belle, di nascondermi le spiacevoli, di scusare i difetti, di poter dire schiettamente a me stesso ed agli altri che sono contento di tutti e di tutto. E per raggiunger questo fine non ho da fare alcun sforzo; ogni cosa mi si presenta quasi spontaneamente sotto il suo aspetto più gradevole; e la mia immaginazione colora benignamente gli altri aspetti di un leggero color di rosa. So bene che in codesto modo non si studia un paese, non si scrivon Saggi critici, nè si acquista la fama d’uomini profondi; ma so che si viaggia coll’anima serena, e che i viaggi fanno un pro che non si può dire.

Il giorno dopo andai a vedere il Generalife che era come la villa dei Re arabi, e il cui nome va congiunto a quello dell’Alhambra, come quello dell’Alhambra a quel di Granata; benchè oramai del Generalife antico non rimangan che pochi archi e pochi rabeschi. È un piccolo palazzo, semplice, bianco, con poche finestre, con una galleria ad archi, coronato da una terrazza, e mezzo nascosto in mezzo a un bosco d’allori e di mirti, sulla sommità d’un monte floridissimo che sorge sulla riva destra del Dauro, di fronte alla collina dell’Alhambra. Dinanzi alla facciata del palazzo si stende un piccolo giardino, e altri giardini s’alzano l’uno sull’altro, quasi in forma d’una vasta gradinata, fino al sommo del monte, dove sorge un’altissima loggia che chiude il recinto del Generalife. I viali dei giardini, le larghe scale che conducon dall’uno all’altro, e le aiuole piene di fiori, sono fiancheggiate da alte spalliere, sormontate da archi e divise da capanni di mirti curvati e intrecciati con graziosi disegni; e ad ogni ripiano sorgon casine bianche, ombreggiate da pergolati, e da gruppi d’aranci e di cipressi disposti con pittoresca simmetria. L’acqua vi è profusa ancora come ai tempi degli arabi e dà al luogo una grazia, una freschezza e una vita da non potersi descrivere. Da ogni parte si sente mormorio di ruscelli e di fontane; si svolta da un viale, s'incontra uno zampillo; ci si affaccia a una finestra, si vede uno schizzo che giunge fino al davanzale; si entra in mezzo a un gruppo d'alberi, e si riceve nel viso gli spruzzi d'una cascatella; dovunque ci si volga, c'è acqua che salta, o che scorre, o che piove, gorgogliando e luccicando tra l'erbe e i cespugli. Dall'alto della loggia scende la vista sopra tutti quei giardini che van giù a chine, a salti, a scaglioni; si sprofonda nell'abisso di vegetazione che separa i due monti, abbraccia tutta la cinta dell'Alhambra, colle cupole dei suoi tempietti, colle torri lontane, coi sentieri che serpeggiano fra le sue rovine; si stende sulla città di Granata, sulla pianura, sui colli, e scorre con uno sguardo solo tutte le cime della Sierra Nevada, che paion tanto vicine da poterci arrivare in un'ora. E mentre contemplate questo spettacolo, vi accarezza l'orecchio il mormorio di cento zampilli e il suono fievole delle campane della città, che vien su a ondate, or sì or no, insieme a un odor misterioso di paradiso terrestre, che dà dei fremiti di voluttà da far impallidire.

Di là dal Generalife, sulla sommità d'un monte più alto, ora nudo e squallido, sorgevano ai tempi degli Arabi altri palazzi reali e si stendevano altri giardini, congiunti fra loro da grandi viali fiancheggiati da mirti. Ora tutte quelle meraviglie d'architettura, coronate di boschi, di fontane e di fiori, quelle fatate reggie aeree, quei nidi splendidi e odorosi d'amore e di delizia, sono scomparsi, e appena qualche mucchio di macerie o qualche breve tratto di muro

«Ne fa fede e ricordo al passeggiero.»

Ma quelle rovine che desterebbero altrove un sentimento di malinconia, non lo destano dinanzi allo spettacolo di quella bellissima natura, al cui incanto non pare che abbian mai potuto aggiungere nulla le più meravigliose opere dell'uomo.


Rientrando in città, mi fermai a una estremità della Carrera del Darro, dinanzi a una casa riccamente adornata di bassorilievi che rappresentano scudi araldici, armature, cherubini e leoni, con un piccolo terrazzino sull'angolo, sopra 'l quale, parte sur un muro, parte sull'altro, lessi la seguente misteriosa iscrizione, in grandi caratteri di stampa:

Esperando la del cielo,


che significa, tradotto letteralmente: — Aspettando quella del cielo. — Curioso di sapere il senso riposto di quelle parole, le notai per interrogarne il dotto padre del mio amico, il quale me ne diede due spiegazioni, l'una pressochè sicura, ma poco romantica; l'altra romantica, ma molto dubbiosa. La quale è questa. La casa apparteneva a Don Fernando di Zafra, segretario dei Re Cattolici, che aveva una bellissima figliuola. Un giovine idalgo, di famiglia nemica o inferiore di nobiltà alla famiglia dei Zafra, s’innamorò della figliuola, ne fu amato, la chiese in sposa, non l’ebbe. Il rifiuto del padre aggiunse esca al fuoco amoroso dei due giovani, le finestre della casa son basse, l’innamorato, una notte, riuscì a dar la scalata, e a entrar nella stanza della fanciulla. O abbia rovesciato una seggiola entrando, o abbia tossito, o abbia gettato un leggero grido di gioia al veder la sua bella amante colle chiome sciolte e le braccia aperte, la tradizione non lo dice, e nessuno lo sa; ma è certo che Don Fernando di Zafra, inteso rumore, accorse, vide, e cieco di furore si slanciò sul malcapitato giovane per metterlo a morte. Ma il giovane riuscì a fuggire; Don Fernando, inseguendolo, s’abbattè in uno dei propri paggi fautore di quegli amori, che aveva aiutato l’idalgo a entrar nella casa; lo scambiò, in su quel subito, per il seduttore; e senza udir spiegazioni e preghiere, lo fece afferrare e impiccare al terrazzino della casa. La tradizione narra che mentre la povera vittima gridava: — Pietà! Pietà! — l’offeso padre gli rispose accennandogli il terrazzino: — Là starai esperando la del cielo! (aspettando quella del cielo); — risposta ch’egli fece poi incidere sur una pietra del muro, a perpetuo spavento dei seduttori e dei mezzani.


