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STORIA DI DONNA AUGUSTA
Rimasto vedovo con una figliuola di quindici anni, educanda in un convento, il conte Giorgione Dauli aveva, per tardo capriccio d’amore, già rovinando sulla cinquantina, sposata una giovine maestra di quel convento.
Novizia senza fede, destinata al chiostro dalla boriosa povertà della famiglia, la giovine maestra trovò gran ventura lasciare il soggolo per la contea.
Femmina di carnale magnificenza; con una nera testa dal profilo d’imperatrice romana, racchiudente un cervello di passera.
Nei primi tempi del matrimonio, il conte portò la sposa nell’avito palazzo di Lodi. E fu un gaudioso spendere e spandere, una fantasmagoria di ricevimenti e di balli, un passar da splendore a splendore: erano i tempi delle feste per l’incoronazione del Bonaparte, Primo Console, divenuto imperatore; e l’aristocrazia lombarda pareva invasa dalla follia della danza, del lusso e del piacere.
La contessa Francesca divenne incinta; ma non per questo (docile in apparenza alla volontà del marito) ella rinunziò ad una festa sola.
E avvenne talvolta che, scendendo in gran pompa di vesti lo scalone marmoreo del palazzo, mentre la berlina l’attendeva alla porta, ella venisse assalita dagli urti di stomaco naturali in ogni principio di gravidanza; e cercasse di curvarsi in avanti, per difendere il lussuoso càmice bianco di moda, costellato di diamanti. Ma il conte marito, implacabile, dall’alto della pancia boccaccesca, reggendola per un braccio, gridava:
— Diritta!... Diritta!... Per San Giorgio!... Diritta, contessa!... Il conte Dàuli ha denaro per altre vesti; ma il contino ha da nascer ben fatto!... Alta la testa, donna Francesca!...
E donna Francesca, obbedendo, vomitava nobilmente sul camice di raso bianco, costellato di diamanti.
Nacque, a suo tempo, un figlio che subito morì, con disperazione d’entrambi. Nacque, alcuni anni più tardi, Augusta.
La madre non l’amava. Amava, per inconcepibile anomalia, il figlio morto: lui soltanto. Un sordo rancore, pure inconcepibile, l’arrovellava contro il marito; quasi in lui fosse la causa della perdita del primogenito.
Augusta crebbe fra i pettegolezzi delle cameriere; fra la guardaroba, la cucina e la scuderia.
A sette anni fu pòsta in collegio; mentre la figliuola di primo letto del conte Giorgione, donna Sandra, andava sposa a un gentiluomo dei dintorni di Cremona.
E il conte e la contessa, con le sostanze dissanguate dal pazzo sperpero durato circa due lustri, si ritiravano in una villa cinta di poderi, a loro rimasta.
Essi ancor davano in buona fede il nome d’amore al più appassionato odio coniugale che potesse tenere avvinti una donna ed un uomo.
Rabbiose dispute, ad intervalli, scoppiavan fra i due; specie per questioni d’interesse. Alla fine di ognuna, assordato dalle isteriche invettive della moglie, il conte Giorgione andava disperatamente trascinando la sferica mole sulle corte gambe, per sale e corridoi; annodandosi sul capo, come a difesa, un fazzolettone di seta a scacchi gialli e rossi. La contessa Francesca si precipitava in giardino, scarmigliata; e, brandito un paio di cesoie da potatura, le agitava sui fiori e sui rami, gridando:
— Taglio!... Taglio!... Taglio il matrimonio!...
Nè le scene cessarono quando, compiuti i diciotto anni, donna Augusta tornò dal collegio.
Sarebbe poco il dire che donna Augusta era bella.
Tante donne son belle. Donna Augusta era la stessa bellezza.
Aveva ereditato la plasticità della madre e i suoi possenti capelli turchinicci; la carne perlacea e il lungo ovale dei Dauli; ma il segreto della sua venustà non era in questo; e nemmeno negli occhi troppo grandi e nella bocca troppo piccola.
Forse portava un anello incantato, al pari di certe principesse della favola.
Poco parlava: poco sorrideva.
