< Storia di due anime
Questo testo è stato riletto e controllato.
I III

II.


Nella freschissima mattinata di aprile, avanzando l'ora, il vivido sole primaverile si dilatava, luminosamente, nella grande piazza di santa Maria la Nova, chiariva il grigio travertino sulla facciata dell'antico convento, bagnava di luce calda i meschini alberelli del brevissimo giardinetto, sui cui rami già erano spuntate le povere piccole foglie, di un verdino smorto; toccava il sole, già, i primi gradini, a sinistra, della pomposa doppia scalea innanzi la vecchia chiesa; saliva, saliva, tanto da invadere tutto l'esterno del tempio maestoso, il grande finestrone centrale, i cui vetri scintillavano, il grande arco della porta nerastra, otturata dal pesante drappo oscuro, il vasto pianerottolo esterno a cui ascendevano i due rami della scalea, la balaustra di pietra, curiosamente lavorata; e giungeva, il sole, crescendo la mattinata, sino ai magazzini di mobili di Vincenzo Troise, sino a via Monteoliveto, sino alla stretta imboccatura dei Guantai Nuovi. E l'ampio spazio, sin dalla viottola, in fondo, che andava alla Madonna dell'Aiuto, la piazza sin sotto i grandi palazzi laterali Schisa e Gargiulo, il giardinetto, i tre gradini del portone del convento, la via lungo la chiesa, le due scalee, rigurgitavano di gente del popolo, mentre, dal fondo, sempre ne arrivava, mentre sui balconi, sui balconcini, dalle finestre, donne e bimbi si spenzolavano. La folla era fatta di donne in capelli, già con la baschina di mussolina dell’estate e la gonna di cretonne, pettinate accuratamente, con torrioni neri di capelli, e sciatte nel resto della persona, talune in pianelle, talune con gli zoccoli; altre già incivilite, con la camicetta delle borghesi, la camicetta a piegoline, la gonna sgheronata e la cintura con la fibbia; a gruppi di tre, di quattro, insieme, chiacchierando, ridendo, esclamando, urtandosi e, insieme a loro, bimbe e bimbi, alcuni poppanti, avvolti nello scialletto tradizionale di lana rosa o di lana celeste, altri attaccati alle gonne materne, strillanti per esser presi sulle braccia. Fra costoro, molti mendichi, venuti dalle porte delle altre chiese, poco lontane, l’Ospedaletto, san Giorgio dei Genovesi, la Pietà dei Turchini: mendicanti pinzocchere, vestite di nero, col fazzoletto bianco al collo; un cieco, con la borsetta delle Anime del Purgatorio; un altro cieco, condotto da un ragazzo; la pazza del quartiere, che si diceva una principessa, e che apostrofava col tu i passanti, dando loro dei titoli nobiliari, una piccola donna dai capelli biondo-verdastri, dal volto giallo, dal cappelletto di paglia nera sfondato; una mendica con cinque ragazzi, attorno, vestita di nero, truccata perfettamente da vedova, e i ragazzi da orfanelli, o, forse, veramente vedova, con cinque orfanelli; e un epilettico, noto in tutto il rione, smorto, dalla faccia contratta, coi capelli rossi e ispidi. Tutti questi mendichi si erano arrampicati per i gradini delle scalee, guardati di traverso, vituperati dai mendicanti consueti di santa Maria la Nova. E famiglie borghesi, tornanti dalla messa di Pasqua, si eran fermate, fra il popolo: ragazze che si tenevano a braccetto, già libere dei mantelli invernali, mostranti il vitino sottile, alcune; altre grosse e goffe, accanto a madri scarne e scialbe o enormi come botti, accanto a padri vestiti dei panni domenicali, silenziosi, pazienti, un poco stanchi, ma pazienti.

E le campane di Pasqua suonavano, a distesa, più vibranti in quel quartiere che unisce Napoli aristocratica a quella borghese e popolare, in quel quartiere pieno di chiese, quasi tutte molto antiche: e l’orecchio, abituato, avrebbe potuto, nell’aria lieve primaverile, distinguere la voce sonora di san Giovanni Maggiore, dalla musicale campana di santa Chiara, mentre le altre, minori, mandavano i loro squilli, dalla parrocchia della Rotonda, da san Bartolomeo, da santa Barbara, dall’Ecce Homo; e tutto era intonato gaiamente, più fievole, più forte, lontanissimo, lontano, vicino. Un’aria di festa, invero, era, non solo nella giornata d’aprile col suo sole già tiepido, col suo scampanìo giocondo, ma era, anche, nella folla ondeggiante, nei panni chiari onde donne e uomini erano vestiti, nelle risa delle giovani e dei bimbi, nel grido dei venditori ambulanti che offrivano le viole di Pasqua bianche e rosse, che offrivano le prime fragole ne’ panierini, che vendevano mille cose piccole e semplici, lacci per le scarpe, anelli per le chiavi, spilli e forcinelle; un venditore di caramelle e di franfellicchi, offriva la sua merce; era in circolazione, persino, un acquaiuolo ambulante, con le sue bombole di acqua ferrata, quasi che già si fosse in luglio. Sempre le campane risuonavano, le campane che, sino al giorno prima, erano state silenziose, nel lutto dei giorni di Passione; ora vibravano da tutte le parti, e dominavano i fremiti della gente, la quale, con gli occhi fissi sulla porta della chiesa, sentiva crescere la sua curiosità e la sua impazienza.

Vi furono due o tre falsi allarmi; e la folla fluttuò, avanti, indietro, come le onde del mare vanno e vengono, e due o tre volte, le stesse parole furono ripetute, da quelle bocche, in tono più alto, più basso, comunicandosi, di fila in fila.

— Eccoli, eccoli! Gli sposi, gli sposi!

Batteva mezzogiorno quando, veramente, il greve panno imbottito che copriva il vano della porta, nell’arco nero di legno, fu sollevato tutto, per dare passaggio agli sposi: ambedue comparvero, a braccetto, sulla soglia della chiesa, in alto, in fondo alla doppia scalea, isolati innanzi alla gente che era lì, per loro, che li aspettava da un’ora, visibili da tutti quanti, dalla platea gremita che era la piazza, dalle gradinate che erano le scale della chiesa, dai palchi che erano i balconi e le finestre. Interdetti, stupiti, ambedue si eran fermati, e il sole batteva loro sul viso, sulle persone, direttamente. La sposa, Anna Maresca Dentale, appariva nitidamente, in tutta la sua snella, e pur formosa persona, più alta di tutta la testa, dello sposo: il suo vestito di seta bianca, attillatissimo, ne additava tutte le perfette e armoniose linee: e il velo bianco pudicamente abbassato sul volto, era così lieve che spariva, nella luce già radiosa del sole. E si scorgeva una massa profonda di capelli neri rialzati, sopra una fronte bianca, breve, disegnata finemente: un volto di schietta bellezza bruna, su cui si aprivano i grandi occhi neri, larghi, pacati, fieri; su cui si delineava una bocca d’indicibile fascino muliebre, una bocca rossa, florida, tumida, chiusa, senza sorriso, e, intanto, indicibilmente affascinante: un volto ove la delicatezza gentile della carnagione, la purezza di ogni dettaglio, dalle sottili sovracciglie nere alle orecchie rosee, dal nobile profilo alle nari palpitanti, si univa a questa seduzione degli occhi profondi e superbi, a questa seduzione della giovanile bocca freschissima e voluttuosa, pur essendo chiusa ermeticamente. — E un grande grido di ammirazione sorse, discese per i gradini delle scalee, si diffuse nella piazza, salì per le finestre e per i balconi.

— Quanto è bella, quanto è bella, quanto è bella!

Lo sposo, Domenico Maresca, il pittore dei santi, si scorgeva, quale era, nell’insieme poco regolare della sua persona: molto più basso della sposa, con un torace enorme, con un ventre già proeminente, con le gambe magre e corte, col collo breve, su cui pareva si piegasse un testone troppo grosso e troppo pesante. Egli era, in quel giorno, pallidissimo, certo, per l'emozione, per la fatica: su quel pallore intenso appena appena si distinguevano i mustacchi radi, di un biondo così smorto, che covrivano malamente il suo grosso labbro, di un roseo violaceo. Egli era vestito di nuovo, e aveva l'aspetto imbarazzatissimo, degli abiti che non si portano ogni giorno: un thait nero male squadrava le sue spalle rotonde, un poco curve; il suo panciotto bianco rendeva più largo e più evidente lo sformamento del suo busto; i suoi pantaloni neri, facevano mille pieghe disformi, sulle sue gambe scarne. Egli aveva una cravatta bianca che aumentava il suo pallore e portava dei guanti bianchi, che gli dovean dare molto fastidio. E, subito, fra il popolo, fra quelli che lo conoscevano poco o molto, fra quelli che non lo avevan mai visto, fra tutti quanti, intorno, nella piazza, sui balconi, fu ripetuta cento volte, mille volte, la novella impressione:

— Essa è bella, essa, essa è bella, solo essa, solo essa!