Consacrai il resto della giornata alle chiese e ai conventi.

La cattedrale di Granata merita, anche meglio di quella di Malaga, che pure è bella e magnifica, di essere descritta parte per parte; ma basta oramai di descrizioni di chiese. Fu fondata nel 1529 dai re cattolici, sulle rovine della principal moschea della città; ma rimase incompiuta. Ha una grande facciata con tre porte, ornata di statue e di bassorilievi; ed è formata da cinque navate, divise da venti smisurati pilastri composti d’un fascio di sottili colonne. Le cappelle racchiudono quadri del Boccanegra, sculture del Torrigiani, tombe ed ornamenti preziosi. È mirabile sopra tutte la cappella maggiore, sorretta da venti colonne corintie, divise in due ordini, sul primo dei quali si alzano le statue colossali dei dodici apostoli, e sul secondo un cornicione coperto di ghirlande e di teste di cherubini. Di sopra ricorre un giro di leggiadre finestre a vetri coloriti che rappresentano la Passione, e dal fregio che le corona si slanciano in alto dieci archi arditi che forman la vòlta della cappella. Negli archi che sorreggon le colonne si ammirano sei grandi dipinti di Alonso Cano, che hanno fama di essere l’opera sua più completa e più bella.

E poichè ho nominato Alonso Cano, nativo di Granata, uno dei più valenti pittori spagnuoli del secolo decimosettimo, che sebbene discepolo della scuola sivigliana piuttosto che fondatore, come altri vorrebbe, d’una scuola sua, non è meno originale dei suoi più grandi contemporanei; voglio metter qui alcuni tratti della sua indole e della sua vita, poco conosciuti fuori di Spagna, ma singolarmente notevoli. Alonso Cano fu il più accattabrighe, il più iroso, il più violento dei pittori spagnuoli. Passò la vita litigando. Era ecclesiastico. Dal 1652 al 1658, per sei anni consecutivi, senza un giorno d’interruzione, litigò coi canonici della cattedrale di Granata, della quale egli era ragioniere, perchè non voleva, giusta i patti stipulati, diventare suddiacono. Prima di partire da Granata, spezzò colle sue mani una statua di sant’Antonio da Padova, che aveva fatto egli stesso d’incarico d’un auditore della Cancelleria, perchè costui si permise di osservargli che il prezzo che gliene domandava gli pareva un po’ caro. Nominato maestro di disegno del principe reale, che, a quanto pare, non era nato col bernoccolo della pittura, lo aspreggiò in tal maniera, che lo costrinse a ricorrere al Re per esser levato dalle sue mani. Rimandato, per una grazia speciale, a Granata, presso il Capitolo della cattedrale, serbò così profondo il rancore degli antichi suoi litigi con quei canonici, che in vita sua non volle più dare una pennellata per loro. Ma questo è poco. Nutriva un cieco, bestiale, inestinguibile odio contro gli ebrei, e s’era ficcato in capo che il toccare in qualunque modo un ebreo o un qualsiasi oggetto stato toccato da lui, gli dovesse recare sventura. Con questa fissazione fece le più strampalate stravaganze del mondo. Se passando per la strada urtava in un ebreo, si levava issofatto il vestito infetto, e tornava a casa in maniche di camicia. Se per caso riusciva a scoprire che, lui assente, un servitore aveva ricevuto un ebreo in casa sua, cacciava il servitore, buttava via le scarpe colle quali aveva premuto l’impiantito profanato dal circonciso, faceva disfare e rifare, qualche volta, persino l’impiantito. E trovò modo di litigare anche morendo. Essendo ridotto in fin di vita, e presentandogli il confessore un crocifissaccio fatto coll’accétta perchè lo baciasse, egli lo spinse in là colla mano, e disse: — Padre, datemi una croce nuda, perchè io possa venerare Gesù Cristo come egli è in sè e come io lo contemplo nella mia mente. — Con tutto ciò, aveva un cuore eletto, caritatevole, abborriva da ogni volgare azione, ed amava di profondo e purissimo amore l’arte in che si rese immortale.

Tornando alla chiesa, quando ebbi fatto il giro di tutte le cappelle e mi disponevo ad uscire, mi colse il sospetto che qualcosa mi rimanesse ancora a vedere. Non avevo letto la Guida e nessuno m’aveva detto nulla; ma io mi sentivo dentro una voce che mi diceva: — Cerca! — e cercavo infatti cogli occhi da tutte le parti senza saper che cercassi. Un cicerone mi osservò, mi si avvicinò, come fanno tutti, di sbieco, come un assassino, e mi domandò con aria di mistero: "Quiere Usted algo?" (Vuol qualche cosa?)

"Vorrei," risposi, "che mi diceste se c’è altro da vedere in questa cattedrale, oltre a quello che si vede di qui!"

"Cómo!" esclamò il cicerone, "todavia no ha visto Usted la capilla real?"

"Che c’è nella cappella reale?"

"Que hay? Caramba! Nada ménos que los sepulcros de Ferdinando é Isabel la Católica!"

