< Storia di due anime
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II IV

III.


Più di un anno era passato. E dalla bottega dei santi erano partite, man mano, tutte le statue, tutti i busti che vi si stavano scolpendo e dipingendo, nell’inverno prima delle nozze di Domenico Maresca e nella primavera delle sue nozze: il grande san Michele Arcangelo, tutto lucente di oro e di argento, e la statuettina delicata della Madonna della Salette adorna di roselline, il vecchio san Giuseppe dal bastoncello fiorito e dalla fluente barba, e il san Vincenzo Ferreri con la fiamma dello Spirito Santo sul cranio, tutti, via, in chiese lontane e vicine, in piccole cappelle umili e in vasti templi risonanti di canti, e ancora, altri busti, altre statue, erano venute fuori dalle mani che plasmavano e che dipingevano, la santa Rosalia proteggitrice degli altieri e pii palermitani, il san Ciro che i porticesi venerano, un san Matteo che i salernitani festeggiano clamorosamente, come loro patrono eccelso, e due o tre altre piccole Madonne, di Loreto, di Lourdes e di Pompei, alcune vestite di veri panni, secondo la tradizione e secondo il costume dei diversi santuarii, alcune di tutto stucco, assai più difficili a compiere, e tutte smaglianti delle brillanti tinte che il pennello e la stecca ne ritraevano. Onde, in quell’estate, la seconda dopo le nozze di Domenico, mentre l’afa del luglio opprimeva l’aria e il respiro delle persone, il fondo della bottega dei santi era restato il medesimo, ma i personaggi santi erano cangiati completamente. Teneva il centro della bottega, ora, una Immacolata Concezione, molto alta, una scoltura e una pittura, ove l’arte del pittore di santi aveva bisogno di tutte le sue curiose risorse, per raggiungere il vero tipo: una statua, tutta a fondo di legno, ricoperta di stucco, multicolore, la tunica celeste pallido e cosparsa di stelle di oro, il manto azzurro cupo, a pieghe svolazzanti e pure immote, la testa scoperta con capelli biondo-castani, disciolti e inanellati sul collo e sulle spalle, le mani congiunte sul petto, i piedi nudi e rosei, calzati di coturni antichi traforati e, sotto i piedi, il globo, e, sul globo, sempre sotto i piedi della Vergine, un arco di luna inargentato, e il serpe, il serpe di Eva, vinto e calpestato dal picciolo piede della Purissima. Azzurro, rosso, roseo, lilla, grigio, verde, oro, argento, bianco, tutti i colori, tutte le tinte, formavano trionfo in questa statua, che era di carattere moderno, come moderno è il dogma della Immacolata Concezione. Dirimpetto ad essa, ma un poco più piccolo, era un san Gennaro, forse il primo vescovo di Napoli, il secondo, forse, dopo sant’Aspreno, un san Gennaro, cioè, il patrono di Napoli, colui che fu martirizzato a Pozzuoli, e che ha sempre impedito, col cenno della sua potente mano, alla lava del Vesuvio, di distruggere la città da lui protetta. Il grande vescovo aveva la sua statua sul finire: semplicemente, essendo egli rappresentato mitrato, col pastorale nella mano e col manto vescovile chiuso sul petto da una gemma, e il divoto che voleva tale statua essendo ricco e munificente, era stabilito che la mitria fosse di vero argento, il pastorale con l’arco d’argento e che, sul petto, posasse un’ametista vera e non dipinta, circondata da una polvere di brillanti. Ancora, un sant’Antonio di Padova, il Taumaturgo, in mezzo busto, ma mezzo busto al naturale, anche esso riccamente stuccato, aspettava un grande giglio di argento, il suo fiore favorito, il suo fiore simbolico, che egli porta fra le dita. Tutte queste statue, erano in lavorazione, più o meno avanzata, e, dal fondo della bottega dei santi, ove tanto tempo era stata, coperta ermeticamente di tela grigiastra, tanto da nulla lasciar discernere, la grandissima statua della Madonna Addolorata, era stata avanzata, un poco, in avanti: le tele, in alto distaccate, lasciavano vedere solo il suo viso, levato, rivolto al cielo, un viso, ove un dolore profondo si esalava, nell’espressione più tragica, negli occhi lucidi di lacrime che, quasi, scorrevano. Sul cranio, erano appena accennati, dipinti, dei capelli oscuri: il resto del corpo, pareva informe, avvolto, com’era, in quella camicia scurastra. Quella statua doveva esser magnificamente vestita di una tunica di grossa seta nera, ricamata di oro, e di un manto nero ricamato di oro, il manto fermato sul capo, da una corona di argento; doveva portare un soggolo di fine battista bianca piegolinata, e, sul petto, in giro, sette spadette di argento, i Sette Dolori, e, nella mano, un fazzoletto di batista bianca, con un orlo di prezioso merletto, il fazzoletto per tergere le lacrime. Tutto questo, mancava. Il pittore non aveva eseguito che il volto dolente: una piccola piattaforma, con tre scalini, in legno, lo aveva elevato, nelle ore di fatica, sino alla testa della grandissima statua; e, in verità, quel viso pallido, alto, con quegli occhi semplici, quella bocca schiusa e contorta dai singhiozzi, quel volto di Addolorata, sovra la gran tunica senza linee, brunastra, produceva una impressione di sgomento e di tristezza. Tutt’azzurra, tutta rosea, stellata, stellante, sorridente di castità, la Vergine, nella sua figurazione della Immacolata Concezione, racconsolava tutti coloro che, involontariamente, fissando le ombre della bottega, scorgevano, lassù, emergente dagli scuri panni, il viso straziato dell’Addolorata. E questa statua aveva anche la sua storia singolare. Già due volte, in due anni, il misterioso gentiluomo che l’aveva ordinata, in segreto, a Domenico Maresca, era apparso, inquieto, agitato, chiedendo che si lavorasse a tutto andare, per consegnargli la sua Madonna Addolorata, offrendo danaro, molto danaro, tutto il danaro necessario, e il superfluo, anche, perchè il suo voto, ardente e celato, si compisse e la Madonna Addolorata di cui la festa ricorre in ottobre, la prima domenica di ottobre, fosse finita per metà settembre. E già due volte, lasciata una somma di danaro, il gentiluomo era sparito, non facendosi vedere più, non avendo lasciato nome, non avendo lasciato indirizzo, malato, partito, forse, lontano, dimentico, travolto, chi sa dove, travolto, chi sa da quale bufera di piaceri o di dolori. E già due feste dell’Addolorata erano trascorse, senza che l’opera fosse non che finita, inoltrata; già due volte donna Raffaellina Galante, la ricamatrice sacra, nella sua casa di via Mezzocannone, aveva messo a telaio la veste della Madonna e non aveva continuato più il ricamo; già due volte, in due anni, Domenico Maresca aveva passato delle ore a dipingere il volto tragico di Maria, lavorando ritto sulla piattaforma di legno: e poi, giacchè il gentiluomo era scomparso, giacchè altri impegni sorgevano, nulla era stato continuato, aspettando.