Udirono, entrambi. L'orgoglio soddisfatto di Anna Maresca Dentale non diede un lampo ai suoi larghi occhi, bruni e altieri, non diede un sorriso alla tumida bocca, rossa come un melograno: ella procedette verso le scale, come se non avesse udito. Lo sposo, Domenico Maresca, pareva, forse, più pallido che mai, mentre le palpebre gli battevano sugli occhi, contro la meridiana luce del sole: pure, camminò accanto a lei, tenendone la piccola mano guantata, sul braccio. Così piccola mano bianca, sul nero: e così lieve, come lieve e svelto era il passo di questa sposa che penetrava, quietamente, fra la folla, la quale le si serrava addosso, folla curiosissima, ardente, dando in isvariati commenti:

— Possa tu esser benedetta!

— Possa tu riempire di ricchezza la casa!

— Buona salute!

— Figli maschi!

— Bella di faccia, bella di core!

— Beato te, che te la porti!

Lo sposo, adesso, stringeva più forte, al suo braccio, quello della sposa: essi andavano avanti, a grande stento, divisi dal resto del corteo; spesso, dovevano fermarsi. Alle loro spalle, un uomo grande e forte, con aria di autorità, distribuiva dei soldi ai mendicanti, e il tumulto della ricerca, l'accapigliarsi dei poveri, i clamori dei malcontenti, induceva gli sposi a non voltarsi. Un turbamento grande si diffondeva sul viso dello sposo, che, ogni tanto, soffocato fra la gente, si arrestava, indeciso. Ella, invece, serena, dalla fisonomia immobile, sentiva addosso quegli sguardi, sentiva, quasi, addosso, quegli uomini che la spingevano, che sorridevano, che pronunciavano delle parole di ammirazione vivaci e, insieme, qualche parola salace: e non dava segno di vedere, di udire. Due volte, anzi, fu ella che tirò il braccio dello sposo, per incitarlo a camminare.

— Andiamo, andiamo — disse, quasi senza muovere le labbra.

Sì, quasi ella lo conduceva, tanto egli pareva, adesso, confuso e smarrito. Erano entrati nel vicolo della Madonna dell'Aiuto, e la folla si faceva più fitta, in quello strettoio; ogni minuto essi si fermavano, non potendo procedere avanti. Domenico Maresca soffriva, ora, intensamente e malgrado la inespressione del suo scialbo e floscio viso, questa sofferenza si notava, perfettamente. Sottovoce, quasi con un gemito, disse:

— Mi par mille anni di arrivare.

— Se avessi preso la carrozza, questo non accadeva — mormorò ella, con una intonazione di freddo disdegno.

— È vero — disse lui, umilmente.

Ora, le esclamazioni, le osservazioni della gente, fra cui non mancavano i pettegoli, i maligni del quartiere, tutti coloro che conoscevano la storia di Domenico Maresca, il pittore dei santi, e quella di Anna Dentale, la bella figliuola del farmacista fallito, diventano più stringenti, più aspre. Alle orecchie zufolanti di Domenico giungevano, precise, nette e offensive:

— Essa è bella, essa sola!

— Non aveva neppure la camicia, essa.

— Le ha fatto tutto lui.

— E si capisce! Se no, perchè lo avrebbe accettato?

— Quanto è bella!

— Troppo bella, io non l’avrei presa!

— La moglie bella si sposa per gli altri.

— Solo per denaro, essa se lo poteva sposare.

— A rivederci fra un paio d’anni.

— Un anno, compare!

— Una signora, era.

— E perchè ha detto sì?

— Per la miseria.

— Poveretta, la compatisco.

— E io lo invidio, lui!

— Già, già; poi vediamo!

Imperturbabile, la sposa. Anche ella udiva tutto: eppure non si vedevano impallidire o arrossire per la collera, per il dolore, per il piacere, le sue guancie egualmente colorite dal bel sangue ricco di gioventù. L’orgoglio immenso del suo animo si traduceva, perfettamente, sul suo viso bellissimo, in una espressione di anima lontana, impassibile, lontana, diversa da quanto la circondava, diversa, assai diversa, lontana, sovra tutto da colui che le dava il braccio, e che ella aveva sposato, innanzi a Dio, un quarto d’ora prima, in quella mattinata di aprile, mentre il sole avvolgeva il mondo di luce, e le campane di Pasqua rallegravano le anime. Fremente di dolore, a occhi bassi, quasi vacillante sulle sue gambe malferme, era lo sposo, Mimì Maresca, il pittore dei santi, che, parola per parola, beveva tutto il veleno di quei discorsi, dagli elogi clamorosi fatti alla sposa, sino ai vituperii di cui nessuno gli faceva risparmio, e passando innanzi alla sua bottega chiusa, egli vi levò gli occhi, con tale desiderio ardente, con tanto rimpianto disperato, vi tenne gli occhi così disperatamente, come se volesse penetrarne le oscure porte sbarrate e invocarne le figure della Madonna e dei Santi che vi eran celate, che, la sposa, lo dovette quasi trascinare, in quel momento. Essi, erano, oramai, sotto l'arco del portone del palazzo Angiulli: il tragitto, non lungo, che era stato un cammino trionfale per Anna Maresca, e un calvario per Domenico Maresca, era compiuto. Ma la folla, tutta di conoscenze, gridava una sola cosa:

— I confetti, i confetti, i confetti!

E l'uomo grande e grosso, tanto autorevole, quello che aveva dato i soldi ai mendicanti, si postò, insieme ad altri del corteo, sulla soglia del portone, e da certi grevi cartocci che portavano Gaetano Ursomando, lo stuccatore, e Nicolino, lo sciancato, cominciò a lanciare, intorno, manciate di confetti sulla folla. Una rivoluzione di grida, di risa, di proteste, travolse la piazzetta della Madonna dell'Aiuto: la gente saltava, urlava, si accapigliava, si gittava per terra, si graffiava, per portare via i confetti. E solenne, compiendo il rito popolare, don Biagio Scafa, compare di anello di Domenico Maresca, seguitava a lanciare manciate enormi di confetti sulla folla, sul viso della gente, sul petto, dovunque, in aria, sui balconcini di ammezzato, nelle botteghe, fra un clamore che saliva al cielo.


Il quartino in cui, da due o tre anni, si erano ridotti Carlo Dentale, il popolare don Carluccio del rione Ecce Homo, e la sua figliuola Anna, era stato trasformato in quel giorno di nozze, verso l'una pomeridiana, in un seguito di mense, persino nelle stanze da letto; appena appena se la sposa aveva potuto deporre il velo sopra la spalliera di una sedia, tanto mancava lo spazio. E mentre tutte le sue parenti Dentale, in abiti sfarzosi, in cappelli piumati, con grandi orecchini di brillanti, e pesanti collane d’oro pendenti sui petti poderosi, l’abbracciavano con esagerazione, felici, in fondo, di essersi liberate di una parente povera, mentre tutta la parentela Dentale si aggruppava, da una parte, con schifiltosità, per non accomunarsi coi pochi e larghi parenti, coi pochi amici di Domenico Maresca, mentre questa selezione si formava, il farmacista fallito, don Carluccio, che aveva visto altri tempi, che era stato ricco, generoso, anzi prodigo, raggiante di gioia per quelle nozze che gli ridavano una giornata di sua ricchezza, si dava un gran da fare, occupatissimo, distribuendo le grazie dei suoi sorrisi, delle sue strette di mano. Insieme con lui, si affannava, dignitosamente, il ricco e possente compare di Domenico Maresca, don Biagio Scafa, colui che era, nel rione di san Biagio dei Librai, il re della immagine sacra, poichè non una immagine santa di un centesimo, di un soldo, di una lira, di venti lire, si vende in Napoli, si distribuisce in una parrocchia, in una chiesetta, in una congregazione, senza che sia escita dalle botteghe di don Biagio; oscure, recondite, quasi ignote, e formidabili botteghe, come commercio. L’antica amicizia del padre di Domenico Maresca, un giro costante di affari, l’affinità della singolare speculazione, lo aveva additato come compare, al pittore dei santi. Ed era il solo individuo, dal lato dello sposo, a cui tutti i Dentale si degnassero por mente; il solo individuo a cui, ogni tanto, la superba e fredda sposa rivolgesse uno sguardo amabile e il principio di un sorriso; il solo individuo a cui don Carluccio Dentale facesse la corte. Tutti gli altri, dal lato Maresca, cugini, cognati cugini, affini, compagni di arte, compagni di lavoro, gente ignota, che lavorava ignotamente, nelle botteghe proprie o in quelle altrui, alcuni padroni, e altri operai, tutti quanti formavano un gruppo meno folto, isolato, a cui, ogni tanto, Domenico Maresca, rivolgeva un fiacco sorriso incoraggiante. Costoro avevano condotto le loro mogli, le loro sorelle, vestite delle loro più belle vesti: ma non tutte portavano il cappello, queste donne: e sebbene anch'esse avessero esposti i loro giojelli di oro e di perle, questi ornamenti non avevano a che fare, con i solitarii di brillanti e le collane di casa Dentale. Due o tre volte, innanzi a quelle parenti del suo sposo, salutandole, Anna Maresca aveva leggermente aggrottate le sopracciglie: e invece di baciarle, si era lasciata baciare, come un idolo.