Volevo dire! Avevo nella mente il posto preparato per questa idea, e l’idea non c’era! I re cattolici dovevano ben essere sepolti a Granata, dove combatterono l’ultima gran guerra cavalleresca del medio evo, e dove diedero a Cristoforo Colombo l’incarico di armare le navi che lo condussero al nuovo mondo! Corsi, più che non andai, alla Cappella reale, preceduto dal cicerone zoppicante; un vecchio sacrestano ci aperse la porta della sacristia, e prima di lasciarmi entrare a veder le tombe, mi condusse davanti a una specie d’armadio a vetri, ripieno di oggetti preziosi, e mi disse:

"Lei saprà che Isabella la Cattolica per fornire a Cristoforo Colombo il denaro che gli occorreva ad armare le navi per il suo viaggio, non sapendo dove trovarne, perchè le casse dello Stato eran vuote, mise in pegno le sue gioie."

"Sì; ebbene?" domandai con impeto, e prevedendo la risposta, mi sentivo battere il cuore.

"Ebbene," rispose il sacrestano; "la scatola nella quale la Regina chiuse le sue gioie per farle impegnare, è questa."

E così dicendo aperse l’armadio, prese la scatola e me la porse.

Oh! dicano un po’ quello che vogliono gli uomini forti; per me, quelle son cose che mi fanno tremare e piangere! Ho toccata la scatola che contenne i tesori pei quali Colombo potè scoprire l’America! Ogni volta che ripeto queste parole, il sangue mi si rimescola! E soggiungo: — L’ho toccata con queste mani, — e mi guardo le mani.

Quell’armadio contiene ancora la spada di re Ferdinando, la corona e lo scettro d’Isabella, un messale e parecchi altri ornamenti del re e della regina.

Entrammo nella Cappella, fra l’altare e una gran cancellata di ferro che lo separa dallo spazio rimanente, davanti a due grandi mausolei marmorei, ornati di statuette e di bassorilievi di gran pregio, sull’un dei quali sono stese le statue di Ferdinando e d’Isabella, vestiti dei loro abiti reali, colla corona, la spada e lo scettro; sull’altro, le statue di altri due principi di Spagna; e intorno alle statue, leoni, angeli, stemmi, ed ornamenti svariati, che presentano un aspetto regalmente austero e magnifico.

Il sacrestano accese una fiaccola e accennandomi una specie di botola, situata in dirittura della corsia che separa i due mausolei, mi pregò di alzare il coperchio per scendere nel sotterraneo. Il cicerone m’aiutò, scoprimmo la botola, il sacrestano scese, e io gli tenni dietro giù per una scaletta angusta fino a una piccola stanza sotterranea, nella quale eran cinque casse di piombo, cerchiate di ferro, ciascuna segnata di due iniziali sormontate da una corona. Il sacrestano abbassò la fiaccola, e toccandole con una mano, l’una dopo l’altra, tutte e cinque, mi disse con voce lenta e solenne:

"Qui riposa la gran regina Isabella la Cattolica."

"Qui riposa il gran re Ferdinando V."

"Qui riposa il re Filippo I."

"Qui riposa la regina Giovanna la pazza."

"Qui riposa donna Maria, sua figliuola, morta nell’età di nove anni."

"Dio li abbia tutti nella sua santa pace!"

E piantato la fiaccola in terra, incrociò le braccia e chiuse gli occhi, come per darmi agio di fare le mie meditazioni.


Ci sarebbe da aggobbire a tavolino, chi volesse descrivere tutti i monumenti religiosi di Granata: la stupenda Certosa, il Monte-Sacro che racchiude le grotte dei martiri, la chiesa di San Geronimo dove è sepolto il gran capitano Consalvo di Cordova, il convento di Santo Domingo fondato dall’Inquisitore Torquemada, quello dell’Angelo che contiene pitture del Cano e del Murillo, ed altri molti; ma io suppongo che chi legge sia già assai più stanco di me, e però gli faccio grazia di un monte di descrizioni che probabilmente non gli darebbero che una idea assai confusa delle cose.

Ma poichè ho nominato il sepolcro del gran capitano Consalvo di Cordova, non posso trattenermi dal tradurre un curioso documento che a lui si riferisce, e che mi fu dato appunto nella chiesa di San Geronimo da un sacrestano ammiratore delle gesta di quell’eroe.

Il documento è redatto a modo di aneddoto nei termini seguenti.

«Ogni passo del gran Capitano, Don Gonzalo di Cordova, fu un assalto, ed ogni assalto una vittoria; il suo sepolcro nel convento dei Geronimi di Granata, fu adornato di dugento bandiere conquistate da lui. I suoi emuli invidiosi, ed in particolar modo i Tesorieri nel regno di Napoli, nel 1506, indussero il Re a chieder conto a Gonzalo dell’uso che aveva fatto delle grandi somme ricevute dalla Spagna per le spese della guerra in Italia; e in fatti il Re fu tanto piccino da acconsentire ed anco assistere all’atto della conferencia.

Gonzalo accolse quella domanda con altissimo disprezzo, e si propose di dare una severa lezione ai Tesorieri ed al Re, intorno al modo di trattare e considerare un conquistatore di Regni.

Rispose con grande indifferenza e serenità che avrebbe preparato i conti per il giorno seguente, e fatto vedere chi dei due fosse il debitore, se lui o il fisco: il quale reclamava centotrenta mila ducati rimessigli per prima rata; ottanta mila scudi per la seconda, tre milioni per la terza, undici milioni per la quarta, tredici per la quinta; e così seguitava a riferire il grave, gangoso (dalla voce nasale) e scimunito segretario che autorizzava un atto così importante.

