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Storia di donna Teodosia
Storia di donna Augusta

STORIA DI DONNA TEODOSIA

Donna Teodosia è ancor viva, ha la stessa età di Vittoria, condusse accanto a lei lieta esistenza nella villa di Robecco sull’Oglio, e nel palazzo di Lodi. Ora è maritata a un gran signore, in una città dell’Italia meridionale: madre di forti figli, dama d’alta pietà. Sommersa nella lontananza, ha certamente dimenticata l’umile compagna dell’infanzia e della prima giovinezza; ma quando l’operaia ne parla, è con il tenerissimo senso di nostalgia con cui si ricorda una sorella perduta.

Che fiore era donna Teodosia, a sedici anni!... Un fiore bruno.

Appena reduce dal collegio, chiusa in uno di quei casti abiti che usavano allora — collaretto candido, vita attillata, gonna a crinolina — con quel profilo color d’ambra chiara, di cammeo, ombrato da pesanti ciglia e da due cascate di riccioloni d’un nero che pur rideva di luce, a vederla per via non c’era uno che non si volgesse, abbagliato; ed ella chiedeva a chi le camminava accanto, morbida, con voce molle:

— Tutti mi guardano: sono bella?...

I suoi piedini non toccavano quasi la terra, e non si sarebbero mai feriti su pietre. Viva; ma a mezz’aria, sospesa ad un sogno; e assai men viva della vertiginosa figlioccia di Giuditta Grisi, ch’ella chiamava Vittoria-terremoto.

E timida; ma la compagna la trascinava:

— Niente paura, con me!...

E quanto correre e ridere e pettegolare e dar la baia a mezzo mondo; e innocente civettar dietro i cancelli del parco, con i giovinotti del paese!... Poi, i ballonzoli sulle aie e nei prati (niente orgogliosa, donna Teodosia): le burle al buon curato, e, per farsi perdonare, i fiori di carta e le tovaglie ricamate per l’altare della chiesa; e le notti bianche trascorse in giardino, serrate l’una all’altra, corpo ed anima nell’incanto del lume lunare e della giovinezza ebbra di sè!...

Poi, la guerra del cinquantanove. Solferino, San Martino. Le ambulanze. La villa patrizia trasformata in ospedale da campo, con medici, infermieri, gabinetti di chirurgia: le guardarobe ridotte a laboratorii di bende e filacce: i saloni, i corridoi senza fine, a dormitorii per i feriti.

Le ambulanze. Quante!... Lentissime, a distanza le une dalle altre, senz’ordine, sotto la rabbia del sole canicolare o della pioggia temporalesca, giungevano con il loro carico di dolore. Quei francesi, che poco tempo avanti erano stati visti partir per la guerra, pomposi, brillanti, in tutto punto, alcun d’essi portando, oltre al fucile, un uccelletto addomesticato, un gattino, un cagnolino sur una spalla: quei piemontesi duri di scorza, ispidi nel volto e pieni di fegato, tornavan sui carri (quando tornavano) gemendo come fanciulli che implorin la mamma, amputati e medicati alla meglio sul campo, chi senza un braccio, chi senza una gamba, chi senza gli occhi: con le bende miserevolmente incollate al marciume crostoso e puzzolente delle ferite: con la gola martirizzata dalla sete: con le vene vuotate dalle emorragie o incendiate dalle febbri.

— Donna Teodosia!... Presto!... Arrivano!... Corriamo!... Son qui!...

Quel carro, che, scostati i tendaggi carichi di polvere, mostrò alle giovani donne interrorite un gigantesco zuavo, cresputo e fosco, nudo dalla cintola ai ginocchi, rivelante fra il disordine delle medicazioni un’orrenda ferita all’inguine!...

Quei due ragazzi in una vettura, con poveri visi supplichevoli di bambini messi in castigo, che insieme non possedevan più se non due braccia e due gambe!...

Quel granatiere francese, che più non aveva apparenza di uomo, e si raggomitolava e si contorceva fra le convulsioni, ululando con arrotar di denti:

A boire!... Oh, de l’eau!... de l’eau, par pitié!...

Su e giù per le improvvisate corsie, con brodi, cordiali, medicine, disinfettanti. Il profilo di cammeo di donna Teodosia si affila per fatica e per pietà; ma più intensa si fa la sua grazia. E i giovani cuori han pur diritto di battere, sotto le ferite. Lunghi sguardi di convalescenti, pieni delle parole che non osano dire!... La contessina passa, sorride, ha soavi gentilezze per tutti: sempre con quella sua aria di creatura sospesa ad un sogno, che sfiori con le seriche scarpine qualcosa che non è la dura terra dei peccatori.

Ce n’è altri, che sospirano dietro Vittoria-terremoto: sempre allegra: piena di coraggio: pronta alla più dolorosa medicazione come al più gaio conversare: occhio furbo, cuor leggero, spumeggiante riso, balzati vivi vivi da una commedia del Goldoni. «Italia, Italia» pronunziano le bocche con fervore. «Oh, signorina, se mi permetteste d’amarvi!...» pensano i cuori con tremore. E qualche bigliettino, e qualche stretta di mano, e qualche labile promessa, e l’illusione eterna... Ma duran poco, i convalescenti, nella villa-ospedale. Ecco, partono, sono partiti, non torneranno più...

...Anche donna Teodosia è partita, recando con sé il tempo dei fiori, il tempo che non torna più.


Mentre la donna si abbandona al suo dire, beata dei propri ricordi, e parla più per sè che per colei che l’ascolta, non s’avvede che la figliuola le va guardando attentamente le mani.

Piccolissime: affusolate: corte nelle falangi, ma di tale mobilità espressiva, che disegnan le immagini suscitate dalla parola: la loro bianchezza è quasi azzurra, intersegnata di vene violacee.

Vivon da sè, e sembrano staccate dal corpo, quantunque unite ai polsi con aristocratica fragilità d’attaccatura; e le braccia continuano con linea quasi incorporea la leggiadria delle mani. Nè fatiche nè età poterono ancora intaccarle: ridono da sole, prima della bocca.

Silenziosamente, religiosamente, la giovinetta si pone a confronto con la madre; e ritrova, riprodotte in sé, sotto una pelle più ambrata e percorsa da sangue più giovine, la stessa delicatezza d’attaccature, la stessa rete di vene fra l’azzurro e l’ametista, a fior dell’avambraccio e dei polsi; quasi discese fossero entrambe da una razza di nobili, affinata, consunta attraverso i secoli. Uguali anche, però, nella resistenza dei nervi, nella tempra della volontà, nella fondamentale sanità dell’organismo. La piccolezza alata delle mani forma contrasto con la fronte massiccia e la quadra ossatura delle mascelle.

Com’era il padre di sua madre?...

Non sa. Non lo conobbe.

Com’era il marito di sua madre?...

Non sa. Non lo conobbe. Aveva un anno quand’egli morì.

Né può, pur volendo, chiamarlo «babbo»: se chiede di lui alla mamma, dice: «tuo marito».

Del resto, la mamma, che pur chiacchiera così volentieri sulle cose passate, su questo punto è pressoché muta: non narra di lui vivo e operante, ma solo di come morì, all’ospedale, di tifo; e della nuda miseria in cui la lasciò. E conchiude il breve discorso con uno stanco socchiuder d’occhi e un «basta!...» ch’è un taglio netto.

Di certo v’è questo: che il nonno, e anche il padre, appartennero a genuina stirpe campagnuola: che i loro vecchi, e i vecchi dei vecchi, furon gente rude, da aratro e da zappa: il che non ha nulla a che fare con le esili mani venate di viola.

Chi dunque gliele ha date, quelle mani, a sua madre e a lei?...

Lo sa.