— Annina, ecco mia zia Gaetanella Improta — diceva Mimì Maresca, presentando una donna anziana, in capelli, ma in veste di broccato azzurro e nero.

— Piacere... — mormorava la sposa, offrendo la guancia, e voltandosi subito in là.

— Annina, ti presento Raffaele Amoroso, pittore, anche lui, amico carissimo — seguitava a dire lo sposo, superando la sua timidità, e fissando in lei i suoi occhi chiari, dallo sguardo ove la puerilità persisteva.

L’altro pittore dei santi, un vero operaio, quello, con una giacca nera e una cravatta bianca, s’inchinava, molto impacciato.

— Piacere... — ripeteva la sposa, fermando solo un istante il suo sguardo glaciale sull’operaio, senza neppure tendergli la piccola mano, ancora guantata di bianco.

E la selezione, continuava, nel salotto, ove, fra le mense imbandite, un po’ di spazio rimaneva, per queste presentazioni, per questi complimenti: i Dentale, a poco a poco, si formavano in battaglione quadrato, le donne in mezzo, gli uomini ai lati, o chiacchierando quietamente fra loro, o dignitosamente tacite, non guardando neppure dal lato dei Maresca, ove, in verità, malgrado il disdegno di cui tutti eran fatti segno, dalla sposa, dalla sua famiglia, regnava un certo brio grossolano, di tutte le feste di nozze, si scambiavano barzellette, e partivan risate. Ogni tanto, i Maresca, anche quelli che non portavano tale cognome, prendevano in mezzo lo sposo, lo abbracciavano, gli battevano sulla spalla, sulla pancia; le donne, crollavano il capo, sorridendo, a quegli atti di famigliarità, mentre di lontano, la sposa, lentamente, si toglieva i guanti, con atto elegante, assicurava i suoi anelli di brillanti.

— Tutti regali del nipote mio — diceva pomposamente donna Gaetanella Improta, zia dello sposo, sventolandosi con un ventaglio sospeso a un laccio d’oro, dominando il gruppo dei Maresca.

— Pure la broscia? Pure il braccialetto? — si domandava, dai meno informati.

— Tutto, tutto, — replicava la zia — la veste bianca, tutti i vestiti, tutto il corredo, tutta la casa. Ha speso un banco — soggiungeva, concludendo, ringalluzzendosi.

Già le mense s’imbandivano: e con la sua disinvoltura di gran signore decaduto, ma sempre gran signore, don Carluccio Dentale venne collocando gl’invitati, tutti i Dentale alla mensa d’onore e alle migliori mense, tutti i Maresca e gli affini alle più lontane, alle meno comode. Fu fatta eccezione pel compare, don Biagio Scafa, seduto a sinistra della sposa, e per sua moglie, donna Gabriella Scafa, adorna di un vestito di velluto rosso-granato, carico di merletti bianchi, in cui soffocava, tanto era stretto, e che portava un vezzo di perle, famoso in tutto san Biagio dei Librai, messo solo nelle grandissime occasioni; eccezione, anche, per donna Gaetanella Improta, malgrado che non avesse il cappello, ma, come si diceva, da cui sarebbe venuta una eredità, agli sposi. Don Carluccio se la mise accanto, a tavola. I due sposi sedevano in mezzo: la sposa aveva posato, accanto a lei, i suoi guanti bianchi, il suo bouquet di fiori di arancio freschi: e ascoltava, senza batter palpebra, alcune parole che le diceva Mimì Maresca, sottovoce. A un tratto, costui, obliando tante impressioni sgradevoli, obliando la croce di quella strada, fatta a piedi, fra la folla e i suoi tristi commenti, obliando tutto, sentiva solo la profonda contentezza di essere accanto a lei che egli adorava, nella loro prima festa, nel loro primo banchetto.

— Annina, sei contenta? — le chiedeva, pianissimo.

— Sì — rispondeva lei, a fior di labbro, senza guardarlo.

— Sei felice?

— Sì — replicava lei, a occhi bassi, distratta.

Poi, levando gli occhi, ella li fissò, lungamente, dirimpetto, come se non volesse esser più interrogata.

— Chi è quel giovane, dirimpetto a te, che ci guarda? chiese Domenico Maresca, sempre sottovoce.

— Mariano Dentale — rispose lei, brevemente, seccamente.

— Parente stretto?

— No; parente lontano.

— Oh! — disse lui e tacque.

Il grande fornitore di questi pranzi di nozze, Esposito, di via Museo, dirigeva il servizio: e il brodo, nelle tazze, il consommé en tasse, della minuta, era davanti a tutti. Il ramo Dentale, sebbene non lo amasse, il brodo, lo sorbiva, in silenzio, specialmente le donne, con aspetto austero di signore abituate: il ramo Maresca, non sapendo fingere, dava in esclamazioni, in tratti di spirito, protestando, invocando un piatto di maccheroni, una minestra maritata, qualche cosa di solido.

— Ci siamo risciacquati lo stomaco.

— Io preferisco il brodo di castagne allesse.

— O una zuppa alla marescialla.

— Compare, andiamo da Pasquale, a’ galitta, dopo, insieme?.

A questi dialoghetti, a questi frizzi, la sposa, don Carluccio Dentale, i Dentale facevano delle smorfie leggiere, di disprezzo: o fingevano di non udire. Annina Maresca mangiava distrattamente, sempre impassibile, di rade parole; Mimì Maresca non mangiava affatto, bevendo, poichè aveva molta sete, dei bicchieri di acqua e vino, più acqua che vino. Ogni tanto, suo suocero si levava di tavola, gli veniva vicino e gli parlava all’orecchio: Domenico ascoltava, a occhi bassi, e rispondeva, pianissimo. Sempre si trattava di denaro; poichè Anna aveva voluto di accordo con suo padre, celebrare con grande pompa le nozze, per celare, almeno, con quel fasto insolito e inopportuno, che ella sposava un pittore di santi. Domenico si era dovuto sobbarcare a tutte le gravi spese di quel giorno, che si fanno, ordinariamente, dalla famiglia della sposa. Padre e figlia non avevano una lira; eppure avevano disposto largamente del portafogli di Domenico che, innamoratissimo, cieco e sordo di amore, non si rifiutava mai. Ogni momento, in quel giorno di nozze, don Carluccio avvertiva suo genero, suo figlio, come diceva solennemente, che ci volevano cinquanta lire, per questo, venticinque, per quest’altro, otto a quell’altro, che vi pensasse, non se lo dimenticasse. Alla mattina, Domenico gli aveva dato una somma, per provvedere: verso la metà del pranzo, dopo tre o quattro ricordi, all’orecchio, gli rispose:

— Ora vi do altre duecento lire, dopo pranzo. Basteranno?.

— Non credo, figlio mio, non credo! — rispose don Carluccio.

— E vedremo... vedremo... — soggiunse pazientemente lo sposo.