Molte fatiche avevan quotidianamente pesato sulla vita di Domenico Maresca, dopo le sue nozze. Come se la Provvidenza avesse tutti intesi i bisogni della sua esistenza materiale e morale, gli aveva inviato una clientela sempre più larga e sempre fiduciosa della sua opera. Assai eran cresciute le sue necessità economiche: commesso il grave errore primiero di sposare Anna Dentale, con un fasto discordante con la sua piccola fortuna di pittore dei santi e coi suoi guadagni, egli era stato costretto a mantenere la sua sposa in un’abbondanza di vita, che gli costava molto. Anna non dimenticava che era stata una signora: anzi, non rammentava che questo: e i suoi atti misurati e calcolati, le sue parole rade ed altiere, i suoi sguardi pacati e orgogliosi, il suo silenzio istesso, esigevano che il marito, a cui si era degnata di concedersi, la tenesse come nell’antico suo stato, facendola viver bene, non contentandone i desiderii, perchè ella era troppo fiera per esprimerli, ma cercando di comprenderli, ma restando sempre, Domenico, nella incertezza di aver tutto fatto e di tutto aver fatto bene. A ogni sacrificio novello cui egli si sobbarcava, sia facendole dei doni di vesti e di cappelli, sia allargando la vita familiare, sia offrendole degli svaghi, costei nulla diceva, non ringraziava, non mostrava gioia, tutto accettava come se le fosse dovuto, e aveva l’aria di aspettare ancora, tacitamente, che Domenico compisse molto meglio i suoi doveri. E quante volte, egli aveva distolto gli occhi da quel bellissimo volto che egli adorava, volto muto e chiuso, temendo di leggervi la smorfia beffarda, la smorfia disprezzante dell’incontentabilità! Sì, era bene che un fervore religioso rianimasse la gente, e che nuovi santi, o di cui la leggenda mistica si rinnovellasse, seducessero con le loro grazie, coi loro miracoli, i cuori teneri per la fede: e che le glorie del Pane di sant’Antonio attraessero le anime religiose, che le glorie di san Francesco di Assisi rifulgessero più vivide, anche nelle classi più elevate, che la Madonna di Pompei facesse celebrare i suoi fasti mistici, sino nelle lontane Americhe: era bene, perchè le ordinazioni e il danaro affluissero nella bottega dei santi, e perchè Anna Maresca godesse di un’agiatezza che era stata, un tempo, la poesia della sua infanzia, sino all’adolescenza, perchè ella scorresse le ore come una creatura di elezione, fatta per la ricercatezza, per l’ozio, per la esistenza calma, ricca e larga. Ah, la giovine donna odiava profondamente, quasi aveva orrore del mestiere che faceva suo marito, e non discendeva mai nella bottega, nauseata da quegli odori cattivi, da quella costante umidità, da quelle mescolanze sporche, e non passava, quando usciva di casa, neppure per quella via, traversando il vico Donnalbina, per uscire a via Monteoliveto: e non aveva permesso che Domenico le donasse una sant’Anna, che egli aveva dipinta, con ardore, per fargliene una sorpresa, non l’aveva voluta, dicendo, irrispettosamente, che sant’Anna era una vecchia noiosa e lei era giovane; e Domenico non aveva mai portata la statuetta a casa, celando la sua delusione grande, e dando la sant’Anna, in dono, a una povera donna, assai divota, che viveva in una cameretta, a un quinto piano, in via Banchi Nuovi, facendo fiori di carta e di stoffa, per le chiese povere, per le chiese di provincia. Sì, Anna aveva ribrezzo di tal mestiere, che le rammentava il suo matrimonio con un uomo del popolo, con un volgare artefice, il quale lavorava in una bottega aperta, alla vista di tutti, mal vestito, sudicio, coperto di macchie, sempre silenzioso, un mestiere da stupido, diceva lei, trattandosi di rifar sempre le stesse facce di Santi e di Madonne, mestiere goffo e ridicolo, che qualunque manovale, un po’ esperto, poteva fare: ma, infine, quello che essa nascondeva, per diplomazia, era il desiderio che questo abborrito mestiere, di cui ella non voleva neanche udir parlare, facesse guadagnare molti danari a suo marito. I suoi istinti innati, i suoi gusti, il misterioso lavorìo della sua anima solinga, avevano bisogno di questo danaro: e Domenico Maresca, fedelmente, umilmente, veniva a gittare, innanzi a lei, quanto egli guadagnava, malcontento che non fosse di più, sognando delle somme fantastiche, perchè la sua bella signora di nulla mancasse. Noncurante, distratta, o fingendo, per condotta di vita, una noncuranza e una distrazione profonda, ella aveva l’attitudine di non chieder mai, donde venisse quel danaro: lo prendeva, come se nulla fosse, con un atto di paziente degnazione, lo spendeva subito, non ne aveva mai, o diceva di non averne, e il suo contegno era tale, che egli non osava domandarle, ove il danaro fosse passato. E se, due o tre volte, egli si era azzardato, quasi, a chiederne conto, Anna lo aveva pietrificato con tale sguardo, lo aveva punito con tale un’aria di noia sdegnosa, che giammai più egli aveva tentato una ricerca simile.