Ignorante. Nell’istituto Garnier di Milano, il più aristocratico e il più di moda a’ quei tempi, ella non aveva, a dir vero, imparato che a danzare, a strisciare elegantissime riverenze, a muovere il capo ed il passo a guisa di una dea. Tanto, che il conte padre tratto tratto esclamava, levando al cielo le corte braccia di sileno:
— Ah, madame Garnier, i mèe danée!...
Ignorante. Ma chi la vedeva una volta, non la scordava più.
In fretta la fidanzarono al barone Otto di Löwenthal, ufficiale austriaco, di guarnigione a Cremona: ricchissimo.
Nessuno si domandò se ella gli volesse veramente bene. Si lasciò mettere al dito l’anello di promessa, festeggiare, coprir di preziosi doni, senza dir nulla, senza mai perdere quell’atteggiamento d’impassibile idolo, che tanto si addiceva alla sua bellezza.
Egli, sì; egli impazziva d’amore.
E quando l’improvvisa morte del padre lo richiamò a Vienna per regolare le complicazioni d’un’eredità quasi principesca, nel dire addio alla fidanzata sentì che il cuore gli si rompeva; ma, corretto fino allo scrupolo, nulla del suo spasimo lasciò travedere.
Sarebbe ritornato fra sei o sette mesi. Scriveva tutti i giorni. Sognava e soffriva di lei tutte le notti.
Donna Augusta intanto, a scacciar la tristezza, fu mandata dai genitori, come allora era costume, in «visita» per qualche settimana in una casa amica: del marchese Savelli, a Pontevico.
Era costui un gentiluomo, ammogliato e padre d’un grappolo di forti bambini: ancor giovine d’anni, prestante della persona e di modi cavallereschi. Si chiamava Arnoldo: schermidore e cacciatore formidabile. La sua villa era in quel tempo gioiosa d’ospiti. Quand’egli per caso si trovava accanto a donna Augusta, l’uguale impressione colpiva tutti i presenti sembravan fratelli.
Più che fratelli. Si può esserlo?... V’è un legame di consanguineità più stretto, pi misteriosamente tirannico? Fra quei due, certo esisteva. Se vicini l’uno all’altra, si trovassero pur fra mezzo ad una folla di gente, un muro invisibile li separava da ognuno. Un muro d’aria.
L’armonia tutta pienezza e calore delle forme di lei, il ritmo delle sue mosse, il significato delle sue poche parole e de’ suoi lunghi silenzi si adattavano a lui, si compenetravano e riposavano in lui, secondo una legge di natura più forte della ragione e della volontà.
A caccia, egli su un cavallo nero, ella su un cavallo bianco, audaci ambedue sino al più folle rischio, facevan ripensare ai centauri: tale era il loro aspetto di regale animalità, e così salda la loro aderenza alla groppa dei corsieri.
La Coppia: perfetta: intangibile: che a distanze di secoli la natura si compiace di creare — e l’uomo di distruggere.
Il marchese Savelli aveva la disgrazia di possedere una piccola moglie biondastra e pettegola, alla quale per il troppo chiacchierare a vanvera s’erano ingrossati i tendini del collo; e donna Augusta era fidanzata al barone di Löwenthal.
Ma nessuno dei due poteva ricordarsene, se gli accadeva di fissar gli occhi sull’altro.
Una notte furono uditi nella villa Savelli urli e pianti di donna subito soffocati, e sbatter di porte e strisciar di passi ne’ corridoi. Poscia, silenzio pesante: sospensione di vita, sino all’alba.
All’alba, una carrozza chiusa, carica anche delle valige di donna Augusta, riconduceva la contessina, accompagnata dalla sua cameriera, ai genitori.
Minute spiegazioni sul ritorno precipitato non chiesero costoro alla figliuola; si accontentarono di qualche pretesto inventato lì per lì, e che sapeva di pretesto un miglio lontano. Non ebbero, probabilmente, il coraggio di toccare il fondo, di pretendere la verità, dinanzi a quella impassibile faccia di marmo. Il rimorso, nella sua forma più oscura, più rudimentale, addentò forse loro, per un momento, la coscienza: trovaron più facile annullarlo con il silenzio.