I pasticcetti di maccheroni erano stati accolti con gridi di gioia, dalla piccola falange Maresca: ma li trovavano piccoli, piccoli, ce ne volevano otto, dieci, per ciascuno, non è vero? Le donne del gruppo Dentale li rompevano con la forchetta, questi pasticcetti, li sbriciolavano, ne lasciavano la metà, per fingere di non aver fame, per fingere la eleganza, come nel gran mondo: e mentre il forte piatto di carne, longe de veau, era accolto con entusiasmo, questa volta anche dagli uomini Dentale, e la jardinière, di contorno era devastata da tutti, varie signore dei Dentale dichiararono che odiavano la carne, e la respinsero. Il rumorìo era forte, oramai. I camerieri di Esposito, muti, bene educati, scivolavano fra le mense, tenendo un contegno correttissimo: ma la società, sovra tutto alle mense minori, era vivace, impertinente, apostrofava i camerieri, chiedeva persino un rinforzo di cibo, e i camerieri obbedivano, con qualche leggiera smorfia di disprezzo, subito repressa. La sposa non mangiava più, assorbita, giuocando coi suoi anelli: lo sposo la sogguardava, con quella espressione di tenerezza, di devozione, in cui si risolveva il suo profondo amore per Anna Dentale. E poichè ella non gli volgeva nè un parola, nè uno sguardo, vinto da un accesso di emozione passionale, egli la chiamò:

— Annina!

Ella non lo udì, non rispose.

— Annina! Annina!

— Che è? — disse lei, come trasognata.

— Che hai, Annina?

— Nulla.

— A che pensi?

— A niente.

Tacquero, mentre egli chinava il capo, mortificato. Annina aveva abbandonato la sua piccola mano fine, sulla tavola. Lo sposo levò gli occhi, li girò intorno, e mise la sua mano su quella della sposa: la piccola mano muliebre restò immobile, si lasciò carezzare lievemente, non rese la carezza, si lasciò stringere, non rese la stretta. In verità, solo a quel contatto di quella piccola mano delicata e inerte, egli era talmente commosso, che il suo viso si scompose. Lentamente la sposa ritirò la sua mano e fece l’atto naturale di ravviarsi l’onda bruna e folta dei capelli, sulla fronte. Di nuovo, Domenico Maresca vide Anna volgere i suoi occhi, verso il giovane che era dirimpetto a loro: un bel giovane di un venticinque anni, dai capelli castani, dai morbidi baffetti biondi, dalla pelle bianca, dagli occhi grigi, vividi, vestito con eleganza, disinvolto, gaio. E lo sposo, superando una titubanza che lo tenne taciturno, per qualche minuto, interrogò la sposa, novellamente:

— Annina, questo Mariano, è quello che...

— Che dici? — interruppe lei, con un corrugamento di sovracciglie.

— Quello che... che tu dovevi sposare... — terminò di dire, con grave sforzo, Domenico.

— Già — ella rispose, duramente.

— ... era... era una cosa seria?

— No. Sciocchezze di ragazzi.

E il tono si manteneva duro, breve. Il discorso le doveva dispiacere immensamente: ma Domenico Maresca obbediva a una forza irresistibile, insistendo:

— È un bel giovane... — mormorò, con una tristezza mortale nella voce.

— Sì. Ma è un buono a nulla — e fece un moto di disprezzo, con la bocca.

— I vostri parenti volean maritarvi? Così mi hanno detto.

— Volevano... essi.

— E chi non volle?

— Io.

— Tu, non lo volesti?

— Io.

— E perchè?

— Perchè non aveva un soldo — finì di dire, lei, così glacialmente, che Domenico Maresca non osò soggiungere altro.


Si ballava. Il banchetto nuziale era durato due ore e mezzo: verso la fine, vi erano stati tre o quattro brindisi, uno molto dignitoso, del compare, don Biagio Scafa, a cui tutta la società, i Dentale e i Maresca, insieme, avevano applaudito, furiosamente, poichè il vino già aveva vinto, in parte, le superbie Dentalesche, e poichè lo Scafa era un personaggio importantissimo, anche per la parentela della sposa. Meno ascoltato, certo, quello di Raffaele Amoroso, l’operaio pittore di santi, che mezzo in dialetto napoletano, mezzo in un italiano storpiato, con una lentezza che mostrava, però, la sua commozione, portò un brindisi alla bella sposa. Varii Dentale avevano voltato il viso in là; alcuni, per disdegno, parlavano fra loro; e la sposa a cui l’Amoroso dirigeva i complimenti più enfatici, teneva gli occhi bassi, la bocca chiusa senza un sorriso e toccava, distrattamente, con la punta delle dita, le molliche di pane sparse sulla tovaglia. Alla fine, appena un lieve cenno della testa indicò che ella ringraziava. Persino Gaetano Ursomando, lo stuccatore, intenerito dalla festa, dal buon pranzo in cui aveva mangiato dei cibi a lui finora sconosciuti, dal buon vino, persino il povero basilisco, selvaggio e fedele, dall’ultimo posto, ove era stato confinato per la disposizione delle tavole, levò il suo bicchiere e volle fare un brindisi al suo principale. E non sapendo dire nulla, accomodò il brindisi solito popolare, quello che consiste nel far rimare un verso, il primo, col nome dell’anfitrione in coda all’altro: brindisi antichissimo, bizzarro, con varianti singolari. — Disse, Gaetano Ursomando: Questo vino assai mi rinfresca, — e brindisi faccio a Domenico Maresca. Vi fu un uragano, di applausi, dalla parentela Maresca, che riconosceva il costume curioso e pur semplice di brindare: silenzio glaciale da parte dei Dentale, che si stupivano di queste cose, degne di una cantina. E nessuno rispose ai brindisi, perchè lo sposo, imbarazzato e pensoso, nulla si levò a dire: poichè don Carluccio Dentale, assai diplomatico, sebbene caduto in miseria, avrebbe risposto a don Biagio Scafa, ma francamente, non voleva ringraziare gli altri due, Amoroso e Ursomando. Il pranzo finiva freddamente. Vi fu una ripresa di allegrezza, quando, man mano, prima la parentela di Maresca, sfacciatamente, poi la parentela Dentale, con ipocrita buona grazia, devastò i trionfi di paste, di pastarelle, di dolcetti, di bonbons, di castagne giulebbate, che ornavano le mense: ognuno se ne metteva nel fazzoletto, in una carta, anche in tasca, senz’altro, fra le smorfie di disprezzo dei camerieri di Esposito, che toglievano rapidamente le mense, con la prestezza dell’abitudine. In un quarto d’ora erano sparite stoviglie, cristalli, trionfi, tovaglie e tovagliuoli, persino le tavole, e una sfilata di facchini, per le scale, portava via tutto. In anticamera, chiamato dal suocero, Domenico Maresca dava le mancie al maestro di casa, ai camerieri, ai facchini: don Carluccio lo urtava col braccio, quando la somma gli sembrava meschina.

La musica era giunta e si ballava. Tre suonatori, un violino, una chitarra e un mandolino, tre di quei tipi miseri e affaticati di suonatori, si erano messi in un cantuccio, raccolti in triangolo, a capo basso, con certi visi consunti e indifferenti di poveri rassegnati: e accordavano i loro strumenti. Don Biagio Scafa che, venti anni prima, era stato grande ballerino, direttore di feste da ballo, nella piccola borghesia, cui apparteneva, messo in allegria, fra il frastuono generale di un dopo pranzo vivacissimo, assunse il carico di dirigere le danze. E i due gruppi, sempre divisi fra loro, ridevano, strillavano, le donne dei Dentale, che aveano tolti i guanti per il pranzo, assicuravano i loro anelli, toccavano le loro collane sul petto per vedere se erano ferme, si sventolavano leziosamente, in attesa degli inviti. E il marito di una Dentale invitava la moglie dell'altro, un cognato la cognata, un cugino la moglie del cugino, e persino un fratello la sorella sua, una brutta zitella che faceva il viso malinconico, perchè nessuno la invitava. Nel gruppo dei Maresca, si faceva grande chiasso, ma le coppie non si formavano ancora, qualcuno sapeva ballare sola la polka, qualcuno solo la quadriglia, e qualcuno niente! E il ritornello di un waltzer, ordinato dal possente e giocondo don Biagio Scafa, risuonò. Delle coppie, specialmente dal lato Dentale, tentarono di slanciarsi.

— Prima gli sposi! prima gli sposi! — tuonò don Biagio.

In piedi presso Anna, impacciato, goffo, con le mani pendenti, il suo busto troppo grosso sulle sue gambe magre, la sua pesante testa sul collo corto, sulle spalle curve, Domenico Maresca non si decideva. Indifferente, impassibile, Anna, nella sua veste bianca, attendeva.

— Tu sai ballare il waltzer? — egli mormorò, imbarazzatissimo.

— Sì, certo.

— Io... no.

— E allora! — esclamò lei, levando le spalle.

— Gli sposi in piazza, gli sposi in piazza! — comandò don Biagio, accostandosi a loro.

— Io non so fare il waltzer... — confessò, con uno sforzo di voce, come trangugiando male, Domenico.

— E che fa? Coraggio, slanciati, forza alla macchina — strillò don Biagio, che era allegrissimo.

