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Il proclama.
A guardia del porto, se mai dalle navi borboniche sbarcasse della gente, rimasero la 7ª Compagnia e i Carabinieri genovesi. Con le loro infallibili carabine, quei genovesi, che, per dir così, davano in una capocchia di chiodo a trecento metri, avrebbero presto levato ogni voglia di sbarcare a chi l’avesse tentato. Da mare dunque Garibaldi non aveva a temere. Da terra sì. Per questo mandò ricognizioni verso Trapani e verso Sciacca, fece uscire dalla città quanto potè più delle Compagnie, fors’anche non si fidando dei vini del paese pei loro effetti sulle teste di quei suoi uomini, i quali in cinque giorni non avevano mangiato che poco biscotto e bevuto acqua di botte quasi imputridita. Per esplorare il paese montò egli stesso sulla cupola della Cattedrale, cui passarono subito ben vicine due granate delle navi che avevano visto gente lassù. Disceso andò al Municipio, e di là disse alla Sicilia la sua prima parola:
- «Siciliani!
«Io vi ho condotto un piccolo pugno di valorosi, accorsi alle vostre eroiche grida, avanzi delle battaglie lombarde. Noi siamo qui con voi, ed altro non cerchiamo che di liberare il vostro paese. Se saremo tutti uniti sarà facile il nostro assunto. Dunque, all’armi!
«Chi non prende un’arma qualunque, è un vile o un traditore. A nulla vale il pretesto che manchino le armi. Noi avremo i fucili, ma per il momento ogni arma è buona, quando sia maneggiata dalle braccia di un valoroso. I Comuni avranno cura dei figli, delle donne, dei vecchi che lascerete addietro! La Sicilia mostrerà ancora una volta al mondo, come un paese, con l’efficace volontà d’un intero popolo, sappia liberarsi dai suoi oppressori.»
Di questo proclama, affisso alle cantonate di Marsala, furono mandati esemplari alle città vicine, e lontano alle squadre che tenevano i monti. Bisognava che la gran voce andasse, e rinfiammasse la rivoluzione già quasi vinta.
I Marsalesi leggevano e cominciavano a comprendere, coloro che cinque giorni avanti non avevano osato insorgere al grido di Abele Damiani, loro concittadino, adesso pigliavano animo, seguisse poi ciò che potesse, perchè con quegli italiani c’erano pur Crispi, La Masa, Orsini, Palizzolo, Carini, tutti dei loro, proprio dell’isola, e tutti già celebri fin dal ’48. E poi avevano visto Lui, Garibaldi in persona. Se la colonna del generale Letizia, che il giorno avanti aveva fatta la sua comparsa minacciosa, e se n’era andata credendo di lasciarsi dietro tutto tranquillo, fosse anche rinvenuta; avrebbero avuto da far con Garibaldi, con quei suoi ufficiali facili a riconoscersi per uomini di guerra sul serio, con quella gente un po’ d’ogni età ma pratica d’armi e disciplinata, con loro infine e con la loro città che si sarebbe difesa.
Anche il popolino pigliava via via confidenza con quei forestieri. Nelle taverne, nelle botteghe dove essi entravano per rifocillarsi e provvedersi di qualche cosuccia necessaria, la gente faceva subito folla. E si tratteneva a sentirli parlare. Come erano buoni e cortesi! Le donne osservavano che molti portavano i capelli lunghi, cosa strana per soldati, e che avevano gli occhi azzurri e le mani fini e panni indosso da veri signori. I bottegai ricevevano le monete con su l’effigie di Vittorio Emanuele, mirando e facendo mirare i gran baffi del Re di cui avevano sentito parlar vagamente, e domandavano se Garibaldi fosse suo fratello. Davano i resti in mucchi di monete luride e fruste, e facevano tutto gli uni e gli altri con gran fidanza. Quelle non erano ore da inganni.
Correvano intanto dei racconti curiosi di particolari minuti dello sbarco, un fatterello seguìto qua o là, a questo o a quell’altro di questa, di quella Compagnia. Faceto, nel serio, ma vero, si diceva che appena sceso a terra, un Pentasuglia, pratico del mestiere, era entrato nell’ufficio del telegrafo, dove l’impiegato aveva appena finito di annunziare a Palermo e a Trapani che gente armata sbarcava da due legni sardi. Ripicchiavano appunto da Trapani, domandando quanti fossero gli sbarcati; e il Pentasuglia aveva risposto egli stesso: — Mi sono ingannato, sono due vapori nostri. — Poi, stato un istante ridendo a sentirsi dare dell’imbecille da Trapani, subito aveva tagliato il filo.
Dunque la gran notizia era andata, e a quell’ora la avevano già a Napoli nella reggia. Ivi che sgomento e che collera! Se ne aspettavano ben altra. Il giorno 6 avevano saputo della partenza di Garibaldi da Genova, e protestato col telegrafo a tutte le Corti d’Europa contro il Pirata e contro chi lo doveva aver favorito. La mattina del 7, il Re era andato a far le sue divozioni a San Gennaro, e il Governo aveva mandato ordini alla flotta «d’impedire a ogni costo lo sbarco dei filibustieri; di respingere con la forza; di catturare i legni.» Poi erano stati quattro giorni d’angoscia mortale. E ora lo sbarco era avvenuto! Ma ancora assai che l’invasore era andato a mettersi dal punto più lontano dalla Capitale! Tempo e spazio a schiacciarlo non sarebbe mancato. Pure il colpo era tremendo.
Ancor più tremendo il colpo doveva essere sentito a Palermo, dove il luogotenente del Re, principe di Castelcicala, e i generali e l’esercito avevano così vicino l’uomo temuto. Chi sapeva mai in quale trambusto era la gran città, se anche la popolazione era già venuta a conoscere che il Garibaldi annunziato da Rosolino Pilo stava in Sicilia davvero?
Intanto a Marsala bisognava vegliare. Potevano giungere nella notte numerose truppe da Trapani, da Sciacca, dal mare; e l’impresa garibaldina, così ben riuscita nella traversata e nello sbarco, finire là in quella piccola città come già quella di Pisacane a Sapri.
Ma la notte passò tranquilla; verso l’alba furono ritirati gli avamposti, raccolte le compagnie e tutto approntato per la prima marcia verso l’interno.