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In marcia.
Alla chiamata non mancava neppure un uomo. Ed era naturale. Ognuno sentiva in sé il pericolo di rimaner isolato; ognuno, per quanto piccolo, aveva coscienza della propria responsabilità. Quasi staccati dal mondo, ridotti per dir così in un campo chiuso dove erano discesi a mettersi da sè, comprendevano, chi più chi meno, molti forse confusamente, che trovarvisi non voleva dire soltanto essere in guerra contro altri soldati ne’ quali da un’ora all’altra si sarebbero imbattuti; e che quella che erano venuti a cercare non era una guerra come tutte le altre. Vincere dovevano ad ogni costo, perchè dall’isola non potevano più uscire che vincitori; ma soprattutto bisognava non lasciar perire Garibaldi. Era coscienza dunque che ognuno desse tutto sè stesso, e che tutti insieme si facessero amare dal popolo siciliano per virtù e purezza in tutte le azioni. Perciò si udirono fieramente rimproverar dai compagni certi pochi che nella notte s’erano dati bel tempo. Diceva Enrico Moneta da Milano, piccolo soldatino della 6ª Compagnia, di diciannove anni, uno dei quattro fratelli che l’anno avanti erano stati Cacciatori delle Alpi, diceva che chi era là per aiutare quel mondo a mutarsi, doveva badare ad essere austero ancor più che prode. — Per di più, quella che stava per accendersi era sotto un certo aspetto una vera guerra civile. E se per quella trafila doveva passare l’Italia a divenire nazione, bisognava badare a farsi onore e a far onore anche al nemico pur vincendolo, per lasciargli possibile l’oblìo della sconfitta senza viltà, e facile e pronto il ritorno all’amore.
Tali spiriti si venivano formando negli animi anche di quelli che non avrebbero saputo spiegarsi a manifestarli, così come uno quasi senza che se ne avveda si ritempra in un’aria pura.
Schierate fuor di Marsala sulla via che mena a Sciacca, stavano tutte le compagnie con gli altri piccoli corpi. Il tempo era bello e fresco, la guazza sull’erbe magre di quello spiazzo pareva quasi una brinata. Il mare dormiva: lontani, già verso l’Egadi, i legni napolitani rimorchiavano via il Piemonte. E per tutto era una quiete diffusa, anche nella città che pareva avesse già dimenticato il turbamento del giorno innanzi. Pochi cittadini si aggiravano attorno alle compagnie. Qualcheduno armato di doppietta era là per seguirle. Faceva senso tra gli altri un signore, forse di trentacinque o quaranta anni, taciturno e pensoso. Si chiamava Gerolamo Italia. Egli di là fino all’ultimo di quella guerra nel Regno, marciò poi, fido alla 6° Compagnia, semplice milite, sempre pensoso e modesto.
Una tromba suonò in distanza, poi comparve Garibaldi a cavallo. Indossava camicia rossa, portava i calzoni grigi da generale ma senza le strisce d’argento, e in capo teneva il suo solito cappello della foggia che allora si diceva all’Orsini o anche all’ungherese, come glielo hanno poi fatto gli scultori quasi in tutti i monumenti; e gli sventolava dietro un gran fazzoletto annodato al collo. Teneva il mantello americano ripiegato sull’arcione davanti. Dietro di lui cavalcavano il suo stato maggiore e alcuni delle Guide, Nullo tra gli altri, bellissimo nella sua divisa del ’59, tutta grigia con alamari neri e galloni da sergente. Pareva col suo cavallo un solo getto di bronzo. Il Missori indossava la giubba rossa da ufficiale con alamari d’oro.
Al passaggio del Generale non furono presentate le armi. Egli certe cose non le voleva. Tirò via, guardando le Compagnie molto ilare in viso; poi queste si mossero, fianco destro, trombe in testa e partirono. Quelle trombe suonavano le arie semplici ma pungenti de’ bersaglieri di La Marmora; il passo delle compagnie era franco, nessuno si sentiva più mareggiare il terreno sotto, come il giorno innanzi dopo lo sbarco; e quando spuntò il sole cominciarono i canti.