Ancora, Domenico esitava, pauroso, rosso in viso, con certe strie cremisi ai pomelli. La sposa parve ne avesse pietà: o meglio, volle rompere l’indugio, gli prese la mano per cingersene la vita, gli strinse l’altra mano, lo trascinò in mezzo, lo fece girare, due o tre volte, guidandolo lei, fra gli applausi dell’assemblea. Ma fu uno spettacolo miserando, poichè Domenico Maresca non sapeva neppure dare un passo, incespicò tre volte, tre volte si arrestò, malgrado la spinta datagli da Anna, ed ella, seccata, si fermò di botto, lasciandolo in asso: subito il compare don Biagio Scafa, svelto, come ai suoi bei tempi, si slanciò, afferrò la sposa e girò con lei, vertiginosamente, fra i clamori della società. Il ballo era aperto: lo stupefatto e smarrito sposo fu respinto in un angolo, nessuno si occupò più di lui. Egli guardava roteare le coppie e un po’ di vertigine che gli era venuta, in quelle tre o quattro precipitose giravolte che gli avevano fatto fare, cresceva: si faceva sempre più da parte, in un angolo, avendo caldo e bisogno di aria. Lo chiamarono; fuori era giunto, dalla scaletta di cucina, il gelatiere di Benvenuti, con tutto il suo carico di gelati, di spumoni, di formette, nelle ghiacciaie di legno e metallo, con canestre piene di piattini e di cucchiaini, con due uomini, un facchino ed un cameriere. Bisognava collocare questa roba, dare ordini, pagare. E in questo suo ufficio di pagatore, che era stato, poi, il più importante della sua giornata, Domenico Maresca si distrasse. Anzi restò qualche minuto, sulla loggetta della cucina. Un piccolo verone alto che dava alle spalle del palazzo Angiulli, da cui si vedevano le selve di case fitte, fitte, che discendevano verso strada Porto, verso il mare, e da cui l’occhio guardava l’angolo di paesaggio, ove il Vesuvio allunga lo sprone della sua montagna fiammeggiante. Questa loggetta era molto alta, a picco sovra la straduccola dei Mercanti: vi era, a diritta, un casottino di legno scurastro, con una porticella chiusa da un lucchetto, il solito cesso fuori delle terrazze napoletane. Vi erano, anche, una pianta di margherita, già coperta di quattro o cinque fiorellini, e una pianta di basilico odoroso. Lì fuori, lo sposo, respirò profondamente, sentì calmarsi la sua vertigine, placarsi il suo spirito inquieto. Un desiderio di pace, lo teneva tutto: il desiderio che quella festa, che durava da tante ore, finisse, che tutti andassero via, che egli restasse solo, con Anna, per portarsela via, nella sua casa in via Donnalbina, ove, dalla mattina, la fedele Mariangela, che tutto aveva preparato, aspettava, fra i mobili nuovi, nella casa antica tutta rinnovata, come aveva voluto Anna. In questo desiderio potente di quiete, di solitudine, di silenzio, con Anna solamente, non era nulla di sensuale: solo la volontà della liberazione dalla folla, dal tumulto, dalle faccie accaldate, dalle voci avvinazzate, lo stringeva. E pensava che il ballo non sarebbe, poi, durato molto, e che tre quarti di quella festa erano già trascorsi; avrebbe fatto fare, subito, le due distribuzioni rituali di formette e di gelati, per sbrigare la società. E, rientrando, nel salotto da ballo, tra il gran rumore, udì il comando di don Biagio Scafa:

— Quadriglia, en place!

Subito, il compare lo afferrò al passaggio, lo fermò, lo admonestò vivamente. Vediamo, invitasse la sposa, per la quadriglia, era suo obbligo, tutti ballavano la quadriglia, anche le vecchie, anche gl’invalidi, voleva far restare seduta solamente la sposa?

— Ma io non so ballare la quadriglia! — protestò lo sposo, di nuovo gittato a un cimento cruccioso, ove la sua timidità fisica e morale lo torturava.

— Non importa! Si balla! Ti guido io! Ti conduce la sposa. Chiamo io, capisci? Ti sto vicino!

— E se imbroglio tutto?

— Non importa, gridiamo pasticciotti en place, e ci fermiamo! Va a prendere Anna.

E la quadriglia d’onore, diciamo così, fu veramente solenne. Pomposamente, don Carluccio Dentale era andato a invitare donna Gaetanella Improta, col motto galante:

— Donna Gaetanè, ricordiamoci le cose antiche!

Ella aveva accettato, subito. Don Biagio Scafa, aveva per dama la più bella e più ricca dama del gruppo Dentale, Francesca Dentale Catalano, in abito di broccato grigio perla. Gli sposi si collocarono al centro: e avendo don Biagio domandato a Domenico Maresca se avesse il vis-à-vis, e non avendo costui compreso, il direttore di ballo gli mise una coppia dirimpetto. Era il bel giovanotto venticinquenne, Mariano Dentale, che aveva per dama Mariannina Catalano, la zitella mutriona, molto brutta, che nessuno invitava mai. Varie intromissioni dei Maresca avvennero nella quadriglia: era impossibile escluderli, la quadriglia ne aveva necessità, e d’altronde, non vi era spazio per fare due quadriglie. Don Biagio usava tutta la diplomazia possibile: in quell’ora di esaltazione, molte barriere sociali cadevano, un senso di cordialità e d’indulgenza diventava generale, una familiarità si faceva fra i due gruppi, provvisoria, fugace, dovuta al pranzo, ai vini, ai nervi eccitati, alla musica, al ballo. — Tenendo Anna al braccio, in silenzio, Domenico Maresca attendeva, in un segreto tormento, dove solo questo pensiero lo racconsolava, il pensiero che conforta tutte le anime angosciate, tutti i corpi martoriati:

— Deve finire... deve finire!

Interminabile quadriglia! Domenico Maresca che non aveva mai avuto una lezione di ballo, in vita sua, che non era mai stato in un ballo, che ignorava i passi, la misura, le figure, era preso, tirato, trascinato, sballottato di qua e di là, avanti e indietro, da Anna, da don Biagio Scafa che, ogni momento, interveniva, lo voltava, come un sacco, gli gridava i comandi della quadriglia, in un francese napoletano, enfaticamente, in un italiano napoletano, lo fermava a mezza strada, fra l’andirivieni degli altri che, tutti, sapevano ballare, tutti! Sapeva ballare elegantemente, più di ogni altro, il suo dirimpettaio, Mariano Dentale, dal sorriso beffardo sulle belle labbra fresche, che i mustacchi biondi coprivano mollemente: e, ogni momento, spesso, troppo spesso, Domenico Maresca lo vedeva avanzarsi, con una grazia noncurante, verso la sua dama, verso la sua sposa, verso la sua Anna, e figurar con lei, e, talvolta, portarsela via, dall’altra parte, mentre Domenico restava solo, da qua: e gli sembrava che la dimora di Anna, dirimpetto, si prolungasse troppo, mentre, accanto a lui, la brutta e annoiata Mariannina Catalano non apriva bocca. Talvolta, era Anna che partiva via, per andare dirimpetto: e gli pareva che il suo passo fosse più rapido, più lieve, lo strascico bianco ondeggiava, dietro, come una nuvola, ella girava, intorno, con Mariano Dentale, si salutavano, si sorridevano, si lasciavano, Anna ritornava, seria a un tratto, senza sorridere più. Perchè non sorrideva più, quando tornava a lui? Don Biagio Scafa gridava allegramente il comando, le coppie lo seguivano ridendo, scherzando, voltandosi un poco, tre o quattro volte vi furono degli imbrogli di figure, per lo più generati dalla ignoranza di Domenico Maresca, si dovette tornare tutti al posto, al grido: pasticciotti, en place, riprendendo sempre, subito dopo, con una lunghezza di figure, di concertini, che fiaccò tutte le forze materiali e morali di Domenico. Alla fine ogni cosa turbinava, nella sua mente: e non capiva più nulla, gli pareva che le mani, le braccia, le persone di Mariano Dentale e di Anna Maresca si chiamassero, ogni secondo, che Anna sorridesse come non mai aveva veduto sorriso sulle labbra di lei, che le risa di don Biagio e degli altri, fossero a suo scherno, che la musica ridesse di lui. Di botto, il triste sogno finì. La quadriglia era terminata. Entravano i due camerieri coi gelati. Uno di essi, passando vicino allo sposo, gli disse, piano:

— Eccellenza, vi è una persona che vi vuole, in cucina.

— Chi è?

— Non ha voluto dirmi il suo nome.