Glielo ha detto Giuditta Grisi: fin da quando la portinaretta si perdeva in muti colloqui con il ritratto della cantatrice.

Meravigliosi discorsi!... Memorie di viaggi e di teatro: palcoscenici accecanti di luce, estasi di pubblici rapiti nella melodia: la folla pareva un sol uomo, e il suo entusiasmo si tramutava in magnifico furore. Sorrisi, doni di regine e di re. E amori. Amori: rapidi come una rappresentazione d’opera, veementi come il gesto del tenore che ammazza la prima donna.

Nessuno ha udito quel che le disse Giuditta Grisi. Nemmeno la nonna, curva sulla sua calza, mormorante le avemarie del suo rosario; che non ricorda più di essere stata, nel tempo, la seguace della Diva; al pari di essa esposta alla ventura delle strade e delle locande, ai capricci delle quinte, al magnetismo delle platee. Incolore, ma leggiadra; e la leggera claudicazione le dava forse la grazia d’una Luisa di La Vallière...

Romanzo?... Sia pure. Per lei, romanzo e realtà sono la stessa cosa: ciò che esiste nella sua immaginazione le appare blocco di vera vita.

Ha un antenato, che fu grande artista e gran signore. Non ne sa il nome, non ne sa il volto. Ma non importa. Le piace immaginarselo. Sua madre e lei portano gl’intimi segni del suo spirito, i visibili segni della sua figura. I singolari contrasti che risaltano nella persona dell’operaia Vittoria hanno la lor ragione in lui: quella delicatezza e quella forza, quell’amore della poesia e del canto, quel far della vita un’opera d’arte, con gli elementi del travaglio più umile.

Ella trova anche, in lui, la ragione logica di se stessa: della propria sensibilità: della ricchezza interiore che a volte l’ingorga. Fu egli uomo di teatro?... o solo l’accostò per passione?... Certo è per questo che, nella platea d’un teatro (le poche volte, ahimè, in cui la mamma la può condurre con qualche biglietto di favore) ella si sente a posto, si sente a casa sua. E sa che, se le venisse permesso di salire sul palcoscenico, una sola volta, così per gioco, non sbaglierebbe uno scalino nè una porta, non fallirebbe un passo, riconoscerebbe ogni quinta, ogni tavola, ogni fondale. Respira con felicità di polmoni quell’atmosfera carica di fiati umani, di misti profumi, di magnetismo animale, di musiche, di fosfori. Le par d’averla sempre respirata. E le antiche figure della scena le conosce una per una, le ha vissute nel corpo e nello spirito, le ha portate con sè nascendo, chi sa da quali profondità.

Offende forse qualcuno, abbandonandosi a simile orgia di fantastica indagine?...

Di nulla e di nessuno, alla fine, le importa; fuor che di spiegare sè a se medesima.

La famiglia?...

Che cosa è la famiglia?...

Sua madre, e lei.


Una sera la mamma torna dall’opificio accompagnata da Selma, la custode, e dalle due fide sorelle Vestri. Trascina il passo, e ha un braccio al collo.

Un rampone rugginoso le ha ferito — gravemente — il palmo della mano destra.

Sùbito è stata condotta in una farmacia per la disinfezione, e, là, medicata e fasciata con cura; ma ora si sente male, batte i denti per una febbriciattola nervosa, e deve mettersi a letto.

Ma non dorme.

La febbriciattola le chiama a fior di pelle un sudor freddo, e sulle labbra una ridda di frasi monche, senza nesso: lo spasimo della ferita le picchia sul rapido ritmo del polso, salendo con intensità sempre più acuta dalla mano alla spalla.

La figliuola veglia con lei: l’aiuta, verso il mattino, a rinnovar la fasciatura spostata.

Oh, quella mano così piccola, quella ferita così grande!...

Un buco sinistro, con orli tumefatti, irregolare: quasi trapassa dal palmo al dorso.

E se dovessero tagliar la mano?...

L’infezione si propaga al braccio, che gonfia e duole: giorni e notti passano, di sofferenze, di timori non detti ma pesanti, di piombo, per il cuore che li nasconde. Si forma, su all’ascella, un ascesso di natura maligna.

E se dovessero tagliare il braccio?...

Terrori infondati, per fortuna: i soliti terrori del troppo affetto. Di tal sanità è la magra sostanza di lei, che, qualche settimana dopo, ogni pericolo è scongiurato; ma il braccio è tuttora al collo, e non tornano tanto presto le forze.

Con l’altro braccio ella s’aiuta per le faccenduole di casa; e dice: «Anche questa volta una pezza ce l’abbiamo messa. Sta quieta, figliuola mia. Non mi vuole nè il Signore nè il diavolo!...»

E cantarella:

Ah, non credea mirarti sì presto estinto, o fiore...

Tiene due o tre vasi di gerani rosa al balconcino. Che grande bene, per lei, avere il tempo di curarli un poco!... Li vezzeggia, discorre con essi: dice tutto lei, domande e risposte.

Le vien fatto persino di declamare, con enfasi leggera che molto le si adatta, le sestine di Mea e Gosto del Guadagnoli, e quelle del Naso; e molte facili strofe di Arnaldo Fusinato: a memoria.

Il morbo infuria,
il pan ci manca,
sul ponte sventola
bandiera bianca.

— Non te l’ho mai detto, Dinin?... Quando tu mi sgambettavi dentro il ventre come una piccola saltimbanca, io non facevo che leggere le poesie di Arnaldo Fusinato. Portavo il volume con me, in laboratorio: nell’ora di riposo tutte le cucitrici mi stavano ad ascoltare. Anche tu, ne son sicura. «Giaello, Le due madri, Suor Estella...» Le cucitrici piangevano. Specialmente per Suor Estella!...

Pallida un giorno più dell’usato
del conte Ubaldo s’asside allato...

La mano, intanto, non cicatrizza ancora. Son venti giorni che la mamma è a casa. S’è fatto qualche debito; non si può lasciarlo invecchiare.

— Vuoi andar tu, figlia, alla fabbrica, a chiedere il pagamento delle giornate?... Me le debbono: mi son ferita sul lavoro. Chi sa non ti diano qualche liretta di più: ci farebbe comodo, eh?...

— Sì, mamma: vado.

È grande lo sforzo che compie su se stessa; grande come il suo orgoglio. Scendendo la möntada, un pensiero le picchia nel cervello. Lei potrebbe ormai benissimo essere un’operaia della fabbrica: come la mamma: come le sorelle Vestri. Sarebbe bastato che la mamma le dicesse: — Io non posso mantenerti agli studii. — E allora il telaio, le tredici ore di fatica, la polvere di lana nello stomaco, le mani sporche, la visita alle tasche — e non studiare: non sapere: non leggere l’Iliade e la Divina Commedia.

Una pecora del gregge.

Le sarebbe possibile?... No. Sente che in qualche modo si saprebbe liberare.

Poco fumo, quel giorno, dalla ciminiera: una sciarpa cenericcia, a volute, a svolazzi. Suona alla portineria: «Oh, chi si vede!... E Vittoria come sta?...». Introdotta nel gabinetto del direttore, si mette a tremare stupidamente: le sembra d’esser lì a chiedere l’elemosina.

Qualche minuto dopo, non riesce a spiegarsi in qual modo ella si ritrovi sullo spiazzo polveroso, con l’opificio dietro di sè, con la precisa certezza nell’animo ch’ella non vi rientrerà mai più. Tiene una busta in mano. Ricorda che, consegnandogliela, qualcuno le disse:

— Speriamo che la brava Vittoria ritorni presto. È una vecchia operaia a cui teniamo.

Apre la busta, conta il denaro. Non un soldo di più, non uno di meno delle giornate dovute: venti, di malattia contratta sul lavoro: lire trentacinque, giuste.