E proseguirono nella loro esistenza crepuscolare, rotta dai soliti rumorosi litigi, dopo i quali il vecchio conte correva a ravvolgersi, bofonchiando, il calvo capo nel fazzolettone di seta a scacchi gialli e rossi, che la servitù chiamava «il fazzoletto delle baruffe»; e la contessa Francesca si gettava a zig-zag, scarmigliati e cadenti sulle spalle i capelli ancor neri, attraverso i viali del giardino, gridando, con un paio di cesoie da potatura brandito nella mano:
— Taglio!... Taglio!... Taglio il matrimonio!...
Spesso, in giardino, scendeva anche la fanciulla; ma sola, e quando era certa che nessuno la seguisse. E penetrava nel folto dei gruppi d’alberi e dei cespugli, e sceglieva e coglieva con ogni cura erbe delle quali, nella propria camera, componeva poi strane mescolanze, che inghiottiva di soppiatto, a ore fisse, mormorando giaculatorie e facendosi il segno della croce. E andava diventando del verde colore di quelle erbe, e il suo sguardo si smarriva sempre nel vuoto; ma non si lagnava mai; e a chi le chiedeva come si sentisse, rispondeva, aprendo di scatto la bocca ad un largo sorriso, suscitato dal tocco d’una molla interna:
— Io?... Benissimo.
Ma lo splendore dei denti spariva dietro le labbra subito risigillate.
Dei Savelli più nulla si sapeva, e nessuno più in casa ne parlava. A intervalli regolari giungevano appassionate lettere da Vienna, del barone di Löwenthal: due, tre insieme, talvolta: a più radi intervalli partivano per Vienna lettere di donna Augusta, brevi, quasi infantili, infiorate di qualche sgrammaticatura, simili a compitini di scuola.
Così trascorsero, alcuni mesi. Ma la cameriera di donna Augusta, aiutandola a vestirsi il mattino, a svestirsi la sera, cominciò a dirle con sommesso rispetto, che a fatica nascondeva un’inquieta pietà:
— Contessina, bisogna far allargare le cinture degli abiti. Diventiamo grasse, lo sa?..
Al che donna Augusta invariabilmente rispondeva, senza guardarla:
— Ma nemmen per sogno!... Tu sei matta, Marianì.
Non era matta, no, la fedele Marianì: ruminava tra sè, sospirando:
— Lo fossi davvero!... Ma se la contessina avesse un poco più di confidenza in questa povera scema che l’ha vista nascere, tante cose si potrebbero forse rimediare a tempo.
Ma quando la maggior figlia del conte Giorgione diede in Cremona, il sabato grasso, un grandioso ballo, per assistere al quale donna Augusta giunse appositamente dalla campagna con Marianì, — la vecchia seguace tentò invano, due ore prima che s’aprissero le danze, di allacciare in vita alla fanciulla i ganci della veste.
Un sogno era la veste: leggerissima, di velo rosa, a innumerevoli volanti, sparsi di capelvenere.
— Contessina, non si può. Qualche mese fa le andava a perfezione, se ne ricorda?... al ricevimento in casa Savelli a Pontevico. Ora non si può, non si può.
— Sì che si può. Si deve potere. Stringi, stringi, Marianì.
— Contessina, vuol morire?... vuol che sia proprio io ad ammazzarla?... L’ho vista nascere. L’ho tenuta in braccio quand’era piccola. E, nel tempo di quel tremendo tifo, notte e giorno non voleva che me. Sia buona, abbia confidenza in questa povera serva. È malata?... Non vede?... Le spezzo le costole se tiro di più...
— Stringi, stringi, Marianì.
Stringi e tira, tira e stringi, i gancetti alla fine combinarono, l’abito fu allacciato, e Marianì guardò con terrore, ritraendosi, l’opera propria, come si guarda uno strumento di tortura. Ma la contessina, quantunque fosse più bianca delle sue scarpine di raso, rideva trionfalmente, d’un riso che somigliava allo stridere di una lama su vetro.
— Ci sei riuscita o no?... brontolona d’una Marianì!...