Oltre a ciò, la Provvidenza, riempiendo di costanti lavori la esistenza di Domenico Maresca, lo toglieva alle cure morali più intimamente crucciose. Neppure nelle espansioni della luna di miele, Anna Maresca aveva nascosto, a suo marito, il distacco invincibile fra le loro due vite. Essa gli era rimasta, anche moglie, non solo superiore, ma lontana: e i minuti del possesso che lo riempivano, lui, timido, casto, ma appassionato e tenero, di una emozione profonda, la lasciavano tranquilla, corretta, disinvolta, e lontana, lontana sempre. A poco a poco, ella era diventata, in questi momenti, che Domenico Maresca rammentava, egli, con le frenesia dell’amante, ella sempre più gelida: in capo a un anno, ella aveva assunto una maniera di accogliere le tenerezze amorose di suo marito, con tale una sorpresa e, anche, con una sorpresa così seccata che, spesso, avvilito segretamente, Domenico Maresca reprimeva il suo amore. Quante volte, a sfuggire un bacio di suo marito, ella voltava la testa in là, con un atto naturale, come se fosse suo dovere di schivarlo! Quante volte ella assumeva, sin dalle prime parole, un’attitudine di donna che non vuole comprendere, a cui non piace di comprendere! Tutta una serie di gesti, di atti, di motti, ella aveva studiati, forse, nelle sue lunghe ore di solitudine, per togliersi d’attorno questo noioso amore esaltato di suo marito: tutto un piano che ella aveva formato, perchè egli non la infastidisse, piano che ella eseguiva matematicamente, con una rigidità singolare e che disperdeva ogni desiderio, ogni slancio, ogni entusiasmo di Domenico, desiderii, slanci, entusiasmi, spontanei e ingenui, destinati ad esser debellati, distrutti, dalle armi sagaci e pronte di un’avversaria, preparata alla battaglia e che aveva tutto per restar vittoriosa.

— Ella non mi ama — diceva Domenico Maresca, nei suoi più brutti momenti.

E lasciava la casa, col capo curvo sotto questo pensiero trafiggente, prendeva la via della bottega, sulle sue gambe che così male portavano il corpo, vi arrivava turbato, molto turbato, e si metteva all'opera, subito, per calmare la sua agitazione. Non vi riusciva, da principio: ma i visi, che, sotto le sue dita di plasmatore si formavano nella creta, continuamente, i visi, i cui colori, le cui tinte, la cui vita nasceva sotto il suo esperto pennello, finivano per assordare la trafittura del suo cuore, finivano per mettervi su, lentamente, goccia a goccia, il balsamo di un oblio temporaneo. E ciò egli riteneva per un miracolo, tutto a lui dedicato, per un miracolo, che i santi e le Madonne compivano solo per lui, poichè egli li aveva sempre onorati, poichè egli aveva dedicato le sue umili fatiche alla loro glorificazione.

Dopo una, due ore di lavoro, tutta la sua vaga amarezza si tramutava, mirabilmente, nella bontà del suo cuore, in un nuovo germoglio di amore per Anna. E parendogli un secolo che le fosse lontano, spesso lasciava tutto in asso, si cambiava di abito, in un angolo della bottega, si dava una pulita con una spazzola e correva a casa. Ahi, che nulla era mutato, in colei che egli adorava! Talvolta la trovava più tacita e più pensosa della mattina: ella lo vedeva arrivare, con un atto di sorpresa sgradita, aggrottava le sovracciglie, non gli domandava nulla, poco o nulla gli rispondeva. Occupata, distrattamente, alle faccende di casa, compito senza piacere e senza interesse, ella passava da una camera all’altra, lasciandolo solo: egli udiva la voce breve, comandare nettamente a Mariangela, senza una parola superflua. Spesso, ella leggeva certi suoi romanzi: e non lasciava di leggere. Spesso sonnecchiava, in una poltrona: e appena schiudeva gli occhi. Deluso e umiliato, egli fingeva di cercar qualche cosa, per non confessare di esser venuto, senza una ragione, solo per tenerezza, solo per rivederla: gironzava per la casa, senza scopo, con le mani pendenti: e finiva per andarsene di nuovo, col cuore stretto, dicendo fra sè:

— Sempre la stessa: ella non mi ama.

E, più tardi, non osando ritornare a casa, temendo di leggere in qualche lieve sorriso che, ogni tanto, si delineava sulla tumida e voluttuosa bocca di Anna, tutto il ridicolo in cui ella teneva queste visite improvvise d’innamorato goffo, egli vi mandava lo sciancatello Nicolino, con un bigliettino, dove si chiedeva di una cosa qualunque, senza importanza, ma si aspettava risposta: o, infine, Nicolino era incaricato di un’ambasciata, a voce, e gli s’ingiungeva di portare la risposta, senz’altro. Abbassato il capo sulla sua opera, con le belle mani abili che andavano e venivano, Mimì Maresca tendeva l’orecchio, a udire i passi bizzarri dello sciancatello, che dovea ritornare. Talvolta, costui tardava; e in silenzio attivo, Mimì Maresca già fremeva d’impazienza. Lo storpio rientrava in bottega: e ripeteva la risposta:

— La signora si pettinava e non ha potuto scrivere.

Oppure:

— La signora dormiva.

Oppure:

— La signora ha detto che ve ne parlerà stasera, quando tornate a casa.

Oppure la risposta dura:

— La signora era uscita.

Durissima notizia! Il marito innamorato e non amato, non amato più, o non amato mai, trasaliva tristemente. E a malgrado che tutto egli volesse nascondere, vergognandosi della sua inquietudine, temendo persino il giudizio del suo fedelissimo Gaetano Ursomando, che nulla aveva mai l’aria di vedere e dì udire, egli soggiungeva, ansioso:

— Uscita? Dove è andata? Da quando è uscita?

— Non lo so — era, per lo più, la risposta dello sciancatello.

— Ritorna da Mariangela e domandaglielo.