Il gran Gonzalo mantenne la sua parola; si presentò alla seconda udienza, e tirato fuori il voluminoso libro nel quale aveva notate le sue giustificazioni, cominciò a leggere a voce alta e sonora le seguenti parole:

«Ducento mila settecento trentasei ducati e nove reali ai frati, alle monache e ai poveri, affinchè pregassero Dio per il trionfo delle armi spagnuole.

Cento milioni in pale, zappe e picconi.

Cento mila ducati in polvere e palle.

Dieci mila ducati in guanti profumati per preservare i soldati dal puzzo dei cadaveri dei nemici stesi sul campo di battaglia.

Centosettanta mila ducati per rifare campane distrutte dal continuo sonare per sempre nuove vittorie riportate sopra i nemici.

Cinquanta mila ducati in acquavite per i soldati in una giornata di battaglia.

Un milione e mezzo di ducati per mantenere prigionieri e feriti.

Un milione in messe di grazia e Te Deum all’Onnipossente.

Trecento milioni di suffragi pei morti.

Settecento mila quattrocento novantaquattro ducati in spie e.....

Cento milioni per la pazienza che ho mostrato ieri all’udire che il Re domandava dei conti a chi gli ha regalato un Regno.

Questi sono i celebri conti del grande Capitano, i cui originali stanno nelle mani del Conte di Altimira.

Uno dei conti originali con la firma autografa del gran Capitano esiste nel Museo militare di Londra, dove con gran cura vien custodito.»


Letto questo documento, tornai all’albergo facendo tra Consalvo di Cordova e i generali spagnuoli dei nostri tempi dei maligni raffronti, che alta ragion di stato, come si dice nelle tragedie, mi vieta di riferire.

In quell’albergo ne vedevo ogni giorno una nuova. V’eran molti studenti d’università venuti da Malaga e da altre città dell’Andalusia per dar l’esame di laurea a Granata, non so se perchè qui fossero di manica più larga, o per che altra ragione. Desinavan tutti alla tavola rotonda. Una mattina, a colezione, uno d’essi, un giovanetto di poco più di vent’anni, annunziò che alle due dopo mezzogiorno doveva dar l’esame di diritto canonico, e che non essendo molto sicuro del fatto suo, aveva deciso di bere un bicchier di vino, per rinfrescarsi le sorgenti dell’eloquenza. Non uso a bere che vino annacquato, commise l’imprudenza di vuotare d’un sol fiato un bicchiere di vino di Jerez. Il suo viso si alterò all’istante in così strana maniera, che se non avessi visto il cangiamento coi miei occhi, avrei creduto che non fosse più il viso di prima.

— Ora basta! — gli gridaron gli amici.

Ma il giovane, che si sentiva diventato tutt’a un tratto forte, ardente e temerario, lanciò ai compagni uno sguardo compassionevole, e ordinò con un atto maestoso al cameriere di versargli un altro bicchiere.

— Ti ubriacherai! — gli dissero.

Per tutta risposta, egli mandò giù il secondo bicchiere.

Allora gli prese una parlantina meravigliosa. A tavola v’era una ventina di persone, in pochi minuti attaccò discorso con tutti, e fece mille rivelazioni sulla sua vita passata e sui suoi disegni per l’avvenire. Disse che era di Cadice, che aveva ottomila lire di rendita all’anno, e voleva darsi alla carriera diplomatica, perchè con quella rendita, aggiuntovi qualcosa che gli avrebbe lasciato un suo zio, poteva fare una buona figura dove si sia; che aveva stabilito di pigliar moglie a trent’anni, e di sposare una donna alta come lui, perchè, a suo avviso, la moglie doveva avere la stessa statura del marito, per evitare che l’uno o l’altro pigliasse il di su; che quando era ragazzo s’era innamorato della figliuola d’un console americano, bella come un fiore e soda come una pina, ma con una voglia rossa dietro un orecchio, che stava molto male, benchè essa la sapesse coprire assai bene colla mantiglia, e faceva veder colla salvietta in che modo la copriva; e che Don Amedeo era un uomo troppo ingenuo per poter riuscire a governar la Spagna; e che fra il poeta Zorilla e il poeta Espronceda, egli avea sempre preferito l’Espronceda; e che ceder Cuba all’America era una corbelleria, e che dell’esame di diritto canonico egli se ne rideva, e che voleva bere altre quattro dita di vino di Jerez, che era il primo vino d’Europa.

Bevve il terzo bicchiere, malgrado i buoni consigli e le disapprovazioni degli amici, e dopo aver cicalato un altro po’ in mezzo alle risa dell’uditorio, all’improvviso tacque, guardò fisso fisso una signora che aveva dirimpetto, abbassò la testa e s’addormentò. Io credetti che per quel giorno non si sarebbe presentato all’esame; ma m’ingannai. Un’oretta dopo lo svegliarono, andò su a lavarsi il viso, corse all’Università ancora tutto assonnato, diede l’esame, e fu promosso a maggior gloria del vino di Jerez e della diplomazia spagnuola.


I giorni seguenti gl’impiegai a vedere i monumenti, o per dir meglio, le rovine dei monumenti arabi che, oltre all’Alhambra e al Generalife, attestano l’antico splendore di Granata. Poichè fu l’ultimo baluardo dell’Islam, Granata è fra le città di Spagna quella che ne serbò più numerosi ricordi. Sulla collina che si chiama di Dinadamar (fonte delle lagrime), si vedono ancora le rovine di quattro torri, che s’innalzavano ai quattro angoli d’una grande cisterna, nella quale affluivano dalla Sierra le acque che servivano agli usi della parte più alta della città. Là eran bagni, giardini e ville, delle quali non rimane più traccia, e di là si abbracciava con un colpo d’occhio la città coi suoi minareti, colle sue terrazze, colle sue moschee biancheggianti in mezzo alle palme e ai cipressi. Là presso si vede ancora una porta araba, chiamata porta d’Elvira, formata da un grande arco coronato di merli. Più oltre rovine di palazzi di Califfi. Presso il passeggio l’Alameda, una torre quadrata, con entro una gran sala ornata di quelle solite iscrizioni arabe. Presso il Convento di San Domingo, resti di giardini e di palazzi che erano una volta congiunti all’Alhambra per mezzo d’una via sotterranea. Dentro la città, l’Alcaiceria, mercato arabo quasi intatto, formato di parecchie stradine diritte e strette come corridoi, fiancheggiate da due file di botteghe l'una unita all'altra, che presentano uno strano aspetto di bazar asiatico. Infine, non si può far un passo per Granata, che non s'incontri un arco, un arabesco, una colonna, un mucchio di pietre che rammenta il suo fantastico passato di Sultana.