Non un piccolo regalo, così, a titolo d’aiuto, per le spese del dottore, dei medicamenti, dei brodi sostanziosi che si son dovuti dare all’inferma. L’altra volta, per quella bronco-polmonite, non avevano avuto nulla; nemmeno il pagamento delle giornate; ma, pazienza!... la mamma era stata all’ospedale. Ora... Come si farà con trentacinque lire? Bisogna pur vivere, bisogna pur mangiare. Pensare che s’era tanto illusa, povera donna!...

La möntada, che è lì a pochi passi, le par lontana lontana; tanto si sente le gambe stanche, le ossa molli.

Ma il suo cervello somiglia ad un foglio murale stampato a grandi caratteri rossi.

Sedici anni d’officina. La vita di un’operaia — di quell’operaia — a chi deve importare?... Guadagna abbastanza per non morir di fame, lei e la sua bimba: è contenta: ne ringrazia Iddio. Ma non capisce che la derubano?... Non c’è nessuno che la difenda?...

E se si ferisce sul lavoro — come stavolta è accaduto — le si paga la giornata nuda e cruda, purchè l’assenza non duri troppo; e se diventa incapace di lavorare, si rivolga alla carità pubblica, o ad un ricovero di mendicità.

La derubano. Quel che dà è scandalosamente più grande di quel che riceve.

La sua figliuola la porterà via, sta bene: presto, fra un anno, fra due, quando anch’essa sarà divenuta una buona bestia da fatica. Ma ciò che è stato è stato. Non glielo vorrà mai saldare, la fabbrica, il proprio debito verso di lei.

Processata, andrebbe, la fabbrica; e condannata. Paga il tuo debito, ladra!...

Nella veemenza dello sdegno, l’onda del sangue ha ridonato alla giovinetta la rapidità del passo. Sale la möntada con tanta furia che par non tocchi il terreno, con quelle scarpacce scalcagnate. E fra le dita gualcisce, quasi volesse distruggerli, i pochi biglietti sudici che le scottano la pelle ed il cuore.

Ogni giorno ha la sua sera.

Ma, quella sera, ella non riposa.

Al tavolo di cucina, scrive versi. Sono la sua liberazione, quando ha il cuore gonfio. Le pulsa, il cuore, fino alla fontanella della gola: ai polsi, sente la morsura di due braccialetti di fuoco. Scrive, quella sera, per bollare a sangue un’ingiustizia: compie un atto di necessità.

«Mano nell’ingranaggio» è il titolo della poesia. Ma la storia della disgrazia accaduta alla mamma le si trasforma sotto la penna, — e non è più quella. Nelle brevi e nervose strofe, la donna diventa giovine, bionda, bellissima; e la mano vien troncata di netto.

Perchè?...

Più semplice è la verità: meno tragica, certo. Le riesce dunque tanto difficile a dire?... S’è lasciata, nell’impeto, trascinare ad una deformazione del vero; e n’è umiliata; ma non può rifar ciò che ha scritto.

Nasconde, pian piano, il foglio: non lo farà vedere a nessuno.


Finiti, gli esami di patente. Che stanchezza!... Ma che respiro!...

Ottenuto, a pieni voti, il diploma di maestra: uno straccio di carta, infine: che vorrebbe significare la sicurezza della vita materiale.

In una dorata mattina di luglio, ella ha detto addio, con tristezza, agli ombrosi platani del cortile di scuola, al porticato pieno di frescura, del quale ogni pietra per lei ha un volto: con minor senso di malinconia, alle compagne: ama ella forse più le cose delle persone?...

Nel pomeriggio, è andata, sola, coprendosi il capo con il piccolo velo nero delle popolane, alla casa del vecchio maestro.

Lo ha trovato nel giardino, intento su certe begonie gigantesche, della cui lussureggiante fioritura egli possiede il segreto, e non lo cede a nessuno. Spalluto, muscoloso, nel pieno de’ suoi sessant’anni senza tare: con quel viso d’autorità, sbozzato con l’accetta nella selce: con quella voce d’autorità, che leggendo le divine Cantiche ha potuto tante volte tramutarsi in dolcezza e potenza di musica.

Gli ha stretta la mano: non ha saputo balbettare che: — Son venuta a dirle grazie, maestro.

Tra le frasche (così folto il giardino: quasi un bosco) gorgheggiavano tutti gli uccellini del mondo. Il cielo era d’oro; e il chioccolio infantile d’una fontanella, nascosta dietro gruppi d’ortensie rosazzurre, pareva dire anch’esso: — Grazie, maestro.

Il vecchio le ha con la destra bruscamente sollevato il mento, fissandola negli occhi: in quegli occhi, per i quali nessuno mai potrà trovarla brutta. E le ha detto, grave:

— Mi avvertirai, quando ti giungerà la notizia d’un concorso. Voglio salutarti e darti alcuni libri. È contenta la mamma?...

— Sì. Tanto.

L’ha condotta in giro per il giardino, mostrandole tutte le sue meraviglie:

— Vedi?... Questa mimosa mi sarebbe morta, se non l’avessi curata, proprio come un bimbo infermo... I fiori valgono più degli uomini.

Nel momento di dirle addio, s’è ricordato d’essere stato prete; e le ha imposta la mano sulla fronte, con gesto sacerdotale. Oppressa da una dolcissima sofferenza, ella s’è mossa verso la porta, nell’impossibilità di parlare. Ma il professore, sulla soglia, l’ha tenuta ferma per una spalla, s’è curvato su di lei, s’è strappato dall’anima le parole che vi serrava dentro per scrupolo, per una specie di aspro pudore:

— Tu puoi fare. Puoi far molto. Studia, scrivi. Mandami ciò che scrivi. E ricordati del tuo vecchio maestro.

Questo, per la prima strada e per tutte le altre, fu il viatico.


Dovrà proprio andarsene?... lasciare la sua città?...

Cara, nobile città dell’infanzia e dell’adolescenza!...

La piazza del Duomo, con i leoni di pietra a guardia della cattedrale, protetta dal campanile un po’ tozzo, è stupenda di vita nei mesi di prima estate, quando il mercato dei bozzoli la riempie di splendenti cumuli d’oro e d’argento, e brulican sotto i portici e dinanzi alla chiesa i robusti fittabili della Bassa, con gran gesticolare, gran moto e odore e rumore d’umanità in faccende. Piazza Broletto, dietro il Duomo, ne guarda l’abside austera, ornata in alto da mensole e piccoli archi di cotto, così belli che cantan da sè le lodi del Signore.

Chiese, chiese: quante!...

Per riposare: per sognare: per pregare.

Quando fu chiusa ai fedeli quella che ebbe per nome Santa Maria dello Spasimo?... Tutti vanno all’Incoronata. L’Incoronata è uno scrigno del Bramante, nell’interno del quale maestose figure di Madonne e di santi vivono su pareti rivestite d’oro. L’Incoronata è tutta d’oro; ma il tempio di San Francesco, povero, nudo, vigila, poco lungi, come il cuore nel corpo. Via Tresseni affondata nel verde ha l’aspetto d’una scorciatoia di bosco: Santa Maria del Sole, la gelida serenità d’un corridoio di convento: via delle Orfane è là, irta di sassi, gialla di calce e di sole, con le mute ombre ritte sulle porticine claustrali, a guardia di tombe che una sola creatura conosce. Altre ed altre strade, gravi di storici nomi, Gaffurio, Fissiraga, Porta Reale, mostran file di palazzi che sembrano, da secoli, deserti: e non v’è sagoma di pietra o chioma d’orto spiovente da un muro o singolarità di luci e d’ombre che non sia già, per la fanciulla, vita nella vita.