Ah che nell’intervallo, Mimì Maresca non potea riprendere il lavoro: gironzava per la bottega, con quei suoi passi incerti e strascinati, brancicando con le mani fra i colorì e i pennelli, rovesciando qualche vasetto di porporina, e gittando degli sguardi spersi sulle piccole Madonne e sulla immensa Addolorata del fondo. E di nuovo, la voce di Nicolino risuonava:

— La signora è uscita da un’ora; non ha detto dove andava; Mariangela suppone che sia andata da qualche parente.

Così! Non passava giorno, in cui Anna Dentale non si vestisse in elegante abito e non andasse a trovare suo padre, i suoi zii, le sue zie, le cognate, le cugine, le parenti lontane. Il costume della piccola borghesia napoletana, in una austera riservatezza, non consente che le donne maritate escano, senza essere accompagnate dal loro consorte: molto più le spose. E tante di esse, coi mariti alle botteghe, ai commerci, alle industrie, agli impieghi, si rassegnano facilmente a una vita claustrale, aspettando la domenica per uscire, a messa, e ad una passeggiata, col marito. Non Anna! Senza chieder permesso, senza chieder consiglio, senza chieder parere, dalla prima settimana, ella era uscita sola, in qualunque ora del giorno, con grande mormorazione del quartiere: e a qualche rimostranza affettuosa del marito, fatta solo all’inizio di queste uscite, ella aveva rudemente risposto che non intendeva di deperire in quella brutta e deserta casa di via Donnalbina, che voleva vedere i suoi, sempre, e che li sarebbe andati a trovare ogni giorno. E i Dentale erano numerosissimi: se ne scovrivano ogni giorno di più, lo zio Casimiro, il prozio Stefano, l’arciprete Giovanni, il canonico Ottaviano, la zia Carolina, la cugina Candidella, nomi costantemente nuovi, che si accumulavano coi vecchi. Don Carluccio, chiusa la farmacia sua, rabberciato alla meglio il fallimento, per isfuggire all’accusa di bancarotta fraudolenta, si era assoggettato come giovane, da un suo parente, altro farmacista, in via Costantinopoli: ma vi lavorava poco, malcontento, impaziente, impertinente, e vi guadagnava pochissimo: la figliuola non solo lo soccorreva di danaro, ma lo andava a cercare, spesso, in farmacia, se ne uscivano, via, insieme, parlottando in segreto, complottando, diceva il parente farmacista. Anche Domenico, per affetto, per gentilezza di animo, aiutava di denaro suo suocero, nè costui risparmiava il genero: ma sempre dall’alto, con un fare da gran signore, promettendo sempre di restituire, come se avesse dovuto rifar fortuna, un giorno: e, infine, don Carluccio Dentale si era organizzata una buona vita, con tutto ciò che gli serviva. Di sera, spesso, si presentava in casa Maresca, all’ora del pranzo, e aveva l’aria di elargire un onore grande al padron di casa, e discorreva con altiera bonarietà, quasi sempre con sua figlia, conservando un segreto disdegno per Mimì, uomo di popolo, nato da gente di popolo, a cui egli aveva dovuto sacrificare Anna Dentale, una signora! Chiacchierando, con la sua figliuola, ambedue avevano un gergo familiare, dei ricordi a cui Domenico nulla intendeva, dei sorrisi d’intelligenza, dei sensi sottintesi nelle frasi; e citavan nomi, fatti e date che egli ignorava; e si abbandonavano alle memorie, ai progetti, alle speranze, isolandolo, obliandolo, come se egli mai fosse esistito, escludendolo, persino, da ogni discorso di avvenire. Alla sfuggita, ogni tanto, Mimì comprendeva che Anna e il padre si eran veduti, nella giornata, che erano andati insieme, chi sa dove, chi sa in quale ora. Talvolta, sempre al principio, un po’ scherzando, un po’ sul serio, egli aveva rivolto, a tavola, qualche dimanda suggestiva. Subito, aggrottate le sovracciglia, Don Carluccio aveva assunto un contegno offeso:

— No, no, caro Mimì, non scherziamo! Quando mia figlia è con me, voi nulla dovete sapere. Sono il padre e basta. È già molto, avervela data in moglie. Non intendo sopportare altro.

Quanti Dentale esistevano, e loro affini, e amici loro, tutti in rapporto con Anna e che costei vedeva sempre, mentre suo marito si affannava a plasmare i visi rosei e ridenti agli angioletti, intorno all’Assunzione di Maria, e dipingeva di un bianco latteo le nuvole che portavano in Cielo la Vergine! Abitava, tutta questa gente, nei quartieri più eccentrici, più lontani fra loro, a santa Teresa di Capodimonte, all’Arenaccia, a Montecalvario, a santa Lucia, a Basso Porto, a Materdei; ve ne era persino una, Francesca Dentale Catalano, oltre la Riviera di Chiaia, alla Torretta! E Mimì si figurava Anna, andando a piedi, alle visite più vicine, in tram verso quelle più accessibili, in carrozza da nolo alle più lontane, se la figurava... dove, dove, posto che egli si confondeva, in tanta parentela, in tante amicizie, con tanti nomi? La sera, egli, malgrado che sapesse di annoiarla, non poteva reprimere la domanda:

— Sei uscita?

Per lo più, ella non rispondeva alla prima richiesta, in una di quelle sue distrazioni tanto opportune.

— Sei uscita, poi, Anna? — insisteva Mimì.

— Già.

— Sei andata... dove?...

— A fare una visita.

Silenzio, ancora.

— Dalla tua madrina, donna Giuseppina?

— ...no.

— Da tuo padre?

— ...no.

— Da Francesca Dentale?

— ...no.,no. Sono andata altrove...

— Ah!... — esclamava lui, come aspettando.

Ella si decideva.

— Sono stata da Maria Garzes.

— E chi è, costei?

— Non la conosci. Una mia compagna di monastero.

— E dove abita?

— A Salvator Rosa.

— È maritata?

— Sì, maritata; agiata.

— E chi ha sposato?

— Un signore, naturalmente — concludeva lei, per punirlo delle sue investigazioni.