Quanti giri e rigiri non feci per quelle strade tortuose, nelle ore più calde della giornata, sotto un sole che mi scottava il cervello, senza incontrare anima nata! Anche a Granata, come nelle altre città d'Andalusia, la gente non si fa viva che la notte; e la notte si rifà della prigionia del dì, affollandosi e rimescolandosi sui passeggi pubblici colla fretta e la furia d'una moltitudine, una metà della quale cercasse l'altra metà per affari urgenti. La folla più fitta è all'Alameda; e però passai all'Alameda le mie serate, col Gongora che mi parlava di monumenti arabi, con un giornalista che mi parlava di politica, con un altro giovanotto che mi parlava di donne, non di rado tutti e tre insieme, con mio piacere infinito, perchè quella gazzarra da scolaretti, a tempo e luogo, mi rinfresca l'anima, come fa all'erba (per rubare una bella similitudine) quella pioggerella estiva che cade con affrettato moto come di trepida gioia.

Se avessi da dire qualcosa del popolo di Granata, mi troverei impacciato perchè non l'ho visto. Di giorno, per le strade, non incontravo nessuno; di notte non ci si vedeva; non v'eran teatri aperti; quando avrei potuto trovar qualcuno in città, ciondolavo per le sale o per i viali dell’Alhambra; e poi avevo tanto da fare per veder ogni cosa nello spazio di tempo che m’ero prefisso, che non mi restavan nemmen dei ritagli per intavolar conversazione, come feci nelle altre città, in mezzo alle strade e nei caffè, coi popolani in cui m’imbattevo.

Ma per quanto seppi da chi era in grado di darmi delle notizie sicure, il popolo di Granata non gode d’una eccellente riputazione in Spagna. Si dice che è maligno, violento, vendicativo, accoltellatore, il che non è punto smentito dalle cronache cittadine delle gazzette; e non si dice, ma si sa che in Granata l’istruzione popolare è anche più bassa che a Siviglia, e che in altre città spagnuole di minor conto; e che, in generale, tutte le cose che non posson esser fatte dal sole e dalla terra, che ne fanno pur tante, vanno alla peggio, o per indolenza, o per ignoranza, o per confusione. Granata non è congiunta dalla strada ferrata a nessuna città importante, vive sola, in mezzo ai suoi giardini, dentro la cerchia delle sue montagne, lieta dei frutti che la terra le produce sotto la mano, cullandosi mollemente nella vanità della sua bellezza e nell’orgoglio della sua storia, oziando, sonnecchiando, fantasticando, e contentandosi di rispondere, con uno sbadiglio, a chi le rimprovera il suo stato: — Io diedi alla Spagna il pittore Alonso Cano, il poeta Luigi di Leon, lo storico Ferdinando del Castillo, l’orator sacro Luigi di Granata, il ministro Martinez della Rosa; ho pagato il mio debito; lasciatemi in pace; — che è la risposta che fan quasi tutte le città meridionali della Spagna, troppo più belle, ahimè! che saggie e operose; e troppo più altere che civili. Ah! chi le ha vedute, non può mai stancarsi di esclamare: — Peccato!


— Ora che ha visto tutte le meraviglie dell’arte araba e della vegetazione tropicale, le resta a vedere, perchè possa dire di conoscer Granata, il borgo dell’Albaicin. Prepari l’animo a un mondo nuovo, metta la mano sul portamonete e mi segua. —

Così mi disse il Gongora l’ultima sera del mio soggiorno a Granata. Era con noi un giornalista repubblicano, di nome Melchiorre Almago, direttore dell’Idea, un giovanotto simpatico e gentile, che per accompagnarci sacrificò il desinare e un articolo di fondo che andava ruminando fin dalla mattina. Ci mettemmo in cammino, arrivammo fino alla piazza dell’Audiencia. Là il Gongora mi accennò una viuzza tortuosa che va su per un colle, e mi disse: — Qui comincia l’Albaicin; — e il signor Melchiorre toccando una casa col bastone, soggiunse: — Qui comincia il territorio della repubblica. —

Infilammo la viuzza, passammo da quella in un’altra, da questa in una terza, sempre salendo, senza ch’io vedessi nulla di straordinario, per quanto guardassi curiosamente da tutte le parti. Strade strette, case meschine, vecchie addormentate sugli scalini delle porte, mamme che spidocchian bambini, cani che sbadigliano, galli che cantano e ragazzi cenciosi che corrono e schiamazzano, e altre cose che si vedono in tutti i sobborghi; in quelle strade non c’era nulla di più. Sennonchè, via via che salivamo, l’aspetto delle case e della gente s’andava mutando: i tetti più bassi, le finestre più rade, le porte più piccine, gli abitanti più cenciosi. Nel mezzo d’ogni strada correva un rigagnolo dentro un letto in muratura all’uso arabo; qua e là, sopra le porte e intorno alle finestre, si vedevano resti di arabeschi e frammenti di colonnine; negli angoli delle piazze, fontane e pozzi del tempo della dominazione dei Mori. Ad ogni centinaio di passi che si faceva, pareva di tornar addietro di cinquant’anni verso l’età dei Califfi. I miei due compagni mi toccavano tratto tratto col gomito dicendo: — Guardi quella vecchia — Guardi quella bambina — Guardi quell’uomo. — Ed io guardavo e dimandavo: — Che gente è questa? — Se mi fossi trovato là all’improvviso, avrei creduto, al veder quegli uomini e quelle donne, di essere in un villaggio dell’Affrica; tanto i visi, il vestire, il modo di muoversi, di parlare, di guardare, — a così breve distanza dal centro di Granata, — eran diversi da quelli della gente che avevo vista fino allora. Ad ogni svoltata, mi fermavo per guardare in volto i miei compagni, e questi mi dicevano: — Questo non è nulla; qui siamo nella parte civile dell’Albaicin; questo è il quartiere parigino del sobborgo; andiamo oltre.