Quando entrò nella cucina, Domenico Maresca, col viso scialbo, bruciante di strisce rosse che il ballo e le inquietudini segrete gli avevano messo ai pomelli, stanco e oppresso e anelante alla fuga, la persona, la donna che lo attendeva, era ritta nel vano del balcone, e gli voltava le spalle. Egli non distinse che una figura non alta, ma snella; e vestita bene, gli parve:

— Chi mi vuole?

— Sono io, Domenico — disse una voce soave, quasi cantante, ma già velata; e un volto noto gli apparve.

— Gelsomina, sei tu! — esclamò lui, sorpreso e turbato.

— Io, sì — soggiunse la fanciulla, con tono anche più fievole, di voce, ma in cui persisteva l’antica armonia, l’antica dolcezza.

Egli la squadrò, con curiosità affettuosa, e con tristezza. La fanciulla era molto mutata. Mentre, prima, le sue vesti parevan fatte di tanti straccetti carini ma miseri, guarnite di merlettini a quattro soldi il metro, con gonne troppo corte e camicette esigue, mentre ella, prima, portava delle cinture di settantacinque centesimi e delle cravatte fatte con un brandello di seta, ora ella indossava un bel vestitino di lana azzurro cupo, con uno sprone di seta avorio, tutto bene aggiustato alla sua svelta personcina; il collo era adorno da una catenina di oro, con una crocetta d’oro opaca; due perline, in una montatura d’oro, alle piccole orecchie: nelle mani, una borsetta di pelle, ricamata di acciaio. Ma ciò che la rendeva così differente, assai differente, da prima, era una cosa nuova, nuovissima, sulla sua figura: il cappello, cioè, il cappello che non aveva mai portato, per diciotto anni della sua vita, e che ora ella aveva adottato, il cappello che è il segnale più certo che una figlia del popolo si è corrotta, o è diventata, vuol diventare, una piccola borghese. Era già un cappello di primavera, una paglia bianca, rotonda, con un grosso ciuffo di papaveri rossi e dei nastri bianchi, con quell’amore dei colori vivi e in contrasto fra loro, che è nella gente partenopea. I bei capelli castani, a folte masse, di Gelsomina, quei capelli così pesanti che le si snodavano sempre sulla nuca, nel collo, quei capelli che si disfacevano a ciocche sulla fronte, solo essi conservavano l’antica indipendenza, e sotto il cappello sembravano ancora sul punto di sciogliersi, respingendo le forcinelle di tartaruga. E, nelle sue nuove vesti, più belle e più corrette, sotto il cappello, Gelsomina conservava sempre la sua delicata bellezza, piena di una grazia gentile: ma qualche cosa di diverso, di altro vi si mostrava. Le sue fini guance erano coperte di veloutine, e, sovratutto, il piccolo segno che aveva presso il mento, la fragoletta, per cui la chiamavano fraolella: e dalla sua persona un profumo forte, grossolano si distaccava. Negli occhi grandi, grigiastri, era sparita una certa gioia maliziosa giovanile, che ne aveva fatto il fascino, per molto tempo, mentre vi persisteva una espressione di smarrimento, quasi infantile: talvolta, essi si oscuravano, intorbidati, spenti addirittura. Non aveva guanti e si vedevano le sue mani nude, un tempo rossastre e un po’ guaste dai lavori domestici: certo, ora, doveva strofinarle con la pasta di mandorle, per imbianchirle, per fare sparire quelle tracce. Aveva anche un anellino d’oro, con un rubino e una perla, molto piccoli, e, distrattamente, toccava sempre questo anello. Del resto, pareva un po’ affranta; si era appoggiata allo stipite del balcone: aveva abbassato il capo un poco. E fra le tante cose diverse, altre, Domenico Maresca, notò che Gelsomina si mordeva sempre le labbra, per farle diventar rosse.

Tacevano, entrambi, in un silenzio carico di pensieri. A tratti, giungevano grandi scoppi di parole gioconde, grandi risate: la musica taceva, gl’invitati divoravano le formette e i gelati. Gelsomina fu la prima che ruppe quel mutismo.

— Come stai, Domenico? — chiese, senza neppure guardarlo.

— Bene, Gelsomina...

— Sei contento? — ella continuò, levando i suoi occhi belli, carichi di una improvvisa ma non nuova tristezza, fissandoglieli in volto.

— ...sono contento... — rispose lui, evitando quello sguardo.

— Sei felice? — insistette lei, piegando il viso verso di lui, quasi forzandolo a guardarla, quasi volendo strappargli tutta la verità dall’anima.

Domenico esitò, un minuto solo. Ma si riebbe.

— ...sono felice — rispose, con sufficiente fermezza.

— Meno male — mormorò lei, scrollando le spalle.

Egli la guardò, interrogativamente, con una certa ansietà. Gelsomina fece un atto, come per sollevare i suoi capelli sulla fronte, come per liberare la sua testa da un pensiero, come per far dileguare l’ansietà di Domenico.

— Niente, Domenico, niente. Ho detto così... Non ci pensare. E la sposa è molto bella?

— Bellissima!

— Oh! tanto meglio, Domenico. E ti vuol bene?

— ...sì!

— Ti vuol molto bene? — soggiunse lei, affannosamente, mettendo la sua mano sul braccio di Domenico.

— Lo spero, Gelsomina, lo spero!

— Non ne sei sicuro?

— Di Dio solo dobbiamo esser sicuri, Gelsomina — rispose lui, con un pallido sorriso di malinconia.

— Se la tua sposa non ti vuol bene, è una cattiva e una sconoscente — disse lei, con forza, con accento d’ira ed un lampo di collera negli occhi.

— Sss! — disse lui, con un dito sulle labbra. — È di là! Vuoi farti udire?

— No — mormorò lei, raumiliata. — Non voglio farmi udire. Potrebbe scacciarmi, come una serva insolente. Essa è una signora. Quando la incontravo, per la via, appena se rispondeva al mio saluto...

— Non ti vedeva, forse.

— Per superbia, Domenico. Una signora! Se si è decisa a sposare, uno che non era del suo stato, si sa il perchè...

Ma Gelsomina si pentì subito delle parole dure che l’ira e il dolore segreto le strappavano. Vide una pena immensa sul viso di Domenico, scorse gli occhi di quel misero riempirsi di lacrime; nel giorno delle sue nozze, lo comprese già così infelice, che ella sentì frangersi il cuore.

— Abbi pazienza, scusa, Domenico, se ho detto queste cose brutte... perdonami... ti ho fatto dispiacere... non volevo farti dispiacere...

E tremava tutta, reprimendo i singulti che le rompevano il petto.

— La gente lo dice... — disse lui, a voce bassa.

— Già... la cattiva gente... non bisogna darle retta... ho fatto male a ripetere... perdonami...

E, d’un tratto, con un vivo sforzo su sè stesso, Domenico esclamò:

— Tutte bugie! Annina è un angelo!

— Ah! — disse solo l’altra, impallidendo mortalmente sotto la sua cipria.

Ella si morse le labbra sin quasi a farle sanguinare; i suoi occhi da malinconici si cangiarono in vividi, scintillanti; una risata cristallina e fremente scoppiò dalla sua bocca fresca:

— Per un pittore di santi è necessario, un angelo!

— Vedrai, Gelsomina, che la metterò, come una testa di angelo, un giorno, in una Gloria della Madonna.

— Già, già: — ed ella rideva, rideva ancora, a sussulti.

Poi, si fermò dal ridere: respirò lungamente, rimase con la sua breve bocca schiusa, come un uccellino che beve l’aria, come quando era piccola. E il pittore dei santi ebbe un’improvvisa visione di quella infanzia, di quella adolescenza candida e gaia e dolce: questa visione lo prese tanto che, quasi inconsciamente, egli fissò Gelsomina e le chiese, esitando, pentendosi subito, dopo, della domanda:

— ...e tu?

— Io? Che cosa? — esclamò lei, con un’asprezza nuova.

— Tu. Che fai?

— Niente — disse ella, rudemente, con una rude stretta di spalle.

— ...dove abiti? — seguitò lui, sospinto da un tenero, da un pio interesse.

— ...lontano — ella rispose, con un cenno vago.

— ...sola?

— Non sempre, sola — ribattè lei, pronta, decisa.

— Egli viene a trovarti?

— Ogni giorno; spesso, due volte al giorno.

— Ti vuol bene, dunque?

— Mi vuol bene.

— Assai?

— Assai.