Raumiliato, egli cessava d’indagare. E le doveva credere sulla parola: poichè, per metodo, Anna aveva fatto sì, che i suoi parenti, salvo suo padre, non vedessero che raramente, molto raramente, suo marito. Con un’abilità perfetta, dovendo egli stare a bottega, tutto il giorno, non facendosi restituire che pochissime visite, non andando con lui, di domenica, quando egli era libero, che a messa, a passeggiare in Villa e, la sera, in un teatro, ma sempre sola, con lui, evitando gl’incontri, fuggendo ogni gita in compagnia, Anna aveva isolato Mimì Maresca. A qualche tentativo infelice di lui, per vedere qualcuno di costoro, almeno i parenti più prossimi, a qualche atto di cortesia, di familiarità che egli aveva voluto compiere, ella aveva opposto un rifiuto secco: e se il pittore dei santi aveva voluto insistere, Anna gli aveva fatto intendere, pur senza dirlo, che i suoi parenti, essendo di un ceto molto più alto del suo, non avevano piacere di trattarlo. Immediatamente, nella sua triste semplicità, egli aveva ceduto. Sempre gli ricadeva sulle spalle, come un peso di pietra, questa differenza di condizione: Anna non gli risparmiava una sola volta questa verità, in ogni particolare quotidiano della vita, in certe lezioni che gli infliggeva, con fare altezzoso e noncurante, in certi segni costanti di disprezzo, che ella esercitava contro lui. Ogni sua consuetudine semplice, ogni suo costume, ogni tradizione familiare, ogni uso popolare, tutto questo svolgersi dell’esistenza, in una certa maniera, avevan trovato in Anna un giudice rigido, inesorabile: e tutto, lentamente, malvolentieri, egli aveva dovuto mutare, anche quello che più gli era caro, anche quello che era stato caro a suo padre, a suo nonno, anche quello che egli vedeva fare a tutta la gente della sua condizione. Frizzante, sardonica, Anna colpiva, dalla sommità della sua signorilità, tutto ciò che per tanti anni era stato il fondo della vita di Mimì Maresca, fondo grezzo ma onesto, volgare, forse, ma bonario, superstizioso, forse, ma non mancante di tenerezza: e Mimì chinava il capo, rinunziava a mangiare certi cibi, in certi giorni, rinunziava a certe ore di riposo, nella stagione estiva, rinunziava a celebrare certe feste, rinunziava a certi pellegrinaggi, in certi anniversarii. Ella non transigeva. Era una signora: e tale voleva restare, e tentava, inutilmente, diceva lei, di dargli qualche gusto di signore. Ella si era rifiutata, violentemente, a ricambiare nessuna delle visite fattele, con pompa, dai parenti Maresca. Solo negli otto giorni, dopo le nozze, in grande lusso, col suo più bell'abito, coi suoi più ricchi gioielli, ella aveva acconsentito a visitare la moglie del compare di anello, donna Gabriella Scafa, la ricca moglie del Re della Immagine, quel marito e quella moglie che dominavano, con un imperio sovrano, tutta la regione di san Biagio dei Librai, sino a via Tribunali, sino a Forcella, sino al Duomo, dovunque una piccola o grande bottega di figure e di figurelle esponesse le sue immagini, quei possenti Scafa che il trionfo della oleografia sacra, a buon mercato, aveva arricchito. Con costoro, sì, una o due volte l'anno, in cerimonia, accompagnata da Domenico Maresca, trattenendosi un quarto d'ora, scambiando delle frasi convenzionali, senza nessuna cordialità: e ricevendo la visita di ricambio, allo stesso modo, in via Donnalbina, mandando a chiamare Mimì in bottega e portando, Anna, la sua più ricca vestaglia. A nessun altro, una visita: neppure alla zia Gaetanella Improta, quella dell’eredità, quella che non portava cappello, pur avendo molti danari. Quando la Improta era nominata, quando si nominava un parente Maresca, la bella bocca di Anna Maresca si gonfiava di sprezzo e il suo silenzio, ostinato, ingrandiva anche più quella espressione costante. Nessuno di essi aveva osato farle una visita, avendone compreso l’animo nella festa di nozze, e man mano, Domenico Maresca, era stato messo da parte anche da queste antiche parentele, da quelle umili conoscenze, gente che gli voleva bene, prima, ma che, adesso, lo compativa, crollando il capo, prevedendo chi sa quali brutte conseguenze, da questo matrimonio; e se, per caso, egli s’incontrava con uno di costoro, se egli andava loro incontro, con le braccia aperte, con il suo buon sorriso sulle grosse labbra smorte, l’altro assumeva un contegno gentile ma distaccato: se egli nominava sua moglie, l’altro, subito, troncava il discorso. Tutto egli comprendeva, Mimì Maresca, con una sensibilità profonda, affinata, adesso, da un amore che ne eccitava i nervi e le facoltà: sentiva che lo sfuggivano, sentiva che lo compativano, sentiva che essi temevano di Anna, sentiva che essi prevedevano cose molto cattive. E si rinchiudeva, sempre più, nella solitudine della sua passione ardente, oscura, esclusiva e unica: e si aggrappava, per poter vivere, a questa passione di cui Anna non gli permetteva, oramai, più, che pochissima o niuna manifestazione. E non avevano figli!

— Ringrazio Iddio, mattina e sera, perchè non mi manda figli — esclamava lei, ogni tanto, guardando suo marito nel viso, perversamente.