Andammo oltre; le strade parevan letti di torrenti, sentieri scavati nelle roccie, tutte rialzi, fossi, scoscendimenti, macigni; alcune ripide da non poterci salire un mulo, altre strette da passarci un uomo a stento; quali ingombre di donne e di fanciulli seduti in terra; quali erbose e deserte e tutte d'un aspetto squallido, selvaggio, strano, del quale non potrebbe fornire neanco un'immagine il più meschino dei nostri villaggi, perchè quella è una miseria che serba l'impronta d'un'altra razza e i colori d'un altro continente. Girammo per un labirinto di strade, passando di tempo in tempo sotto un grande arco arabo o per un'alta piazzuola dalla quale si abbracciava con uno sguardo la valle immensa, i monti coperti di neve e una parte della città sottoposta, e arrivammo alla fine in una strada più sassosa e più angusta di quante s'eran viste fino allora, nella quale ci arrestammo per pigliar fiato.

— Qui — mi disse il giovane archeologo — comincia il vero Albaicin. Guardi quella casa! — Guardai; era una casa bassa, affumicata, mezzo rovinata, con una porta che pareva la finestra d'una cantina, dinanzi alla quale si vedeva movere sotto un ammasso di cenci, un gruppo, o piuttosto un mucchio di vecchie e di bambini, che al nostro apparire alzarono gli occhi pieni di sonno e colle mani scarne tolsero di sulla soglia non so quali immondizie che impedivano il passo.

"Entriamo," disse l'amico.

"Entrare?" domandai.

Se m'avessero detto che di là da quel muro v'era un quissimile della famosa Corte dei Miracoli che descrisse Vittor Hugo, non avrei esitato a credere. Nessuna porta m'aveva mai detto più imperiosamente di quella: — Allontanati. — Non saprei trovarle miglior paragone di quello della bocca spalancata d’una gigantesca strega, che mandasse un alito pregno di miasmi pestilenziali. Ma mi feci coraggio ed entrai.

Oh meraviglia! Era il cortile d’una casa araba, cinto di colonnine graziose, sormontato da archi leggerissimi, con quegli indescrivibili ricami dell’Alhambra intorno alle porticine e alle finestrine binate, colle travi e gli assiti del soffitto scolpiti e coloriti, colle nicchiette per i vasi dei fiori e le urne dei profumi, col bagno nel mezzo, con tutte le traccie e i ricordi della deliziosa vita d’una famiglia opulenta! E in quella casa abitava quella povera gente!

Uscimmo, entrammo in altre case, in tutte trovai qualche frammento d’architettura e di scultura araba. Il Gongora mi diceva di tratto in tratto: — Qui c’era un Harem — Là i bagni delle donne — Lassù la stanzina d’una favorita; — e io figgevo gli occhi avidi su tutti i pezzi di muro rabescato e su tutte le colonnine delle finestre, come per domandar loro la rivelazione di qualche segreto, un nome, una parola magica colla quale potessi ricostrurre in un istante l’edifizio rovinato ed evocare le belle arabe che ci eran vissute. Ma ahimè! in mezzo alle colonne e sotto gli archi delle finestrine non si vedevano che cenci e visi rugosi!

Fra le altre case, entrammo in una dove trovammo un gruppo di ragazze che cucivano all’ombra d’un albero del cortile, sorvegliate da una vecchia. Lavoravano tutte intorno a una gran pezza di panno a striscie nere e bigie, che mi parve un tappeto o una coperta da letto. Mi avvicinai e domandai a una delle cucitrici: "Que es esto?"

Alzaron tutte la testa e con un movimento concorde spiegarono il panno in modo che potessi veder bene il loro lavoro. L’avevo appena visto, che gridai: — "Lo compro."

Si misero tutte a ridere. Era un mantello da montanaro andaluso, fatto per portarsi a cavallo, della forma d’un rettangolo, con un’apertura nel mezzo per farci passar la testa, ricamato in lana di vivi colori lungo i due lati più corti, e intorno all’apertura. Il disegno dei ricami che rappresentano uccelli e fiori fantastici, verdi, azzurri, bianchi, rossi e gialli, tutti in un mucchio, è rozzo, come lo potrebbe fare un bambino; la bellezza del lavoro è tutta nella veramente meravigliosa armonia dei colori. Non saprei esprimere la sensazione che produce la vista di quel mantello, se non dicendo che ride, e che desta allegrezza; e che mi pare impossibile l’immaginare nulla di più gaio, di più festivo, di più fanciullescamente e graziosamente capriccioso. È una cosa da guardare quando s’è di malumore per rasserenarsi, o quando si vuol scrivere una strofa gentile per l’albo d’una signora, o quando s’aspetta una persona che si vuol ricevere col più piacevole dei nostri sorrisi.

"Quando saranno finiti questi ricami?" domandai a una delle ragazze.