Nei chiassuoli, nei vicoli si soffermano gli organetti di Barberia, chiamando ragazzine e monelli sugli usci, con stonate arie di danza. Ella resta immobile, sulle cantonate, ad ascoltare quelle melodie che paion zampillar dai sassi, e dal cuore della plebe; e quando l’organetto se ne va, lo segue, a qualche passo dalla ragazzaglia; e vorrebbe andargli dietro, chi sa dove, per il mondo.

Corso Adda, con le sue botteghe così festose, simili a scoppi di risa, fra squillanti colori e gioia di popolo scende alla gioia del fiume; ed ella non vide mai altro fiume; ma è certa che questo è il più bello — perchè è il suo.

E pur bisogna lasciare questi beni.

Per quale altro bene?... Per un posto di maestra che non deve, poi, essere tanto difficile da trovare, in qualche scuoletta di campagna: sia essa la più umile, pur di cominciare.

Guadagnarsi il pane: metter la mamma a riposo, dirle: — Ora basta, eccomi qua. — Cosa essenziale. Non è che il punto di partenza, però; perchè ella vuole andar lontano: se ne sente la forza.

Ma il principio è lì. Aggirarlo non si può. Non si elude la necessità.

Come se la caverà con i bambini?...

Non ama i bambini. Non s’è mai accorta di loro. Da piccola, non si trastullò mai con le bambole: più grandicella, non si prese mai fra le braccia un infante, con la spontanea passione delle adolescenti in cui già vibra l’istinto della maternità. Il mistero del bambino le è indifferente non sente il bisogno di approfondirlo. E dovrà star con i ragazzi gran parte della giornata, insegnare, farsi ubbidire, farsi comprendere.

La scuola, nella sua più elementare materialità: raddrizzar aste, far distinguere l’a dall’o, corregger compiti, frenare i vivaci, punire i riottosi, non esser mai se stessa; ma la tiranna di se stessa, per imporsi alla ragazzaglia...

Si sente irretita. V’è in lei qualcosa che non consente, ribelle ad esser violato. Una cosa è studiare: altra è lavorare per il guadagno.

La fiera specie della sua povertà le è stata fino ad oggi difesa mirabile: ben diversa sarà per lei la povertà di domani.

Dovrà indurirsi contro di sè: si prepara ad averne il coraggio.

Spianteranno la casa, si porteranno via tutto: il letto matrimoniale con le materassa sottili sottili, i due cassettoni corrosi dal tarlo, le sedie spaiate, il paiolo e le pentole che han tanto bisogno di stagnatura, il tavolo di cucina tagliuzzato agli angoli e con un piede zoppo, sul quale ella ha scritto, lottando contro il sonno, tanti e tanti compiti di scuola; e, in strane ore quasi irreali, anche dei versi...

E le cose più care: i ricordi di Giuditta Grisi ai quali s’è aggiunta una cassettina di legno di noce, che la nonna teneva gelosamente nascosta, ed è venuta a loro in eredità: quadra, lucida, con serratura e chiavetta d’argento, e un tesoro nascosto nei vàri scompartimenti. Un tesoro: armille, fibbie da teatro, pendagli d’ottone e di gemme false; e fra tutto quel falso una miniatura d’uomo incravattato alla moda del mille ottocento trenta...

Dove andranno?... Chi sa!...

Ma la mamma, una sera, dice alla sua figliuola, con quella serenità che rende, intorno a lei, ogni cosa facile e piana:

— Sai?... Ho pensato che, quando ti verrà la nomina, sarà meglio che tu cominci ad andare senza di me. Io posso ancor lavorare, per qualche anno almeno. Non son poi da buttar via, da mettere in giubilazione!... Così, qualche lira di qui, qualche lira di là... Intanto tu vedi il paese, cerchi e trovi le stanze adatte, con calma, con riflessione. Non va bene, Dinin?...

Oh, sì, va bene. Lasciarsi, sia pur per poco, sarà duro; ma tutto va bene quel ch’ella dice, tutto è limpido, pratico, poggiato sulle più oneste basi della vita.

Se ne sta lì, dinanzi alla figliuola più alta di lei; ma si tien più diritta sulla minuscola persona, e gli occhi le splendon più schietti, più sereno il sorriso: non un nervo ha ceduto: non una ruga è stata accettata dalla fronte di marmo. La mano destra porta le stimmate della profonda ferita, come porterebbe all’anulare un anello.

Un pensiero, ad un tratto, nel cuore della figliuola: rapido, accecante: lampo di calore in notte serena:

— E se io la perdessi?...

No. La terrà stretta. Non la perderà.


Il Giardino del Tempo la guarda come se le sue fronde fossero occhi, nel sole di quell’estate senza un soffio e senza una nuvola: anche di notte la guarda, intridendo nei vapori azzurrognoli della luna le sue masse d’ombra. Le chiede:

— Te ne andrai?... Proprio te ne andrai?...

I loro colloqui son sempre più lunghi, da anima ad anima. Lo ha chiamato ella stessa «il Giardino del Tempo», per le ore che vi sentì fluire, in continuità di silenzio; e perchè un vespro di domenica, ascoltando le campane della vicina chiesa del Carmine, ella vi ebbe la sensazione d’aver sempre udito e di dover sempre udire suonar quelle campane. Sensazione d’eternità: abolito il nascere, abolito il morire. — Nel tempo. —

Porterà con sè il suo giardino. E le campane della chiesa del Carmine. E il tempo. E anche un nascosto prezioso bene, da poco in sè riconosciuto, ch’ella confonde spesso con il battito del cuore, la necessità del respiro, del passo, del lavoro quotidiano; ma non è la stessa cosa; anzi, meravigliosamente diversa. Più che un bene: una forza: se stessa: non quella che la madre adora, la vita allinea con gli altri, e una rustica scoletta di villaggio attende per maestra. L’Altra: la Vera: che nessuno vedrà nel viso, nemmeno la mamma: inviolabile, inviolata: senza principio, senza fine: ricca d’inestinguibile calore al pari delle correnti sotterranee. Disgrazie, umiliazioni d’ogni sorta possono accadere alla pallida e povera Dinin; ma l’Altra, la Vera, è al disopra di tutto e di tutti, è la Regina in incognito, che nulla può ledere. La sente, a volte, rivelarsi e sovrapporsi alla persona circoscritta respirante camminante, con la potenza d’un getto di lava; e ciò accade generalmente quand’ella, vagabondando sola, segue, lungo oscure straducole urbane, il suono degli organetti. Perdono allora le viuzze la loro sudicia tristezza per tramutarsi, d’incanto, in vaste e superbe piazze, formicolanti di gente: e sempre più s’infittisce la gente, riempiendo l’aria del proprio anelito, con innumerevoli volti protesi alla musica dell’organetto; ma non è più quella musica: è armonia di parole uscenti dalla bocca dell’Altra. Parole che lei ancora non sa: ne sente soltanto la sonorità melodiosa, la struggente e consolatrice dolcezza, che cerca i cuori degli uomini, e li fascia li bacia li penetra li sommerge.

Quando il manubrio dell’organetto si ferma, e il catarroso valzer o la zoppicante mazurca è finita, cessa anche l’allucinazione: riprende il vicolo il suo squallore di budello cieco, la sua schiuma di monelli schiamazzanti dinanzi alle insegne delle osterie; e, scantonando rapida, Dinin ridiventa Dinin.


Da un pezzo Nani non si vede.

Tristi notizie giungono sul suo conto.

Morto il bambino a balia, pochi mesi dopo la nascita: baruffe su baruffe in casa: l’esasperazione dell’amore, acuita dalla gelosia, dalla povertà mal sopportata e dall’asprezza di due temperamenti ribelli. I casigliani e i dirimpettai van bisbigliando, scandalizzati, di scene notturne, di mobili rovesciati, di urli e bestemmie nel buio. E ognuno di questi raccontari è una coltellata nella schiena, per la mamma e la sorella.