A questa parola sacrilega, a questa preghiera sacrilega. Domenico Maresca allibiva. In tutte le classi sociali napoletane, è così profondo il desiderio, il bisogno, la necessità di avere dei figliuoli, che un matrimonio senza figli, è considerato con viva compassione per i coniugi e, anche, con un senso di disistima. Scendendo, poi, nella piccola borghesia, nel popolo, le nozze infeconde sembrano una sventura familiare. Più innamorato che marito, più amante che padre, Mimì Maresca provava, sul principio, molto superficialmente la nostalgia di questi figli che non venivano: ma, un anno e mezzo dopo, in lui, fatto più preoccupato, più triste, più segretamente infelice, deluso profondamente dall’amore, crucciato dai sospetti più intimi, non potendo più orientare la sua misera vita sentimentale, cercando un punto sull’orizzonte cui tendere il suo cuore deserto, questa nostalgia si era fatta più acuta: e non poteva comporre, con le sue nobili mani dedicate alla più sacra delle fatiche, con quelle mani che erano la sola bellezza della sua brutta persona, con quelle mani in cui si traduceva la dolcezza della sua anima, non poteva plasmare, o dipingere una testa di angioletto, senza fremere di invincibile malinconia. Egli voleva fare, nel suo ardente desio, una statuetta del bambino Gesù, alla maniera antica, come i pittori di santi antichissimi: una statuetta, alta come un bambino di due anni, un piccolo Gesù roseo e biondo, con le manine aperte e distese, con la boccuccia schiusa. Questo bambino Gesù si veste di un abituccio di raso grigio perla, abituccio orlato al collo, alle maniche e alla gonnelluccia di una trina di oro, e la stoffa è tutta ricamata a zecchini di oro, scintillanti: sul bel capino riccioluto si posa una coroncina chiusa di argento: e al collo, sul petto, sulle braccia tese del piccolino, si appendono fili di oro con medaglioni, vezzi di perle, vezzi di coralli, e tutti gli strani ex voto della fede meridionale. Se Dio gli dava un figlio, una figlia, Mimì Maresca avrebbe offerto al Signore questa sorridente e ricca effigie del suo Divin Figlio, opera di Mimì Maresca, la statuettina dai piedini rosei e nudi sul piedistallo, e tutto fornito da lui, la veste, la coroncina, l’oro, i voti. Nulla sapeva Anna di questo già potente e dolente desiderio del marito, poichè egli non osava parlarne. Solo, qualche volta, indirettamente, gli usciva dal cuore, al derelitto pittore dei santi, innanzi all’altiera creatura del suo inutile amore, una esclamazione d’invidia, se si parlava di una coppia cui era nato un figliuolo: solo, qualche sospiro, gli usciva dal petto, se incontravano, nelle loro passeggiate della domenica, delle famiglie placide, precedute da una piccola schiera di figliuoli, vestiti graziosamente.

— Beati loro! — mormorava lui.

E, subito, Anna Maresca ribatteva:

— Anche tua madre, non ne ha fatto che uno.

Egli impallidiva mortalmente. Era una cosa insopportabile, per lui, udir nominare sua madre da Anna: poichè ella lo faceva glacialmente, con una malvagità premeditata, guardando negli occhi suo marito, costringendolo ad abbassarli, costringendolo a tacere e a divorare la sua amarezza.


Alle otto di sera, un sabato, di settembre, Mimì Maresca bussò in fretta alla porta di casa sua, in via Donnalbina. Ordinariamente, rientrava alle sette, per il pranzo: ma, in quel giorno, il lavoro forte che vi era stato in bottega, il viavai di clienti, degli ordini da dare a Ursomando e allo sciancato Nicolino, per il lunedì, gli avevano portato via più di un'ora.

— È tardi, Mariangela, ho fatto tardi — disse lui, alla vecchia domestica che era venuta ad aprirgli, passandole avanti. — Il pranzo sarà pronto?

— Sì — rispose costei, con un accento singolare.

In un minuto, Mimì, aveva percorso le tre piccole stanze dell'appartamentino. Anna non vi era. Sconvolto, egli corse in cucina, ove la serva si affaccendava attorno ai fornelli.

— Mariangela, dove è la signora?

— È uscita.

— Uscita? Da quando?

— Dalle quattro; prima, forse.

— E non è tornata? Alle otto? Come è possibile?

Una pena viva ispirava le sue esclamazioni. La antica domestica che lo aveva visto nascere, che lo aveva cullato, portato a scuola, amato come un figlio e venerato come un padrone, lo guardava con atto di profonda pietà:

— La signora ha mandato una lettera per voi — ella mormorò. — La lettera è in istanza da pranzo, al vostro posto, dove si mettono sempre le lettere.

Egli vi corse. Un bigliettino era deposto, sul suo tovagliolo: scritto a lapis, sovra un mezzo foglietto che pareva strappato da un taccuino maschile, e chiuso in una busticina da carta da visita. Diceva, il biglietto: «Caro Mimì, devi pranzare solo. Sono andata a far visita a Francesca Dentale, perchè era l’onomastico di suo marito Gennarino, e mi hanno gentilmente trattenuta a pranzo. Non t’imbarazzare per venirmi a prendere, perchè vi è chi mi accompagna — Anna». In una profonda confusione, egli cadde sovra una sedia, al suo posto, in quella stanza da pranzo, ove erano sempre in due, da un anno e mezzo, e dove, quella sera, gli toccava restar solo, pranzar solo, poichè Anna lo abbandonava, con una libertà di azioni, una disinvoltura e una indifferenza completa. Mai, mai, era restata a pranzo fuori di casa, neppure col padre, nè per un invito formale, nè per una occasione fortuita e, così, a un tratto, per affermare la propria indipendenza, di fronte ai parenti Dentale, ella non rientrava, pranzava altrove, lontana, avvertendone con un biglietto arido, senza una parola di scusa, senza un saluto, senza dire a che ora sarebbe rientrata, togliendogli anche, brutalmente, il diritto di andarla a riprendere, facendogli intendere, chiaramente, che voleva fare il suo comodo e non esser infastidita da lui.

— Debbo servire? — domandò timidamente, dalla porta, Mariangela, al suo padrone che, con la testa fra le mani, coi gomiti puntati sulla tavola da pranzo, cercava vincere i suoi nervi tesi dallo spasimo.

— Servi pure.

Ma della buona zuppa di erbe fumanti, egli non prese che una cucchiaiata: brancicò, col coltello e con la forchetta, un pezzo di carne allesso e lasciò stare tutto. Si passava, macchinalmente, la mano sulla fronte, volendo calmarsi, volendo riprendere un po’ di tranquillità, sempre con la paura che qualcuno indovinasse la cura insopportabile che aveva dentro. Anche di Mariangela aveva soggezione, quantunque ne conoscesse la devozione assoluta. E tentò, con uno sforzo, di chiarire, alla sua domestica, quell’assenza così strana, la padrona che lascia la casa e il marito, per andarsene a pranzo, da parenti che egli non vedeva mai, in un rione lontano, per ritornare chi sa a quale ora della sera, forse avanzata.