Nella tenerezza delle domande di lui vi era una profonda mestizia, insieme. Invece, le risposte di lei erano nitide, fredde, limpidissime. Anzi, anzi, nel viso leggiadro vi era come una fierezza insolita ed esagerata, un bizzarro e tristo vanto nel tono della cara voce, un tempo così umile e semplice. Una compassione anche più forte si manifestò in Domenico, innanzi a quella alterigia che voleva confinar col cinismo; egli le prese una mano, con una pietà gentile, sgorgatagli dal cuore, strinse quella piccola mano fra le sue, e con voce palpitante di una invincibile emozione umana, le chiese:

— Ah, Gelsomina, Gelsomina, perchè hai fatto questo?

In verità, la poveretta vacillò nella persona, come se svenisse: mentre le sue labbra sbiancate tremavano, senza poter profferir parola, due grosse lagrime le discesero lungo le guance, rigandone la veloutine. La mano si dibatteva convulsamente, fra quelle fraterne di Domenico; ed egli, ancora, con tutto il dolore che dà l’Irreparabile, l’innocenza perduta, la via smarrita, il cammino nella vergogna, le ripetette:

— Gelsomina, Gelsomina, perchè hai fatto questo?

E, disperata, soffocando i suoi singhiozzi, ella volle trovar qualche cosa cui aggrapparsi, qualche cosa cui non credeva ella stessa, una scusa fallace, una speranza fallace, per non perire di dolore e di onta, in quel momento.

— Forse mi sposa... forse... lo ha detto... se sono buona...se voglio bene solo a lui... forse, più tardi... quando sua mammà è morta... lo ha detto...

— È un signore... — disse tristemente, Domenico.

— È vero... è vero... perciò non volevo credergli... ma non è cattivo, Domenico... non è cattivo... si sono viste tante cose simili... forse mi sposa...

E, malgrado la sua bonarietà e la sua indulgenza, Domenico crollava la testa, non convinto, ripetendo:

— Ah, Gelsomina, Gelsomina, non dovevi farlo!

Le lacrime si disseccavano sulle gote ardenti della fanciulla caduta. Un cupo dolore subentrava allo smarrimento.

— Non dovevo farlo, è vero — diss’ella, tetramente, con gli occhi fissi sul pavimento.

— E perchè lo hai fatto?

— Così — diss’ella, di nuovo aspra.

— Gli volevi bene, a don Franceschino Grimaldi?

— ...no — disse lei, fermamente.

— Ti piaceva, forse?

— ...sì, forse.

— Ti avrà fatto molte promesse?

— Non molte. Ha detto, così, qualche volta, che mi avrebbe sposata.

— E gli hai creduto?

— ...qualche volta!

— Gli credi, adesso?

— Assai meno di prima.

— Ti avrà fatto dei regali?

— Sì, molti. Tutto quello che ho addosso, è suo e mi ha fatto mettere il cappello — disse ella, arrossendo sino al collo, sino alla fronte.

— Ti è sempre piaciuto di vestir bene, povera Gelsomina!

— Troppo, mi è piaciuto.

— La matrigna ti avrà mal consigliato? — continuò lui, col suo interrogatorio, cercandole, pietosamente, tutte le scuse per sanzionare il suo errore.

— Anche.

— Eravate misere?

— Misere. Ma non morivamo di fame.

— E allora, allora?

— Che ci vuoi fare, Domenico, sono cose che succedono — concluse lei, con quel tono arido e breve che adoperava, nel rispondere all'interrogatorio.

— Oh Gelsomina, non dire questo! Eri così buona, così religiosa! Perchè non ti sei raccomandata a Dio?

— Mi sono raccomandata. Dio mi ha abbandonata, Domenico. Ha permesso che questo accadesse!

— Perchè non hai detto nulla, a nessuno?

— Perchè non avevo nessuno. Ero sola, Domenico.

— Ed io? Ed io?

— Oh tu! — esclamò lei, non dicendo altro, non volendo dire altro.

Egli chinò gli occhi, pensoso. Ella sollevò il capo e replicò quel gesto della mano, con cui scostava i suoi capelli dalla fronte e le sue idee dal cervello.

— Ora me ne vado — ella disse, come trasognata.

— Dove vai?

— A casa.

— E quando ritorni?

— Quando, Domenico? Mai più, forse. Tu ti sei sposato e devi stare con Anna: io... faccio un’altra vita... come ci potremmo vedere?

— Dici veramente?

— Oh sì! — soggiunse lei, con un stanchezza nella voce — anzi, vedi, io era venuta per un sol momento e ti ho trattenuto troppo...

— No, no...

— Sei lo sposo: ti vorranno, di là...

— Come vedi, nessuno mi ha chiamato — mormorò lui, amaramente.

— Non importa, è una gran giornata, per te: ho voluto salutarti anche io... mi hai sempre voluto bene...

— Anche adesso — rispose lui, candidamente.

— Anche adesso — replicò Gelsomina, con intonazione singolare. — Ti avevo portato un piccolo ricordo... avrai avuti molti doni...

— No!... io, no. Anna, sì.

— Anna, non la conosco — continuò la fanciulla, aggrottando le sottili sovracciglia. — Ho portato a te, questo piccolo dono...

Ella cercò, macchinalmente, nella sua borsetta e trovò un astuccio di raso granato. Lo aprì. Vi era un semplice anello di oro, da uomo, una fascia larga che formava scudo, sopra: sullo scudo era smaltata, in nero, la parola ricordo. Era un gioiello assai modesto di prezzo, assai comune di gusto. Gelsomina teneva l’astuccio aperto, nella mano, e non osava stenderlo a Domenico.

— Perchè ti sei voluta incomodare? — disse lui, senza prendere il dono.

— Per un ricordo — soggiunse lei. — Perchè non ti scordassi di Gelsomina.

Ad ambedue, gli occhi si velarono di lacrime.

— Prendi — disse lei, a Domenico.

Egli esitava ancora.

— Senti, senti, — disse lei, affannando — lo puoi prendere senza scorno. Non è danaro di Franceschino! Non te lo avrei dato un anello, comperato col suo danaro. Non sono capace, Domenico. Avevo... avevo qualche lira mia... da quando lavoravo a macchina... sono queste, le ultime, che ho spese per l’anello. Prendilo.

Egli prese l’anello.

— Grazie, Gelsomina. Io non ho nulla da darti, per ricordo.

— Dammi un fiore.

Egli fece un passo, per andare verso il salotto.

— Non lì! — disse lei, e lo fermò per un braccio.

Macchinalmente, uscirono sul balconcino, ambedue. Era già tardi e il giorno calava sulla massa variopinta delle case napoletane, che si facevano di un solo colore grigiastro: laggiù, il mare, sotto l’arco che fa lo sprone del Vesuvio, era di un color cupo di lavagna. Essi, non guardarono nulla, distratti, assorbiti, travolti ognuno dal proprio destino, misterioso per entrambi, tanto nella fallace speranza di gioia dell’uno, quanto nella realtà dolorosa dell’altra. Domenico colse due o tre margherite già sbocciate sulla piccola pianta, vi unì un ramoscello di basilico, e le porse il mazzolino.

— Grazie, Domenico — disse Gelsomina.

— Non mi chiami più Mimì?

— Eh no! Mimì ti deve chiamare la tua sposa. Ora me ne vado — ripetette, con quel suo dire, come in sogno. — Dio ti benedica, ti benedica sempre!

— Dio ti accompagni, Gelsomina.

— Scusa se ti ho trattenuto...

— Oh, non fa niente.

— Scusa se ti ho rattristato...

— Ma che!

— ...in un giorno di festa... Me ne vado, me ne vado. Questi fiori sono di Anna, è vero?

— Sì. Dio ti accompagni, Gelsomina.

— In ogni tuo passo, Domenico.

Senza toccarsi la mano, senza guardarsi, si accomiatarono. Nè egli si accorse che Gelsomina, con un moto rapido, dopo essersi guardata intorno, aveva gittato il mazzolino dai ferri del balcone, giù, giù, nel pelago delle case che scendevano, dai Mercanti verso via di Porto. La fanciulla rialzò fieramente e tristemente il capo, ove i grandi occhi grigi lucevano di gioventù, ove la bella bocca schiusa, dal labbro corto, pareva un picciol fiore, e con un gesto fra stanco e rassegnato sparve dalla scala di servizio, col suo passo lieve e un poco molle. E per lei, certo, e, forse, per sè, Domenico Maresca fu preso, a un tratto, da una desolazione infinita: guardò l’orizzonte di una delicatissima tinta di viola, già, da quel balconcino della fredda cucina, fra le due misere pianticelle, donde aveva spiccato i fiori per Gelsomina, e il suo cuore si strinse, anche più angosciosamente, nel tramonto di quella giornata, per quella povera anima di fanciulla dispersa e deserta, nel vasto mondo indifferente o crudele. E, macchinalmente, come per isfuggire a quell’incubo di angoscia, volle rammentarsi che egli era, infine, uno sposo felice, che aveva sposato quella mattina, la donna amata, invocata, desiderata, che Anna Dentale era sua, che l’avrebbe condotta a casa sua, padrona e signora del suo cuore e della sua vita. Il giorno finiva, la festa finiva, era l’ora della liberazione e della pace, in una solitudine amorosa, in via Donnalbina.