Ricompare, fra lusco e brusco, all’improvviso, secondo il modo dei gatti: non sembra sia venuto dalle scale, entrato dall’uscio: si trova lì, quando meno è atteso, come rivelato dallo spalancarsi subitaneo d’un nascondiglio nel muro.

Piove a scroscio: pioggia d’estate, non temporalesca ma tenacemente diluviale, che nella piena canicola getta di sorpresa il pianto livido dell’autunno; e batte e scorre in rapidi rivoli sui vetri del balcone di cucina.

La sorella ha destato allora allora un’alta fiammata sul focolare, con vecchi quaderni e brutte copie di compiti zeppe di sgorbi, di pentimenti, di rifaciture; — e sta mondando legumi per la minestra. A mantener la fiammata ha aggiunto due pezzi di legna; il brontolio della pentola appesa alla nera catena le dice parole buone, di pazienza, di speranza.

Si volge: — Oh, Nani!... — Ma dunque l’uscio era aperto?...

Le risponde con uno scoppio di risa di quei tali, però, che muoion fra i denti.

Come è pallido!.. Mal vestito, col colletto floscio, i polsini sfilacciati. Prende una sedia, le fa fare un mulinello, vi si pone a cavalcioni.

La sorella, un poco incerta, gli tenta una carezza sui capelli: folti, morbidi capelli da donna: verso l’occipite, una ciocca bianca, sin dall’infanzia.

— Sei tu, finalmente!... C’è il finimondo, che ti fai vedere?... E Daria?... Fermati a mangiare un piatto di minestra. La mamma torna fra un’ora: ti vedrà: sarà contenta.

— Oh, sì. Contenta. Contentona. Contentissima. C’è davvero da fare un giro di polca, Dinin.

Non si può fissarlo negli occhi, tenerlo fermo un momento. La perenne inquietudine delle acque dei fiumi è nelle pupille, nel cervello, nelle membra di quel ventenne già quasi vecchio.

Esce finalmente a dire:

— Lo saprai, che sono a spasso.

— È vero dunque che le cose non vanno più bene?... che vi lasciate, tu e Daria?.. Vi separate legalmente, dicono. Possibile?... E tu dove andrai, allora?...

— Non abbiam bisogno di chiacchiere d’avvocati per fare il nostro comodo. Viva la libertà!.. Daria rimane con sua madre, quella pelle dura d’Ignazia. Io ho mandato a farsi benedire il mio principale e le sue noiosissime mappe e cartacce zeppe di cifre, che non mi davano abbastanza da mangiare. Ho la sicurezza d’ottenere al più presto un posto di controllore sul tram Treviglio-Bergamo. Mi cercherò una pensione a Treviglio. Sarà difficile che vi capiti ancora fra i piedi...

— Nani!...

— Non per te, non per te dico, stupida!... Ma Daria è una baldracca...

— Nani!... E tu chi sei?...

La cruda domanda le è sgorgata d’impeto, senza riflettere. Non ne ha ponderato la gravità, ed ora ne è spaventata.

Silenzio, con gli occhi negli occhi, stavolta. Poi, al solito, una sghignazzata.

— Certe cose per te saranno sempre dei rebus. Queste ragazze d’ingegno!... Mi hanno detto che scrivi dei versi... sarà!... ma quei rebus non riuscirai a scioglierli. Monda i tuoi legumi, va là, maestrina. Vuoi che t’aiuti?... Son troppo verdi questi fagioli. Ecco: tu hai terminato i tuoi studi, e io no. Va bene. Bella novità!... Ma tu hai sempre avuto la mamma alle costole, e io no, io no...

Cantarella «io no, io no» sulle note della cabaletta del paggio Oscar, nel Ballo in Maschera: «Oscar lo sa, ma nol dirà...». Poi si mette a fischiettare un’aria di danza, con dolcezza, mirabilmente.

— Non sei giusto, Nani. Non vuoi esser giusto con lei, per dar ragione a te stesso. Non potè tenerti; ma ti ha sempre voluto bene.

— Sarà. Ma è come se mi avesse ripudiato. Per sapere bisogna provare. Che ne sai tu?... È come se, a tre anni, io fossi rimasto orfano anche di lei.

Ancora silenzio. Scrosciar di pioggia sui vetri. Dinin ha messo rape e fagioli a cuocere nella pentola, e s’è rannicchiata sulla pietra del focolare.

Sì: Nani dice il vero. Un orfano. Ma non solo del padre, e, come egli crede, della madre.

Di tutto è orfano.

Egli è di quelli che fatalmente nascono senza avere alcun rapporto con il ventre che li ha espulsi. Si aman come gli altri fratelli, forse, loro?... Entra nell’affetto che li lega un elemento estraneo, che lo rende più intenso perchè più doloroso. Egli non può non aver l’intuizione della parte migliore ad essa toccata: l’equilibrio su salde basi, la volontà. E quando le pianta le dita nelle scapole e per baciarla la morde, il suo gesto è d’amore e di furore.

Ma ella vuol dire una parola di conciliazione:

— La nostra forza dobbiamo averla in noi, Nani. Perchè accusare gli altri?...

Una pausa: poi mutano discorso, per tacita intesa. Parlano del pessimo tempo: di certi lontani parenti: di certe susine violette, ch’eran nell’orto della casa di via delle Orfane: di libri.

Un amico di Nani, che gli fu compagno al ginnasio ed ora ha finito il liceo, gli ha regalato il libro delle Egloghe. Divino Virgilio!... Il futuro controllore del tram interprovinciale Treviglio-Bergamo ne scande con delizia gli esametri; e la sorella, che non sa di latino, resta immota in umiltà, curvando il capo sotto la potenza dell’armonia.

Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi...

Così, di tutto immemori, da tutto lontani fuor che dal Poeta, raccolti come in chiesa, li ritrova la madre.

Gronda acqua dallo scialle: ha le scarpe ridotte a spugne: è rotta dalla stanchezza.

Fissa gli occhi, sorpresa, sul figlio. Infervorato nel verso, egli, che volge le spalle alla porta, non vede quello sguardo, pesante d’amore — di bestia che cova i suoi piccoli.


Tanti anni passeranno!.. Tante vicende con essi.

Nani lascerà Daria, andrà peregrinando per città e paesi muterà impieghi: muterà mestieri.

Tempo, lavoro, proponimenti, affetti, - tutto gli si sbriciolerà fra le mani.

Tenace soltanto nell’unica sua alta passione, il libro; e nelle sue debolezze: il ballo, il vino, la sterile discussione a grossa voce, a grosse parole, coi compagni eccitati dal calore alcoolico, al tavolino del caffè o tra i fumi della trattoria. Qualche povera amante, a periodi, in burrascosa convivenza: folle di lui, ben presto stanca di lui. Non abbastanza dotato di qualità geniali per divenire un artista: non abbastanza opaco di mente per rimaner fra le rotaie del meschino impiego a novanta lire al mese: non abbastanza cane randagio, per abbandonarsi intero alla vita notturna dei bassifondi.

A disagio, dovunque. Inappagato, sempre. Senza un nemico, perchè troppo innocuo nella sua disarmata vacuità: senza un amico, perchè i deboli non hanno amici.

Inetto a vivere; ma pauroso della morte.

La sorella non lo potrà rivedere che ogni tanto, a distanza di mesi e di anni. Appesantito dal tempo: d’una pesantezza floscia, rivelante le molle fruste. Sempre di sghembo a sedere, sempre di scatto a ridere fra il boccaccesco e il funebre, con la stortura del sogghigno fissa sulle labbra pronte allo scherzo greve o a masticar l’eterna citazione latina fra i denti anneriti dal troppo fumare. Un naufrago. Il suo bacio saprà d’amaro, e di fiato corrotto: egli non parlerà mai di Daria; ma penserà a lei senza tregua.