— Me lo imaginavo... — egli mormorò, come fra sè... — Era naturale che donna Francesca Dentale la trattenesse a pranzo... è san Gennaro, oggi... aveva un bell’abito, Anna, oggi?

— Sissignore. Quello nero, tutto ricamato di perline.

— Oh! E ti ha detto nulla, per me?

— No. Se lo doveva immaginare, però, che sarebbe ritornata di notte, perchè ha portato via la mantellina — soggiunse la domestica, candidamente.

— Ah! — esclamò lui, trafitto di nuovo. — E chi ha portato questa lettera?

— Un fattorino di piazza.

— Da dove veniva?

— Da Chiaia, mi ha detto.

— Già. E chi gliela aveva consegnata?.

— Un giovanotto, mi ha detto.

— Ah! — disse lui, senza aver forza di conoscere altro.

Col coltello, tagliuzzava minutamente la corteccia dell’arancio, che aveva cercato di mangiucchiare. Si levò di tavola, andò in salotto, vi restò, in piedi, guardandosi intorno con quello sguardo sperso che egli assumeva, nelle ore difficili della sua vita.

— Volete del caffè? — chiese la vecchia fedele, dalla porta.

— No, no.

E per non mostrare anche più la sua miseria morale, aprì un giornale della sera che Anna comperava, con un soldo, quotidianamente, da uno strillone: e che ella leggeva lungamente, per isfuggire, spesso, alla conversazione con suo marito. Mimì scorreva le colonne di parole e di lettere e non intendeva nulla. Due volte, guardò l’orologio: non erano ancora le nove. E pensava, tra sè stesso, che non avrebbe resistito, ad attendere, in casa, Anna. Egli non esciva mai, dopo pranzo: e certo, Mariangela, avrebbe compreso la sua ansia, vedendolo partire: e si vergognava. Ma come resistere? Si sentiva male: correnti di gelo, correnti di fuoco gli attraversavano la persona: ebbe paura di aver la febbre, una febbre improvvisa, che gl’impedisse di andare. Mariangela rientrava, adesso, in salotto e lo guardava coi suoi buoni occhi amorosi e pieni di pietà. Voleva dirgli qualche cosa, si vedeva, mentre egli fremeva di fuggire.

— Che vuoi? — chiese lui, rodendo il freno, fingendo una calma perfetta.

— Volevo dirvi, don Domenico, che questi sono gli ultimi giorni che resto al vostro servizio — ella pronunciò, con uno sforzo per celare la sua emozione.

— E perchè? Perchè? — esclamò il padrone, stupito.

— Perchè me ne vado — ella soggiunse, rassegnatamente.

— Te ne vai? Dove, te ne vai?

— Ho una sorella, ad Airola, vicino Benevento; è il paese dove sono nata, Airola. A questa sorella e a me, nostro padre ha lasciato una casetta, una stanza e una cucina sola; niente altro. Vado a morire là, nel mio paese, don Domenico.

— E mi vuoi lasciare? Dopo tanti anni! — gridò lui, sinceramente commosso, dimenticando i suoi guai.

— Io non vi lascerei — mormorò essa, con dolcezza servile. — È la vita che mi lascia.

— Tu puoi campare molti anni ancora, Mariangela!

— Ma non posso più servire — ella replicò, sempre con umiltà, a capo basso.

— E come vivrai, poveretta? La casa non basta.

— Ho qualche soldo, da parte, dopo tanti anni, che servivo qui: io non spendevo nulla, papà vostro e voi, eravate così buoni! Non pensate; avrò sempre un tozzo di pane.

— Oh Mariangela, Mariangela, tu te ne vai! — disse lui, dolorosamente. — Te ne vai, così, dopo tanti anni! E Anna lo sa?

— Lo sa — disse l’altra, con tono rassegnato.

— E che dice? Che ti ha detto?

La vecchia domestica non rispose. Mimì ebbe l’animo attraversato da un sospetto.

— Non ha detto nulla, per trattenerti?

Mariangela gli levò gli occhi sul volto e, a bassa voce, confessò la verità.

— È lei che mi ha licenziata.

— Lei? Lei?

— Sì, lei.

— Licenziata, proprio?

— Oggi. Prima di uscire. Per la fine del mese.

— E perchè? perchè?

— Dice che sono vecchia, che non posso più servire, che non ho mai saputo servire. Sono vecchia, io; ed essa ne vuole una giovane — disse rapidamente, tremando, la poveretta. E per umiltà di animo cristiano, soggiunse:

— La padrona ha ragione. Sono vecchia, non mi reggo più in piedi, me ne debbo andare.

E, involontarie, sole, due lunghe lacrime discesero sulle guance scarne e rugose, gelide lacrime di vecchia creatura povera e finita, oramai.

— Povera Mariangela — disse lui, con un sospiro profondo, ove parve si esalasse tutto il suo rammarico impotente e inutile.

Non altro. Il suo tormento lo riprendeva, a morsi atroci, e, senza più aver la forza di reprimersi, afferrò il cappello e uscì di casa, accompagnato dal pio e tenero augurio di Mariangela, un augurio in cui, quella sera, trapelava, anche, la tristezza delle cose che non sono più.

— La Madonna vi accompagni, in ogni passo che date.