"Hoy mismo," (oggi stesso) risposero tutte in coro.

"E quanto vale questo mantello?"

"Cinco...." balbettò una.

La vecchia la fulminò con un'occhiata che voleva dire: — Citrulla! — e rispose in fretta: "Seis duros."

Sei duros sono trenta lire; non mi parve molto; e misi la mano al portamonete.

Il Gongora slanciandomi uno sguardo che voleva dire: — Minchione, — e trattenendomi pel braccio disse: "Un momento! Seis duros sono uno sproposito!"

La vecchia gli lanciò un'altra occhiata che voleva dire: — Brigante! — e rispose: "Non posso darlo a meno."

Il Gongora le diede un altro sguardo che voleva dire: — Bugiarda; — e disse: "Andiamo, lo potete dare a quattro duros; alla gente del paese non chiedete di più."

La vecchia insistè, e continuammo per un po' a scambiarci cogli occhi i titoli di minchione, di gabbamondo, di guastamestieri, di bugiardo, di avaro, di sciupone, finchè il mantello mi fu dato per cinque duros; pagai, lasciai il mio indirizzo, ed uscimmo benedetti e raccomandati a Dio dalla vecchia, e seguiti per un buon tratto dai grandi occhi neri delle ricamatrici.

E continuammo ad andare di strada in strada, in mezzo a case di più in più meschine, a visi di più in più neri, a cenci di più in più luridi. E non s'arrivava mai alla fine, e io dicevo ai miei compagni: "Mi fanno la finezza di dirmi se Granata ha dei confini, e dove li ha? Si può sapere dove andiamo, e come si farà per tornare a casa?" e i miei compagni ridevano e tiravano innanzi.

"O che c'è da vedere ancora qualcosa di più strano?" dimandai a un certo punto.

"Di più strano?" mi rispose un dei due: "Ma questa seconda parte del borgo che lei ha veduta appartiene ancora alla civiltà; è il quartiere se non parigino almeno madrileno dell'Albaicin; e c'è ben altro; andiamo oltre."

Si percorse una lunghissima strada sparsa di donne appena vestite che ci guardavano come gente piovuta dalla luna; si attraversò una piazzetta piena di bambini e maiali amichevolmente confusi; si passò per altre due o tre stradicciuole, ora salendo, ora scendendo, ora in mezzo alle case, ora in mezzo alle macerie, ora tra gli alberi, ora tra le roccie, e si arrivò finalmente in un luogo solitario, sul fianco d'una collina, di dove si vedeva, in faccia il Generalife; a destra l'Alhambra; sotto, una valle profonda coperta d'un foltissimo bosco.

Cominciava a imbrunire, non si vedeva nessuno, non si sentiva una voce.

"Qui finisce il borgo?" domandai.

I due compagni risero e mi dissero: "Guardi da quella parte."

Mi voltai e vidi lungo una strada che si perdeva nel bosco lontano, una sterminata fila di case... di case? di tane scavate nella terra, con un po' di muro dinanzi, con buchi per finestre e screpolature per porte, e piante selvatiche d’ogni specie di sopra e dai lati; veri covi di belve, nei quali, al chiarore di lumicini appena visibili, formicolavano i gitani a centinaia; un popolo brulicante nelle viscere del monte, più povero, più nero, più selvaggio di quello visto fino allora; un’altra città, sconosciuta alla maggior parte dei Granatini, inaccessibile agli agenti della polizia, chiusa agli impiegati del censimento, ignara d’ogni legge e d’ogni governo, vivente non si sa come, numerosa non si sa quanto, straniera alla città, alla Spagna, alla civiltà moderna, con linguaggio e statuti ed usi proprii, superstiziosa, falsa, ladra, accattona, feroce.

"S’abbottoni il soprabito e badi all’orologio," mi disse il Gongora; "e andiamo avanti."

Non avevamo fatto cento passi quando un ragazzo seminudo, nero come le pareti del suo tugurio, ci scorse, gettò un grido, e facendo cenno ad altri ragazzi che lo seguissero, si slanciò verso di noi; dietro i ragazzi accorsero le donne; dietro le donne, gli uomini; e poi vecchie e vecchi e altri bambini; e in men che non si dice fummo circondati da una folla. I miei due amici, riconosciuti come Granatini, riuscirono a mettersi in salvo; rimasi io solo nelle péste. Mi pare di vedere ancora quei ceffi, di udire ancora quelle voci, di sentirmi ancora addosso quelle mani. Gesticolando, gridando, dicendo mille cose che io non capivo, tirandomi per le falde, pel panciotto, per le maniche, mi si stringevano addosso come un branco d’affamati, mi alitavan nel viso, mi mozzavano il respiro. Eran la più parte seminudi, macilenti, colle camicie che cadevano a brani, coi capelli scarmigliati e polverosi, orribili a vedersi; mi pareva d’esser Don Rodrigo in mezzo alla folla degli appestati in quel famoso sogno della notte d’agosto. Che vuole questa gente? mi domandavo; dove mi son lasciato condurre? Come uscirò di qui? Provavo quasi un senso di paura e guardavo intorno con inquietudine. A poco a poco cominciai a capir qualcosa.

— Io ho una piaga in una spalla, — mi diceva uno; — non posso lavorare; mi dia qualche soldo.

— Io ho una gamba rotta, — diceva un altro.

— Io ho un braccio paralitico.

— Io ho fatto una lunga malattia.

Un cuarto, señorito!

Un real, caballero!

Una peceta para todos!

Quest’ultima voce fu accolta con un grido generale d’approvazione: — Una peceta para todos! (Una lira per tutti).

Tirai fuori, con un po’ di trepidazione, il portamonete; tutti si alzarono sulla punta dei piedi; i più vicini ci misero il mento dentro; quei di dietro misero il mento sulla testa dei primi; i più lontani stesero le braccia.