Quando rientrò nel salotto, la popolare mazurka che tutti gli organetti di Barberìa macinavano, da due o tre anni, la Dolores, dal ritmo lento e molle, ma non mancante di voluttà, permetteva che i buoni danzatori e le buone danzatrici spiegassero le grazie della loro disinvoltura: quelle note fluttuanti, quelle note cascanti, inducevano ai lunghi passi striscianti, cari a gente che ha, nel sangue, l’eredità delle danze orientali, una mescolanza di allegrezza e di gravità, qualche cosa di vivo e di morbido, insieme. Anna Maresca, la sposa, ballava questa mazurka con Mariano Dentale. Domenico, fermo sulla porta del salotto, se li vide passare, innanzi, con due curve larghe e lunghe, e lo strascico bianco della veste nuziale di Anna gli sfiorò i piedi, leggermente. La danzatrice non si accorse neppure che il suo sposo, colui che ella aveva accettato per marito, innanzi a Dio, nella chiesa di santa Maria la Nova, cinque ore prima, era rientrato in salotto, dopo una non breve assenza, e che, dalla porta, immobile, muto, la guardava con occhi intenti e pensosi.

Ella danzava con leggerezza, con eleganza, appena sostenuta dal braccio destro e dalla mano sinistra del suo cavaliere, Mariano Dentale. Costui, ballerino esperto, girava sul ritmo della mazurka, con una grazia giovanile che incantava. Mariano Dentale aveva, sulla bocca vivida, che lasciava vedere i denti bianchi, un poco crudeli, quel suo sorriso fra distratto e beffardo, di bel giovane, sicuro di sè e sdegnoso di ogni altro: ogni tanto pareva che dicesse una parola alla sua dama, parola sommessa, senza che l’espressione dei suo viso mutasse, senza che egli aspettasse la risposta. Anche Anna, ordinariamente così impassibile nella calma della sua bellezza bruna, aveva un sorriso sulle labbra, un sorriso vago, impreciso, non diretto a nessuna persona, forse, non diretto, forse, a nessuna cosa, e forse diretto solo alla vita di cui si sentiva nella pienezza, diretto alla gioventù che le fioriva nelle vene e sul viso. Ella non guardava il suo cavaliere, ma quando costui, girando, le diceva una parola, ella aveva un fremito delle palpebre che si abbassavano, un fugace cenno del capo, e il sorriso si faceva più espressivo, più intenso. Altre coppie ballavano meno bene, mediocremente o male, seguendo la prima, quella di Anna e di Mariano, e gli altri invitati, affaticati e beati, pieni di cibo, di vino, di dolci, di gelati, guardavano, in piedi, o seduti, formando siepe. I tre suonatori, invitati da don Biagio Scafa, avevano già replicata tre volte la Dolores, le coppie si diradavano, già affrante. Soli, oramai, Anna e Mariano, nelle braccia una dell’altro seguivano il metro voluttuoso, con le ondulazioni del corpo e il duplice sorriso sulle labbra. E Domenico Maresca che li guardava, senza esser visto, senza esser curato, da un quarto d’ora, abbandonarsi alla seduzione del ballo, della musica, della gioventù, Domenico, che sentiva il fiotto dell’amarezza invadere largamente, le sue vene, il suo cervello, il suo cuore, Domenico, taciturno, obliato, udì un grande fracasso di applausi salutare la fine della mazurka, che i due avevano ballato così bene, e gli evviva entusiasti salutare la coppia perfetta.


Nella casa di via Donnalbina, salutati e abbracciati il padre e il compare, senza dar segno della più fugace emozione, Anna Maresca era entrata da padrona nella stanza da letto, tutta mobiliata di nuovo, e che ella conosceva perfettamente, poichè ogni mobile, ogni arredo, era stato scelto da lei, collocato da lei, negli ultimi due mesi del fidanzamento. Interdetto, Domenico Maresca era restato nel modesto salottino, mobiliato di una bourrette crema e rossa, tappezzeria voluta da Anna, poichè andava di accordo con la sua tinta calda e bruna; e disfatto da quella giornata di travagli materiali e morali, si era gittato sovra una poltroncina. Innanzi a lui, in piedi, era Mariangela, la vecchia serva fedele, tutta grigia nei capelli, tutta rughe nel volto, vestita di scuro, col fazzoletto bianco al collo delle donne assai divote a Dio, col grembiule bianco. Ella taceva, un po’ in ombra, essendo restata in casa per amore del suo padrone, che aveva servito dalle fasce, ma dubbiosa della sua sorte, con la nuova padrona. E una voce breve, imperiosa, risuonò dall’altra stanza:

— Mariangela!

— Signora?

— Un lume.

Suonavano le sette e il vicolo di Donnalbina è assai oscuro, con le alte case vecchissime che lo serrano, dalle due parti. Mariangela ripassò, con un lume a petrolio acceso, ed entrò nella stanza da letto, ove si trattenne. Vagamente, Domenico, udiva un andar e venire, un fruscio di seta, e qualche ordine dato con tono freddo e rapido. Dopo un poco, Mariangela uscì di nuovo, accese il lume del salotto, e salutò il padrone col consueto augurio.

— La santa notte!

— Santa notte, Mariangela.

La serva si ritirò, in una stanzetta accomodata a sala da pranzo, e si mise a dire il rosario, all’oscuro, in un cantone, aspettando di esser chiamata. Domenico era sempre solo, nel salotto, non osando di entrare nella camera da letto. Udì un passo, alle sue spalle: Anna si era spogliata del suo bell’abito di seta bianca, aveva tolto i fiori di arancio dai suoi neri capelli; tolti i suoi orecchini, i suoi anelli: indossava una vestaglia di leggera lana rosa, guarnita di merletti color avorio, con un nastro avorio che ne formava larga cintura. Senza dire nulla, si andò a sedere dirimpetto a Domenico, sovra un’altra poltroncina. Egli la guardava intenerito, commosso, gustando tutte le emozioni di quella quiete tanto ambita, di quella solitudine in due, nella loro piccola casa, che era stata quella di sua padre e di sua madre, nella casa che doveva esser quella del loro amore e della loro felicità. Tutte le brutte impressioni, tutti i tristi presentimenti, tutti gli amari dubbii, tutte le penose incertezze della giornata erano sparite, ora che si trovavano, colà, soli, oramai, come egli aveva desiderato e voluto, e come gli era tanto costato, per ottenere. E cento cose egli le avrebbe voluto dire con voce amorosa, con parole amorose, per ringraziarla di averlo accettato per isposo, per donarle, ancora una volta, il suo cuore, la sua anima, la sua vita. Ma non sapeva profferire un solo motto, di quelli che gli fremevano dentro. Anna, seduta, con le braccia prosciolte, taceva. E così, banalmente, egli le disse:

— Sei stanca?

— Un poco.

— Quella festa è stata troppo lunga...

— No — ella rispose, subito.

Un silenzio.

— Vuoi qualche cosa, Anna?

— Io? No.

— Non hai fame?

— Non ho fame.

— Mariangela deve aver preparato la cena.

— Non ho fame.

— Forse prenderesti una tazza di caffè?

— Non ne voglio. Prendila tu, se ti pare.

— No. M’impedisce di dormire, di sera.

Un silenzio, ancora. Un suono limpido e armonioso lo interruppe: era l’Ave Maria, che suonava dalla piccola, vicinissima chiesa dell’Ecce Homo.

— Diciamo l’Angelus Domini... — mormorò lui, segnandosi.

Anche essa si segnò, macchinalmente, e insieme pronunciarono le parole pie:

Angelus Domini, qui nunciavit Maria...

Domenico si era avvicinato a lei, dopo la comune preghiera. Anna era immersa in quel silenzio e in quella immobilità, ove pareva si assorbisse e si concentrasse la sua vita. Egli la chiamò:

— Anna, Anna!

— Che è? — esclamò lei, scuotendosi.

— Mi vuoi bene, almeno?

Tanta supplicazione, tanta malinconia, tanto rimpianto in quell’almeno!

— Eh, sì, sì! — rispose ella, fastidiosamente.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.