E si fece appuntare un mazzo di gelsomini alla cintura, e una ghirlandetta degli stessi fiori sui capelli, così densi e lucidi da sembrar sostanza massiccia; mostrando di non accorgersi che le mani della vecchia tremavano.
Scese nelle sale.
Ballò.
Ballò con tutti, passando senza interruzione da un cavaliere all’altro, da una danza all’altra; stupenda bambola meccanica, che una mano invisibile caricava alla fine d’ogni giro. Tutti la videro sorridere, d’un fulgido sorriso fisso, che pareva dipinto: pochissimi l’udiron parlare. A tratti portava le mani alla cintura, forse per rimettere a posto il mazzo di gelsomini, scomposto dall’ansimo del danzare. Sempre pi pallida, sempre più pallida: bianca fin nelle labbra.
— Donna Augusta, vuole un’aranciata?...
— No, balliamo.
— Donna Augusta, è stanca?... Un po’ di riposo, nel salottino rosso, di là?...
— No, balliamo.
Sempre più pallida; ma con due sinistre zaffate di carminio sotto le occhiaie finchè, verso le tre del mattino, stramazzò, volteggiando in un valzer, fra le braccia del duca Visconti Arese; e venne portata via.
Nè la veste si potè slacciare. Distesa sul letto d’una delle più remote camere del palazzo, dove neppur giungeva l’eco delle danze, le si recise la stoffa sulla pelle; e il povero ventre torturato, tumefatto, ne balzò fuori, dilatandosi, nudo come una confessione.
Non parlava. Solo le usciva dalla strozza un lamento, intrattenibile, sempre l’uguale, — mugolio di bestia moribonda:
— Ahi. Ahi. Ahi.
E si capiva che, pur nello stato di spasimo incosciente in cui era caduta, ella avrebbe voluto soffocare anche quel lamento; ma non poteva.
Nulla trovò da dire, nè da fare, il medico di casa mandato a prendere nascostamente e penetrato per la porticina di servizio, come un ladro. Ella moriva perchè lo aveva voluto: nel proprio silenzio, nel proprio sangue moriva, e nel proprio amore: affogandovi.
E null’altro le uscì di bocca, se non la monotona sillaba che lacerava l’animo dei congiunti, di Marianì piegata in due sopra di lei:
— Ahi. Ahi. Ahi.
Verso la sera di quel giorno, anche quell’«ahi» le si impietrì sulle labbra. Ed ella rimase immobile.
Così donna Augusta passò di sua vita.
E con grande clamore la piansero il padre e la madre; e, quando seppe tutto, l’uccise dentro di sè, come se non fosse già morta, il barone di Löwenthal. Poi la dimenticarono.
Ma quella che subito le andò dietro, perchè senza di lei non poteva più vivere, fu la vecchia Marianì.
Gemito che viene dal mistero iniziale degli esseri, e da un altro mistero, la morte, è inghiottito: triplice gemito che non chiede aiuto, ma solo cerca di liberare la carne che soffre: la figlia di Vittoria se lo ritroverà nel cuore, se lo ritroverà sulla bocca, nelle ore di angoscia.
Con la vita, la madre le ha dato anche quel gemito: glielo ha messo nelle radici dell’anima.
Per se stessa, e per gli altri: per i propri dolori, e per tutti i dolori umani; di supremo spasimo, ma anche di supremo amore:
— Ahi, ahi, ahi.
Storie d’amore, sì. Storie, come questa, d’invincibile amore racconta serenamente l’operaia Vittoria alla figlia pensosa dei propri sedici anni. Non le sfiora nemmeno la mente il timore che le possano far del male. Per lei Dinin è sempre la miracolosa bambina che le seppe un giorno ripetere da capo a fondo le disgrazie della «Portatrice di pane», ascoltate, fingendo di dormire, dalla sua viva voce; che più tardi studiò con avida gioia la storia di Francia, nei romanzi cavallereschi di Alessandro Dumas padre; che lesse tutto lo Zola senza rimanerne lesa. Il cervello della figlia è, per lei, nettamente separato dalla carne debole e caduca. Deve, la figlia, tutto ascoltare, tutto vedere, tutto sapere. Farà grandi cose, forse, un giorno (così si compiace di pensare la madre), quella figliuola che non è uguale alle altre ragazze. Povera mamma vecchiagiovine: così giovine, che la fanciulla pare abbia vent’anni più di lei!...