A forse un miglio da Marsala, la testa della colonna svoltò per una via traversa che, staccandosi dalla consolare, menava verso l’interno tra vigneti allora già in pieno rigoglio. Passati i vigneti cominciarono gli oliveti, e pareva che quella prima marcia dovesse condurre a vedere maravigliose colture. Verso le undici la colonna fece il grand’alto in una conca, presso una casa bianca, fresca, silenziosa, con a ridosso delle fitte macchie d’olivi vetusti. Là, Garibaldi, seduto a’ piedi d’uno di quegli alberi, come se fosse l’ultimo di quella gran Compagnia, si mise a mangiar del pane. Tutta la conca era popolata di gruppi, tutti mangiavano gagliardamente il saporito pane di Marsala; quanto a bere, pei novellini che s’erano imbarcati senza fiaschetta, c’era presso la casa un pozzo, e intorno a questo molti facevano ressa contendendosi un poco d’acqua. Il Generale guardava con certa compassione quei poveri ragazzi: «Poveri ragazzi!» come fu udito dire egli stesso.
Ripresa la marcia, spuntato il valichetto del colle in cui giaceva quella conca, la colonna si vide davanti una distesa ondulata senz’alberi, senza case, il deserto. — Come la Pampa! — dicevano alcuni che nella loro vita avevano visto l’America. E in quel deserto s’inoltrò la spedizione, sotto un sole, ah che sole! E che peso i panni! Felici coloro che ne avevano appena indosso tanto da non andare scoperti.
E quella prima marcia fu una gran prova, ma nessuno rimase indietro. Eppure c’erano dei giovanetti che ad ogni passo parevano doversi lasciar cadere in terra sfiniti. Ma lo spirito li reggeva, e continuavano a marciare, aiutati anche dai compagni più esercitati che levavano loro fino il fucile, tanto che ricogliessero un po’ di fiato.
Dove mai si sarebbero fermati?
Per quanto guardassero a sinistra, a destra e davanti, nulla, mai un ciuffo d’alberi, mai una casa. Cos’era dunque la Sicilia già granaio d’Italia? Degli uomini pratici di campi dicevano che tutta quella miseria dipendeva dal diboscamento, altri che dai latifondi, dal feudalismo, dai frati. Il fatto era che quel deserto metteva un senso di sgomento nei cuori. Là sarebbe stato bello trasformarsi in un esercito di legionari alla romana con la marra, la vanga e gli aratri di Lombardia! Ma là non c’erano le acque di Lombardia; anzi non ci si trovava neppure da dissetarsi. E alcune voci intonavano il coro del Verdi: Fonti eterne, purissimi laghi....
Finalmente quando già si faceva sera, apparve lontano un corpo di casa massiccio e scuro, su d’un rilievo un po’ più spiccato di quella campagna. Era il maniero di Rampagallo, che si chiamava bellamente feudo, come se là il feudalismo fosse ancora una cosa viva. E tutto, dai muri massicci, alle finestre, alla gran porta, ai cortili dentro, ai contadini che vi si aggiravano, tutto vi aveva infatti una fisonomia d’antichità corrucciata.
Le Compagnie si accamparono davanti a quel vasto casamento su d’un pendìo erboso, che dopo l’arsura della lunga giornata pareva dar un carezzevole senso di refrigerio. A piè dei lor fasci d’arme, mangiarono il loro pane, e in silenzio si addormentarono.
Ma i pochi che per servizio dell’accampamento vegliavano, videro di prima notte entrar nel gran cortile di Rampagallo una piccola schiera d’uomini, forse sessanta, condotti da tre o quattro cavalieri, alti su degli stalloni piuttosto che sellati, bardati, con attraverso sulle coscie dei lungi fucili. Gli uomini a piedi erano armati di doppietta, con alla vita la ventriera per le cartucce e qualche pugnale. Vestivano panni strani, parecchi avevano sopravesti e cosciali di pelli caprine, e portavano in capo dei berretti quasi frigi o dei cappellacci a cencio. I loro capi, fratelli Sant’Anna e barone Mocarta, passarono da Garibaldi. Egli fece liete accoglienze a quel primo manipolo che la Sicilia armata gli dava; la scena era quasi da medio evo: pareva proprio che in quelle ore in quel luogo quei signori fossero giunti per prestare l’omaggio a un conquistatore.
Ma Garibaldi che sapeva ricevere come un re, nello stesso tempo sapeva parere quasi inferiore a chi gli si presentava, onde quel fàscino e quel suo dominio sui cuori, da cui subito quei siciliani si sentirono presi. E uscivano da quel ricevimento, magnificando.