Mite, in fondo, come un bambino: con nell’anima un dolorante bisogno di abbandonarsi, d’essere accarezzato, vigilato da mani e da occhi di donna devota; ma non lo vorrà confessar mai.

Gli sarà finalmente trovato un buon posto, nell’ufficio di vendita d’una grande casa libraria.

Felice, questa volta: fra l’odore della carta di fresco stampata, fra cataste di giornali, dispense, opuscoli, libri. Legger tutto: vivere fra i documenti della fantasia e del pensiero umano: viaggiare viaggiare instancabilmente, rimanendo fermo in un ufficio: forse questo è l’ultimo rifugio, forse di qui non evaderà più.

Ma egli è logoro: un tessuto che mostra la corda. Gli basta ormai un bicchierino d’acquavite per aver le lancinature di stomaco.

Cade infermo, di pleurite, dopo aver danzato un’intera notte di carnevale in un ritrovo qualunque, affrontando, come tanti anni prima (ma allora c’era Daria con la sua faccia bianca, con i suoi fianchi flessuosi) le follie del valzer doppio.

La pleurite degenera in tisi galoppante; ed egli muore all’ospedale. Come suo padre. A trentatre anni. Lui: che aveva il terrore dell’ospedale, e della morte.

La sorella — che la sera avanti l’aveva lasciato chiuso in un tranquillo assopimento — il mattino alle cinque vien fatta avvertire ch’egli spirò nella notte.

Giunge in tempo per vederlo, prima che la regola ospedaliera lo trasporti e lo distenda, ignudo, sul marmoreo piano inclinato, stillante d’acqua, della stanza mortuaria.

Lo ritrova in un dormitorio a parte, pieno di letti vuoti. È là, in mezzo a tutto quel bianco glaciale, nel glaciale pallore dell’alba.

Solo.

Mai ella vide un essere al mondo, così solo.

Gli fosse almeno rimasta accanto, nella notte!... Chi gli bagnò le labbra?...

Il lenzuolo lo copre fino al mento. Ma quella cosa che s’affonda nel guanciale non è più una faccia d’uomo: è l’impronta, nella pietra, d’uno spasimo che non avrà pace nell’eternità. L’uomo è spirato nel rancore. Se la morte non è riposo, che cosa è dunque?...

Non ha il coraggio, la sorella, d’avvicinarsi a quella maschera, per cercare in essa i tratti del caro viso. Le è lontanissima, ostile, inaccostabile. L’avrà sempre dinanzi agli occhi; ma, per raggiungerla, per riconoscerla, deve anch’ella morire.


Oh, Nani, la tua vecchia mamma, quanto piangere, quanto piangere!...

Di nessuno è la colpa, fratello.


Colomba, Celeste, Lucia sono i nomi delle tre sorelle che reggono il collegio femminile dove la maestrina diciassettenne entrerà in ottobre, per supplirvi l’insegnante della prima classe, partita per Roma. Il compenso in denaro è miserevole; ma avrà il letto, il vitto e il bucato.

C’è tempo: siamo in agosto. Ma nessun concorso per un posto comunale in campagna le è stato segnalato finora; ed ella non si crede in diritto di passar l’inverno in casa a ufo.

Il collegio è il solo importante d’una piccola città poco lontana dalla sua: l’ha veduto: vi è rimasta tre giorni, per invito della direttrice Colomba, che assai probabilmente l’ha voluta studiare, prima d’accettarla come maestra interna.

Ha un vasto giardino coltivato in parte a frutteto (e già vi maturan certe susine e certe pesche superbe) — ma chiuso: un vasto cortile ombreggiato da lecci di folta chioma, che devon essere pieni di nidi — ma chiuso: tutto vi è chiuso ermeticamente: anche il volto della direttrice Colomba.

La direttrice Colomba appartiene alla categoria delle donne che, giovani o vecchie, vengono invariabilmente definite «di un’età rispettabile». Dell’accollatissimo abito nero, che è per lei quel che è la divisa per un generale, non pare si debba mai spogliare: nemmeno di notte. Ella ha l’aria d’essere in piedi anche quando è seduta; e non la si può pensare affloscita nell’abbandono del sonno. La sua testa è tutta d’un colore, capelli, occhi, guance, labbra: non si sa come accada; ma è così.

Tuttavia, quegli occhi d’indefinibile tinta si fanno terribili, se fissan qualcuno. S’attaccano alla persona, la misurano, la spogliano, non lasciandole intatto nemmeno un pensiero.

Veri occhi professionali, da dominatrice: ai quali nessuno potrà mai resistere, mentire, disobbedire.

La direttrice Colomba ha una singolarità, di cui parla volentieri, menandone un certo vanto: dopo ogni pasto (e Dio sa se i suoi pasti sono copiosi) sente il bisogno di divorare un’intera crocetta di pane, senza companatico. Le serve da caffè. La volta che non lo facesse, le parrebbe di non aver mangiato.

La sorella Celeste si occupa delle guardarobe, dell’andamento domestico e, soprattutto, della cucina. Dondola su cicciosi fianchi, ed il suo bel faccione, con due finestre d’innocenza color del suo nome, somiglia alla luna d’agosto, quando sorge, placidamente vermiglia, fra calmi vapori. Ha movimenti pacati e rotondi, di persona compiaciuta dell’esistenza, e di sè. Non s’interessa delle educande, se non sotto la specie della vita fisica: non legge: unico libro per lei degno di consultazioni, il «Re dei cuochi»; ma nei conti non l’imbroglia nessuno. In due piatti è inarrivabile: le rane in guazzetto e il fricandò con patatine novelle. È felice di sentirselo dire. Di nascosto, beve cognac.

La sorella Lucia è la più giovine. Forse sì, forse no, arriva alla quarantina. Dipinge all’acquarello, ricama sul raso a colori, è abilissima nelle trine a rete, insegna calligrafia e disegno, materie gentilmente femminili. È grassoccia, molto bruna, e i suoi occhi spariscono fra ciglia troppo lunghe. Le due sorelle maggiori, zitellone dalla nascita alla morte per disposizione divina, dicon di lei con orgoglio, come di cosa assolutamente necessaria all’onore della famiglia:

— Oh, Lucia prenderà marito.

La triade è perfetta: una costellazione.

Ma subito dopo l’inappellabile autorità di Colomba viene, nel collegio, quella della signora Erminia, la maestra in capo, nata e cresciuta per esser maestra, e null’altro che maestra: un donnone di schietta bruttezza, dal gesto dittatoriale, dalla parola tagliente: che tiene in pugno insegnanti e scolare, e guai se stringe le dita.

Il collegio: dove ci si alza a suon di campana, si entra in classe a suon di campana, si va a tavola e si recitan le preghiere a suon di campana: dove non si è mai soli, mai mai, nemmeno a letto: perchè ogni maestra ha l’obbligo di dormire in una camerata nella quale si trovino almeno dieci ragazze. E nemmeno pensare si può: perchè la direttrice Colomba ghermisce, con quegli occhi di cui nessuno sa dire il colore, anche i più segreti pensieri.

Bisognerà lasciarsi distendere su codesti spirituali cavalletti della Santa Inquisizione: divenire una specie di monacanda, con il gesto rigido, l’anima torpida, la volontà cancellata: avvezzar le narici a quel puzzo di rinchiuso, fasciare i garretti all’anima perchè non scalpiti.

Per poco, sia pure: fino a quando le verrà fatto di vincere quel benedetto concorso, che ancora è nel sogno.