"Un momento," gridai; "chi è fra tutti voi altri colui che ha più autorità?"

Tutti ad una voce, tendendo le braccia verso una sola persona, mi risposero: "Esta!"

Era una spaventevole vecchia tutta naso e tutta mento, con un gran ciuffo di capelli bianchi ritto sul capo a modo di pennacchio, con una bocca che pareva la buca delle lettere, con poco più d’una camicia addosso, nera, incartapecorita, mummificata; la quale mi si avvicinò inchinandosi e sorridendo, e tendendo le mani per afferrare le mie.

"Che volete?" domandai facendo un passo indietro.

"La ventura!" gridarono tutti.

"Ditemi dunque la ventura," risposi tendendo la mano.

La vecchia strinse fra le sue dieci, non dico dita, ma ossi informi, la mia povera mano, vi posò su il suo naso aguzzo, rialzò il capo, mi guardò fisso, appuntò il dito verso di me, e dondolandosi e fermandosi ad ogni frase, come se recitasse delle strofette, mi disse con accento ispirato:

Tu has nacido en un dia señalado. — (Tu sei nato in un giorno segnalato.)

Y el dia que morirás será un dia señalado tambien. — (E il giorno che morirai sarà pure un giorno segnalato.)

Tu tienes un caudal asombroso. — (Possiedi ricchezze spaventose.)

Qui borbottò non so che d’amanti, di matrimonio, di felicità, onde capii che supponeva ch’io fossi ammogliato, e poi soggiunse:

El dia que te casaste hubo en tu casa muchos dares y tomares. — (Il giorno che ti ammogliasti si fecero grandi feste in casa tua: vi furono molti dare e pigliare.)

Y otra se quedó llorando. — (E un’altra donna ne pianse.)

Y cuando tu la vees te se abren las alas del corazon. — (E quando tu la vedi ti si aprono le ali del cuore.)

E avanti su questo tenore, dicendo che avevo amanti e amici e tesori e gioie che m’aspettavano tutti i giorni dell’anno in tutti i paesi del mondo. Mentre la vecchia parlava, tutti tacevano, come se credessero che profetasse davvero. Chiuse finalmente la profezia con una formola di commiato, e chiuse la formola allargando le braccia e spiccando un salto in un atteggiamento di danza. Io diedi la peceta, e la folla proruppe in grida, in applausi, in canti, facendomi intorno mille strani gesti e salti, e salutandomi a spintoni e a colpi di mano sulla spalla come un vecchio amico, finchè, a forza di divincolarmi e di urtare ora l’uno ora l’altro, riuscii ad aprirmi un varco e a raggiungere gli amici. Ma un nuovo pericolo ci minacciava. La notizia dell’arrivo d’uno straniero s’era sparsa, le tribù s’erano mosse, la città dei gitani era tutta in rumore; dalle case vicine, dai tugurii lontani, dall’alto della collina, dal fondo della valle, accorrevano ragazzi, donne coi bimbi in collo, vecchi col bastone, storpi e malati impostori, profetesse settuagenarie che volevano dir la ventura; un esercito di pezzenti ci veniva addosso da ogni parte. Era notte; non c’era da esitare; pigliammo la corsa, come scolaretti, alla volta della città. Allora ci scoppiò alle spalle un gridío di casa del diavolo e i più lesti si misero ad inseguirci. Grazie al cielo, dopo una breve galoppata, ci trovammo al sicuro, stanchi, ansanti, coperti di polvere; ma salvi.

"A qualunque costo," mi disse ridendo il signor Melchiorre, "bisognava scappare; se no si sarebbe tornati a casa senza camicia."

"E noti," soggiunse il Gongora, "che non abbiamo veduto che le porte del borgo dei gitani; la parte civile; non si può dire il Parigi, nè il Madrid; ma almeno la Granata dell’Albaicin; se fossimo andati oltre! se lei avesse veduto il resto!"

"Ma quante migliaia sono questa gente?" domandai.

"Non si sa."

"In che modo vivono?"

"Non si capisce."

"Che autorità riconoscono?"

"Una sola: los reyes (i re), capi delle famiglie o delle case, quelli che hanno più danari e più anni. Essi non escon mai dal loro borgo, non sanno nulla, vivono al buio di tutto ciò che accade fuor della cerchia delle loro case. Le dinastie cadono, i governi si trasformano, gli eserciti si battono, ed è un miracolo se ne giunge la notizia fino al loro orecchio. Domandi loro se Isabella è ancora sul trono o no: non lo sanno. Domandi loro chi è Don Amedeo: non ne hanno mai inteso il nome. Nascono e muoiono come le mosche, e vivono come secoli fa, moltiplicandosi senza uscire dai propri confini; ignoranti e ignorati, non vedendo altro in tutta la loro vita fuor che la valle che s’apre sotto i loro piedi e l’Alhambra che torreggia sul loro capo."

Ripassammo per tutte le strade percorse prima, ora deserte ed oscure, e mi pareva che non finissero mai; e sali e scendi e svolta e gira e rigira; finalmente s’arrivò nella piazza dell'Audiencia, in mezzo alla città di Granata, nel mondo civile. Alla vista dei caffè e delle botteghe illuminate, provai un senso di piacere, come se fossi tornato alla vita cittadina dopo un anno di soggiorno in una landa disabitata.

La sera del dì dopo partii per Valenza. Mi ricordo che pochi momenti prima di partire, dovendo pagare il conto dell’albergo, osservai al padrone che nella nota c’era segnata una candela di più, e gli domandai ridendo: "Me la toglie?" Il padrone afferrò la penna, e togliendo venti centesimi dal totale della somma, rispose con voce che voleva parer commossa:

"Diavolo! fra Italiani!..."


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