< Storia dei Mille
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In marcia Il nemico

A Salemi.


A levata di sole, il giorno appresso che era domenica, la colonna si mise in cammino. Andava alla testa la 1ª Compagnia con Bixio, il quale aveva l’ordine d’avanzarsi zarsi fino a Salemi, grosso borgo che fu presto veduto apparire lontano in cima a un monte. Bella vista a guardarlo, ma poveri petti! La salita lassù fu faticosissima e lunga; però, quando le compagnie vi giunsero, provarono un forte compiacimento. Tutta la gente aspettava gridando: «Garibaldi! Garibaldi!» storpiandone il nome con alterazioni strane; ma insomma era un vero delirio. E le campane squillavano a festa; e una banda suonava delle arie eroiche. Via via che le compagnie giungevano nella piazza, si trovavano avvolte da uomini, da donne, persin da preti; e tutti abbracciavano, molti baciavano, molti porgevano boccali di vino e cedri meravigliosi. Ma v’erano anche dei poveretti, troppi! i quali stendevano la mano per dar a capire d’aver fame, facevano certi segni da parer nemici se non fossero stati i loro occhi pieni di umiltà. — E noi pure abbiamo fame! — rispondevano quei soldati stizziti, ma parecchi davano degli spiccioli a quella povera gente, che largiva loro dell’Eccellenza.

E Garibaldi qual è? Domandava la folla. Passava Türr. E’ questo? No. Passava Carini. Dunque sarà questo? No. Ognuno dei più belli e prestanti tra i grandi della spedizione, per essa doveva essere Garibaldi. Chi sa quale se lo immaginavano! Ma quando lo videro, quei siciliani quasi quasi si inginocchiarono. Oh che viso, che testa, che santo! Egli sorridendo si levò come potè dalla turba, e andò a mettersi al suo lavoro.

Cominciava così a formarsi intorno a lui la leggenda che pigliò poi tante forme; da quella che un angelo gli parasse le schioppettate, a quell’altra che fosse parente di Santa Rosalìa e fin suo fratello.

Stettero poco a giungere delle cavalcate da tutte le parti, e poi drappelli di insorti come quei della notte avanti, a cento, ducento, trecento; e chi portava lo schioppo ancora a pietra focaia, chi la doppietta, chi fino il trombone. I più erano armati di picche, e tutti insieme, per quelle viuzze a salite e discese ripide, facevano un chiasso più da sagra che da rivoluzione. Ma si udivano anche delle grida ingiuriose ai Borboni, e delle canzoni che ferivano il nome di Sofia regina. E spiacevano.

Dopo mezzodì fu affisso alle cantonate un proclama.

— Ah! Ora dunque tutto è nelle mani sue! — dicevano i militi, e pareva loro che quel titolo di Dittatore infondesse una forza di disciplina superba. E pensavano al nemico. Non si sarebbe fatto vedere! O bisognava andare a trovarlo? Già, di salir lassù a Salemi per trovar loro, non avrebbe certo tentato. Chi sapeva mai! Ma a buon conto, già dalle prime ore, erano partiti per gli avamposti i Carabinieri genovesi, e più lontano ancora era andata una mezza squadra della Compagnie di Bixio. In quella squadra, comandata dal giovanissimo Ettore Filippini veneziano, si trovavano da semplici militi Raniero Taddei ingegnere e Antonio Ottavi tutt’e due da Reggio Emilia, ufficiali esperti e considerati nelle guerre passate; e così da quella parte il servizio di campo era bene affidato.

Intanto gli artiglieri avevano già piantato alla meglio una sorta di officina, dove lavoravano a costruir gli affusti pei canoni di Orbetello. Giuseppe Orlando e Achille Campo, coi soli e primitivi strumenti che avevano potuto trovare dai carrai di Salemi riuscivano a far miracoli di meccanica; e il giorno dipoi i tre cannoni e la colubrina, rimessa un po’ a nuovo anch’essa sul suo carretto, facevano buona promessa che nello sparo non si sarebbero, rimboccandosi indietro, avventati addosso ai loro serventi.

E quel giorno fu veduto giungere in Salemi un giovane monaco, raggiante di quell’allegrezza che ognuno ricorda d’aver letto in viso ai sacerdoti del ’48. Chi non aveva udito benedire la patria da qualche pulpito, in quell’anno che pareva ancora tanto vicino? E poi appresso, dall’oggi al domani, le chiese erano divenute mute. Pio IX s’era disdetto, e la coscienza delle moltitudini tra la patria e la religione s’era confusa. Pure, a non lungo andare, le moltitudini avevano poi ripreso lume da sè, e poichè la patria doveva a ogni modo rifarsi, o s’erano messe ad aiutar la grand’opera, o se non altro avevano lasciato che si andasse svolgendo, spettatrici non ostili nè indifferenti. Ma laggiù nell’isola, dove il clero viveva ancora delle passioni civili del popolo, i sacerdoti in generale erano caldi patriotti.

Quel monaco si chiamava fra Pantaleo. Era un bello e robusto giovane di forse trent’anni, che parlava come se fosse uscito allora da un cenacolo miracoloso, donde avesse portato via il fuoco degli apostoli nell’anima e nella lingua. Piacque ma non a tutti. Tra quella gente dell’alta Italia, v’erano i diffidenti e gli avversi per sistema agli uomini di chiesa; ma poichè Garibaldi accolse bene il monaco, e lo chiamò l’Ugo Bassi delle sue nuove legioni, anche quelli rispettarono il frate e lo lasciarono predicare. Intanto riconoscevano che la parola di lui immaginosa e ardente era una forza di più.

Continuavano ad arrivare squadre alla spicciolata, e tra quello scorcio di giornata e tutta l’altra appresso si potè calcolare alla grossa che quegli insorti fossero già due migliaia. Non dovevano essersi mossi da lontanissimo, anzi era da presumersi che fossero tutti della estrema parte occidentale dell’isola; dunque una volta che Garibaldi si fosse avanzato verso il centro, si sarebbe trovato tra popoli che avrebbero fatto levar su il fiore della gioventù pronta a seguirlo. Frattanto quelli che erano già lì si mostravano ossequenti, guatavano con occhio cupido i fucili dei Mille, che per quanto meschini erano sempre armi da guerra; ma discorrendo di fatti d’arme, essi così saldi a star al fuoco e a sparar da fermi contro il nemico, essi così destri e fieri nei loro duelli ad armi corte, se sentivano parlar d’attacchi alla baionetta, quasi raccapricciavano.

Piovve dirotto tutta la notte tra il 13 e il 14, e poi tutto quanto questo giorno con tedio grande e grande stizza di tutti, perchè il mal tempo li faceva indugiar lassù in quell’ozio. Ed essi erano tormentati da un desiderio inquieto di trovarsi alla prima prova, per esperimentare il nemico con cui avevano da fare, e di cui, non sapendo nulla di preciso, sentivano dir le cose più stravaganti. Neppur dagli avamposti avevano segno che fosse in movimento. Che faceva?

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