Potrà resistere fino allora?...

Principessa della Povertà nel Giardino del Tempo ella fu sino ad oggi, grazie a sua madre; ma la realtà non risparmia nessuno. Ora che l’ha dinanzi, sente e misura in sè, se pur con sorda trepidazione, il coraggio d’affrontarla, nella sua meschina brutalità. Farà esperienza di vita e dovrà curarsi anche lei le lividure: non è così per tutti?... Non è giusto che sia così?...

Prova una strana volontà di soffrire, pur di sapere. Ma vuol soffrire con gli occhi aperti, con l’anima attenta. La libertà dell’anima non gliela potrà toccare nessuno. E poi, non c’è l’Altra?... Di che può temere, se c’è l’Altra?...

Macina dentro di sè tali pensieri, raccolta nel suo lavoro di preparazione intima, passando un giorno, a testa bassa secondo il suo solito, lungo antiche viuzze sfocianti in freschissimo verde di ortaglie; quando, di botto, le si slanciano incontro due braccia tese, una risata di gioia, una voce che pare un canto.

— Eccoti qua, finalmente!... Dall’ultimo giorno di scuola non ti si è più vista!... Non ti vergogni?...

È Drusilla, viso aperto, caldo cuore, bocca di bontà: la compagna di studi che più le ha voluto bene, senza nemmeno chiederle d’esserne ricambiata. L’ha ricambiata, lei?... No: non le sembra. Tolta la madre, lei non vuol bene a nessuno.

— Perchè — implora la creatura buona — non sali un minuto in casa mia?... Babbo è all’ufficio. Siam qui a due passi, lo sai. E poi, tu non conosci ancora la novità. Grande novità!... Mi sposo, in settembre. Sposo Sandro, si capisce. Non ricordi?... Il mio Sandro...

Come si fa a non ricordarsene?... Fin dalle classi preparatorie Drusilla studiava le lezioni e scriveva compiti pensando a Sandro, parlando di Sandro: fingeva, in classe, di prendere appunti, per aver agio di scarabocchiar lettere a Sandro, zeppe d’interiezioni e di spropositi: di Sandro tutte le condiscepole conoscevano i baffi e la scriminatura, le ansie amorose del presente e i propositi per l’avvenire, le scarpe crocchianti e certe piccole infedeltà senza importanza, che la serena Drusilla sapeva perdonare.

Ma non ve n’eran molte, nella scuola, innamorate d’un «Sandro» vicino o lontano, fedele o no, di carne e d’ossa oppure semplicemente sognato, pensando al quale ogni peso pareva leggero, persino le conferenze di pedagogia, le equazioni algebriche, le lezioni di fisica applicata?

Molte: lei, no.

Come è chiara la stanza da lavoro di Drusilla!... Tele, trine, ricami, nastri, sparsi sulle mensole e sui tavolini, la rendono ancor più chiara. Il babbo non ha badato a spese: vuol che la figliuola si faccia onore, nella casa che l’aspetta: il corredo è degno di una ricca signorina. Ma lo cuce lei, che ha le mani d’oro.

— Sapessi — dice — quanto è bello cucirsi il corredo, pensare ad una casa nuova, avere un fidanzato, dirsi: Tra un mese lo sposerò!... La patente?... E chi ci pensa più?... L’ho messa nel cassetto. Sandro ha un buon impiego, ora: non permette ch’io lavori per guadagnare. Oh, sai, il mio Sandro, l’ho fabbricato io, apposta per me!...

...Quelle trine, quelle tele son troppo candide: in quell’aria v’è troppo tepore in quella voce v’è troppa felicità. L’esclusa trova un pretesto, saluta, parte.

— Nani, è proprio necessario l’amore?... — chiedeva al fratello un giorno. Egli le rispondeva, irridendola:

— Tu non capisci nulla...

Forse il suo destino non è l’amore. Nè la passione di Nani e Daria, tempestosa come l’odio, nè il limpido affetto nuziale di Sandro e Drusilla, ardente con misura, a guisa del focherello domestico in una piccola casa borghese. A ciascuno la propria strada. Per lei, nel prossimo ottobre, il collegio con i terribili occhi della direttrice Colomba, ricordanti le finestrelle-spia aperte per la vigilanza insonne nelle pareti delle carceri; con i velati sorrisi di compatimento delle ricche allieve, sbircianti di sottecchi le scarpe fruste e l’abituccio ritinto della maestrina...

E poi?... Chi sa!...

Tornando quella sera dal lavoro, la madre la trova abbattuta, senza parole, con un povero viso rimpicciolito e grigiastro. Non vuol mangiare. Tardi s’addormenta, dopo essersi voltata e rivoltata per tutti i sensi nel letto, a fianco della cara donna che la stanchezza preme, ma l’inquietudine tiene sveglia. Appena piombata nella profondità del sonno, si trova, per incanto, sulla via che conduce alla stazione.

Non è più notte. Non è nemmeno giorno. Diffusa nello spazio, un’ambigua luce, uguale a quella che si vede guardando il cielo attraverso un vetro giallo. Sorda l’aria, e immobile: una fascia d’ovatta. Così nelle campagne, quando cade la neve.

Ella cammina cammina. Deve andare a prendere il treno, per un paese lontano; ma ignora che treno sia, nè che paese. Cammina cammina. Ed ecco: s’accorge che è senza valigia. Dove l’ha lasciata?... Come farà, nel collegio, senza valigia?... Poi s’accorge ch’è senza scarpe e senza calze. I suoi piedi nudi non toccan nemmeno la terra, non soffrono d’essere nudi. Ma come farà a presentarsi alla direttrice, senza scarpe e senza calze?... La crederanno una mendicante: la cacceranno via.

Vorrebbe tornare indietro: non riconosce più il cammino. Non è più la sua, quella strada di cui non sa il nome e non vede la fine, fiancheggiata da case deserte e da prati. Chiede a una donna imbacuccata in un mantello, che le sorge ad un tratto d’accanto: — È questa la via che conduce alla stazione?... — La donna si volge: — Da queste parti non v’è stazione. — E nel volgersi ride; ed ella la ravvisa: è Daria: sono i suoi denti puntuti, i suoi occhi di smalto azzurro, senza sopracciglia. Vorrebbe chiederle: — Perchè è morto il tuo bambino?... Perchè hai abbandonato Nani?... — Non giunge in tempo: è scomparsa.

Ed ella va va va, fin che trova un’altra donna, diritta contro una porta chiusa. Anche a lei chiede: — È questa la via che conduce alla stazione?... — Ha già veduto altre volte quell’alta persona, quel profilo d’imperatrice.

È la contessina Augusta, con la sua veste dell’ultimo ballo, di velo rosa a innumerevoli volanti, e sui capelli una ghirlanda di gelsomini.

— Questa?... Questa è la via dell’amore. Non vedi quante rose?...

E anch’ella scompare.

Rose?... Non ne scorge. Forse si saranno nascoste, perchè non la vogliono, così, senza scarpe, senza calze, senza valigia. Così, vestita come una poveretta... Bisogna andare a cercarle. Ma ai piedi, con un brivido, sente il freddo dell’acqua. Non più strada, nè prati: dappertutto acqua. Di dove è venuta?... Livida, quieta, a perdita d’occhio. Salvarsi è impossibile. Già le sale alle ginocchia, le arriva al cuore il gelo di quella cosa ondeggiante, nemica, perversa, che le vuol male, che la soffocherà...

— Mamma!...

La madre, che cominciava ad assopirsi, s’è destata all’urlo, di soprassalto; e stringe fra le braccia la fanciulla scottante di febbre.


In treno per Pandino, rozza borgata della Bassa, un pomeriggio dell’ultima decade d’agosto.