E continua a raccontare.
Racconta bene, con pause e chiaroscuri d’inconscia sapienza, scolpendo le figure del suo ricordo con pochi tratti essenziali, illuminando all’improvviso certe scene con vivissime luci istantanee, frescando alla brava quadri d’insieme: guidata da un istinto d’arte che ignora di possedere, e morirà ignorato con lei.
E siccome ripete spesso le sue narrazioni, e ogni volta con nuova lucentezza e singolarità d’immagini, i paesi e le creature da lei evocate s’imprimono nei sensi della fanciulla, oltre che nella memoria, come luoghi dove ella abbia lungamente vissuto, consanguinei dei quali ella conosca ogni ruga del viso, ogni piega dell’animo.
Non udì ella cento volte la vuota risata di donna Emanuela, la patrizia tutta riccioli e capricci, che mutò cento amanti e non ne amò nessuno? Aveva uno strano intercalare, che frammetteva in ogni discorso, fissando l’aria e flautando la voce: «Stupendo, stuup!...». Altra al mondo non ebbe così piccoli piedi. Dalle sue folli peregrinazioni per l’Italia e per l’estero piombava talvolta, fugace rondine dalla finestra, nella casa del marito da lei diviso, per abbracciarvi i figliuoli con improvvisa, querula passione materna; mentre il marito, con una faccia di condannato a morte, si serrava a chiave nel proprio studio, per non strozzarla. Poi, cantarellando, rispariva. Non la vide ella morire, di schianto, per sincope, durante una cena d’ufficiali a Napoli, nel momento in cui alzava una coppa di sciampagna verso la fiamma d’un candelabro, invitando il suo ultimo amante a specchiarvisi?... I compagni di mensa, alticci, spruzzavan di sciampagna alla spirante il viso impiastricciato di belletto; le labbra scarlatte per il minio invocavano puerilmente, prima d’irrigidirsi per sempre: Caffè....
Non condusse ella vita comune con miss Vivien Hall, l’amica inglese del gentiluomo lombardo che in tempi eroici sacrificò alla patria gli averi, la libertà e la salute?... Miss Vivien Hall: ancor quasi bambina in confronto di lui: dinoccolata, acerba, con lunghe gambe di razza, leggeri capelli color paglia, che intrecciati sul capo parevan pochi e, sciolti, la ammantellavan tutta: occhi vuoti, due pezzi di cielo lavato dalla pioggia.
E cip-cip, e cip-cip: una passeretta: felice di vivere in un’antica villa con lo stemma sul portone, e d’avere ai suoi piedi un gentleman italiano, e anche di tenere un pollaio, una conigliera, una scuderia, dieci cani, un vivaio di pesci: rampiconi mezza la giornata su per gli alberi da frutto, con quelle lunghe gambe rischiose: sempre in movimento, pestando il pianoforte con la stessa alacrità che metteva nello slanciarsi in pazze corse a cavallo.
E un modo, un modo così carino di storpiare nel suo esotico linguaggio il nome dell’amico: Chis-tòo-fo?... Chis-tòo-fo?... — che don Cristoforo ne era ammaliato, e in quella magra levriera biondiccia s’illudeva di possedere il mondo.
Ma non era vero che la possedesse, perchè nessuno di noi è assoluto padrone di un altro. E un bel giorno la bizzarra inglese scomparve; e non fu più veduta scavallar per il parco e dar la scalata agli alberi, cinguettando a cavalcioni di un ramo: Chis-tòo-fo!...
Storie vive, storie umane, con l’attrattiva senza pari della verità. La Lampada d’Aladino, Cenerentola, La Bella nel bosco dormente non hanno interesse più vivido per la figlia di Vittoria, che in fondo non ama l’inverosimiglianza delle fiabe. Ma se fra tutte la più appassionante è quella di donna Augusta, la più dolce ad ascoltare è quella di donna Teodosia.