Alcune violente febbri nervose l’hanno lasciata pallida pallida e senza forze: le narici le si sono affilate: un plumbeo cerchio alla fronte non l’abbandona mai.

La mamma, preoccupata, le ha detto: — Scrivi alla zia Nunzia, chiedile che t’accolga per qualche settimana nella sua fattoria. Non può dirti di no: in fin de’ conti sei la figliuola di suo fratello!... Respirerai un poco d’aria libera, farai buon sangue: devi pur metterti in buone condizioni, per lavorare quest’autunno. In casa di contadini si mangia male, lo so; ma per donne come noi, avvezze al latte e alla minestra, ce n’è fin troppo.

— E tu, mamma, tutta sola?...

— Io?... Non ci pensare. Va, benedetta.

Ed eccola in treno per Pandino.

Quante mosche!... E che peso di afa!... Il trenino procede a stento, tutto sbalzi e scossoni: nello scompartimento di terza classe, sozzo di cartacce e di detriti, pochi villici male odoranti discorron fra loro di mucche e di raccolti, masticando tabacco e scaracchiando in libertà: una popolana in un angolo allatta il suo bambino, con le palpebre chiuse sotto l’oppressione della calura; e gocce di sudore sporco le colano lungo l’incavo dei seni. Zia Nunzia è pronta al cancello della stazioncina del borgo: aguzza gli occhietti, ride da tutte le rughe, stende le braccia. È piccola, rotonda, bonaria; ma perchè tante rughe?... Il suo largo viso è un crivello. Richiama, invecchiato, il viso del «marito della mamma», riprodotto nell’unico ritrattino (un dagherrotipo) che in casa si conserva; ma la nipote si sforza invano di sentir dentro di sè, per lei, la voce del sangue.

S’avviano, a piedi, per scorciatoie fra i campi, verso la casa colonica. L’eccessivo calore ha velato il sole: il sereno è scomparso nell’indeterminatezza d’accecanti vapori: tutto è grigio di polvere, sofferente di sete, immobile in stupefazione.

Gran quantità di domande va rivolgendo zia Nunzia alla nipote, che le risponde con dolcezza; ma pensando ad altro. Anzi non pensa a nulla. Respira, con dilatati polmoni, ne’ suoi elementi naturali: la campagna, e l’estate. Tutti i suoi sensi rispondono, docili, soddisfatti, a quella pianura che non rivela altri confini se non il cielo; e riposano, senza desideri, in quella fissa uniformità lineare. Nei campi si lavora; ma le figure dei contadini forman parte della smisurata solitudine. Lavorano, o pregano?... Ella sente che potrebbe pregare qui, fra le distese del granoturco e gli aromi dell’agostano, come sotto le arcate della chiesa di San Francesco.

Le sono ignoti, sinora, i mari, le colline, le montagne. Per essa il mondo consiste in quella pianura senza mutamento, intersegnata da fughe rettilinee di gelsi, da scorrer geometrico di fossi e di canali; e che pur si fonde con la trasparenza dell’aria e con l’arco sublime del cielo in una bellezza nella quale tutto si placa.

Se al proprio spirito ella dovesse dare una forma, sarebbe tale e non altra.

A pochi passi dalla casa colonica, il lezzo d’un letamaio le ferisce le nari, le penetra nella gola e nello stomaco, con violenza d’acredine sensuale; ma non l’urta: anzi, le piace, come un forte liquore. Le sembra che il respirarlo a lungo la renderà ubbriaca; ma nel medesimo tempo la guarirà.

Anche l’aia le piace, ben battuta, con il portico ingombro di carri e d’attrezzi rurali, con un fico nano abbarbicato all’angolo di levante, e all’ingiro i colmi fienili e più in là le stalle: anche la cucina, con il basso focolare e i piatti a fiori smaglianti nelle rastrelliere, e molte panche torno torno, come all’osteria: sulle quali si mangia con la ciotola in mano.

Non le duole più il capo. Quell’odor di campagna, quella quiete di vita rustica l’assopiscono in un torpore di benessere, che è, però, soltanto del corpo.

L’animo è ancor con la mamma: triste la sera, lontano da lei. Il cielo sull’aia è basso, cielo d’agosto pesante di stelle: a tratti ne muore qualcuna, con uno strappo e un guizzo d’agonia. Il capoccia, nodoso come un salice, fuma la pipa, tra i familiari ridacchianti. Ella se ne sta presso di loro, umile, estranea. Pensa che è sola a veder morire quelle stelle. La sua coltura non le serve a nulla; nemmeno a farsi comprendere da quella gente della sua stirpe, che vive in comunanza con la terra senza averne la purità, con le mucche, le galline, le scrofe, senza l’innocenza che le rende irresponsabili e sacre. Soffre del linguaggio aspro, dei gesti volgari, del tanfo di carne sudata, del cattivo cibo, al quale preferirebbe (ma non osa chiederla) una tazza di latte appena munto.

Dura, inquieta, torbida notte: in un letto dal pagliericcio crocchiante e pungente, dalle lenzuola di ruvida canapa, fra rauco russare di donne massicce in traspirazione.

Da poco è assopita, quando un richiamo la fa sobbalzare, stridendole negli orecchi.

È il canto del gallo.

Non l’udì mai in piena campagna: nè così vicino, così contropelle.

Leggerissimamente posa i piedi a terra: nessun movimento nei letti accosto. Dormono tutti ancora, anche nelle altre camere; ma sarà, certo, per poco. Ella esce, pian piano, sul ballatoio di legno.

Ripete il gallo la sua cantata: la voce aspra, imperiosa, piena di letizia e di prepotenza, sega l’aria con acutissime punte. Dalle cascine, dalle casupole, altri gli rispondono, con allegria aggressiva, quasi feroce.

— Su!... Basta dormire!... Basta sognare!... Su, al lavoro!... Scampo non c’è!...

È la prealba immobile.

All’orizzonte, sola, la stella mattutina, intenta come uno sguardo.

Alla giovinetta la campagna ancor non appare che quale una massa d’ombra, rotta qua e là da grigi fantasmi di casolari; e pure la sente fradicia di guazza, tutta fresca e pronta per la nuova giornata.

La terra. Che dà il pane. Eccola lì. La possiede con gli occhi. Può discendere, toccarla, abbracciarla, scomparirvi. Una cosa sola con essa, vivente e fermentante.

Così, ancor bambina, ella udì in un’alba di primavera parlare il Giardino del Tempo; e ne comprese il linguaggio; e, vedendo i cirri del mattino camminare per l’aria dandosi la mano, s’accorse che il cielo era in lei, come lei nel cielo. Sensazione d’eternità, che ora si ripete: verità essenziale, esser viva, viva e presente: in lontananze senza limiti sprofonda l’infanzia, a orizzonti senza limiti s’affaccia la giovinezza. Il suo respiro sale dalle umide profondità della terra per dilatarsi fino a quella stella ch’è rimasta ultima incontro al giorno. — Sono io, son qui — ella pensa, riconoscendosi nello spazio come in uno specchio. Lavorare?... Per esser degna di vivere?... Benissimo. Finora ha covato, raccolta: zolla nella notte. La sveglia brutale dei galli fa a strappi il silenzio, ferisce il raccoglimento; ma è anch’essa necessaria; e, perchè necessaria, sacra.

Sotto il cielo sempre più pallido cominciano a disegnarsi i contorni delle cose terrestri. Lenti rotolii di ruote già vengono dalle carraie. La porta della casa colonica cigola sui cardini: fra il sì e il no della prima luce esce il capoccia con i due figli maggiori, diretto ai campi: s’ode il richiamo gutturale d’una delle ragazze, che apre la stalla per condurre le mucche al pascolo.


Milano, luglio-dicembre 1920.

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