Quando fu fuori di casa, Mimì Maresca, nella molle serata di settembre, attraversata da qualche debole soffio fresco di un autunno che si avanzava, quando i suoi rapidi passi lo ebbero portato, dalla stretta e tetra e deserta via di Donnalbina, ove solo due fanali a gas, fiochi, diradavano le tenebre, in via Monteoliveto, bene illuminata, animata da viandanti, in ogni senso, attraversata continuamente dai trams che venivano da lontano, dai quartieri estremi sul mare, quando egli fu tra la gente, camminando in fretta, si sentì sollevato, un poco. Niuno sapeva dove corresse quell’uomo dallo scialbo e floscio viso, tutto assorto in un pensiero fisso, ed egli stesso andava, andava, verso via Fontana Medina, verso Piazza Municipio, spinto da un istinto di ricerca affannosa, d’inquieta indagine. Come quegli si accostava al centro della città, l’animazione della sera di morente estate, si facea più viva. File di donne passavano, venendo da Santa Lucia, da Chiaia, risalendo verso Toledo, verso i quartieri alti: altre file discendevano: e tante donne erano vestite di chiaro, quasi tutte; e molte erano vestite di bianco; e dei ventaglini si agitavano, nelle mani muliebri, delle risa trillavano, qua e là, una gaiezza circolava nell’aria, nelle cose, nelle persone; e i caffè avevano le loro tavole sui marciapiedi, sulle piazze, e la folla le occupava da pertutto; e delle musiche risuonavano, eseguendo dei pezzi popolari, delle canzoni alla moda, delle arie di ballo. Era giorno di festa, infine, per chi rispettava san Gennaro, il Patrono: e, sovra tutto, era una di quelle splendide sere di settembre, quando la gente si riversa ovunque si possa godere il fresco, sotto il chiarore delle stelle. Colui che scendeva per via Chiaia, sempre a piedi, sempre rapidamente, Mimì Maresca, percepiva superficialmente lo spettacolo così vivido e così simpatico della sera di estate: egli si urtava con le persone, scansandosi macchinalmente, proseguendo la sua via, cieco e sordo a ogni altra cosa, che il suo furioso desiderio non fosse: ritrovare Anna, subito, riprendersela, riportarsela a casa.

E, animato da questa monomania, non si fermava a rammentare tutti i particolari bizzarri di quell’avventura disgraziata: la premeditazione, certo, che Anna aveva avuta in quella giornata: la brevità offensiva del biglietto: quel foglietto di provenienza non femminile: e quell’uomo, quel giovanotto che aveva consegnato la lettera al fattorino. No, tutto ciò gli era sfuggito dalla mente; egli correva, soltanto, per ritrovare Anna, non sapeva altro, andava, andava, diritto innanzi a sè. Fu sotto le grandi lampade elettriche di piazza Vittoria, ove i più bei palazzi patrizi mettono le loro facciate, ove il più elegante club di Napoli, il Nazionale, aveva la sua veranda illuminata e, fra le piante, sdraiati nei seggioloni di paglia, i socii sorbivano delle bevande ghiacciate e fumavano delle sigarette, fu solo lì, in piazza Vittoria, fra un andirivieni di persone, fra il rumorio sempre più forte dei trams, che Mimì Maresca si fermò di botto.

Dove andava? Dove andava? Non ignorava, egli, forse, l’indirizzo di Francesca Dentale? Dove andava? Egli sapeva soltanto che la bella cugina di Anna, sua moglie, abitava alla Riviera di Chiaia; ma quella via è così lunga, così lunga! Sapeva, ancora, che Francesca Dentale abitava verso la Torretta, alla fine, proprio alla fine della Riviera di Chiaia, ma dove, specialmente, a qual numero, egli lo ignorava. Dove si dirigeva? A chi chiedere? In che posto fermarsi? Con quale indizio trovare questa casa? La sera si inoltrava, la Riviera di Chiaia, fatta di grandi edifizi aristocratici, fiancheggiati da piccole case borghesi, aveva pochissime botteghe, quasi tutte chiuse, o che si andavano chiudendo. Dove andava, dunque, Mimì Maresca, in una regione di Napoli così lontana dalla sua, in vie belle e popolose, ma che egli non frequentava quasi mai, dove andava, a cercare sua moglie, una donna, in una grande strada lunghissima, di cui l’occhio non scorgeva la fine, la cui larghezza impediva di riconoscere qualcuno, da un lato all’altro, con un fluttuamento costante di persone, con un movimento rapidissimo di equipaggi, dove andava egli, dunque, a cercare Anna, in una casa sconosciuta, egli non esperto, non pratico, profondamente scosso e già pentito dell’invincibile impulso che lo aveva spinto colà?

E, dove andava, dunque, costui, quando gli si era detto che non lo volevano? Perchè andava, quando niuno lo desiderava, quando, egli ne era certo, sarebbe giunto inaspettato e mal gradito? Dove andava egli mai, quando la volontà di Anna era stata così chiara, così limpida, proibendogli di andarla a prendere, poichè aveva compagnia, e migliore della sua? Dove andava, quando ella lo aveva confitto a casa, in via Donnalbina, con quel biglietto, quando ella non voleva saperne, della sua presenza, divertendosi, ballando, forse, fra gente del suo ceto, ed escludendo lui, escludendolo assolutamente, lui popolano, pittore dei santi, senza finezza, goffo, goffissimo, insopportabile a lei? Dove andava mai, dunque, per farsi ricevere come un cane in chiesa, anche se avesse ritrovata la casa di Francesca Dentale, per farsi scacciare, forse, da sua moglie?

E tutto l’ardor di ricerca, dunque, di Mimì Maresca era caduto: la debolezza spirituale, che era il fondo del suo essere, lo assaliva, novellamente, gli spezzava le forze fisiche e le morali. A passi lenti, oramai, si era messo sul marciapiede che rasenta il trottatoio della Villa e si trascinava lungo la ringhiera di ferro che difende i pedoni, alla mattina, dal trotto dei cavalli, su cui gli sportmen vanno e vengono, sotto le ombre dei grandi alberi del giardino pubblico. Di sera, alle nove e mezzo, non vi erano sportmen, ma il marciapiedi era ancora affollato, con la freschezza settembrina, con i profumi che venivano dai giardini di casa Colonna, di casa Alvarez de Toledo, del Vasto, di Monteleone. I suoi pensieri, in piazza Vittoria, avevan distrutto la sua esaltazione momentanea e, con essa, la sua momentanea forza. Camminava, sì, ma come un’ombra folle e vana, rallentando il passo, fermandosi, fissando gli occhi innanzi, ma senza vedere nulla, respinto spesso da chi gli passava accanto, respinto a diritta, a sinistra, sorpreso, costantemente, dal passaggio filante e rumoreggiante dei trams pieni zeppi di donne e di uomini, che tornavano da Posillipo, dalla Torretta, trasalendo a ogni volto femminile che gli appariva, e non osando neppure fissarlo bene, quasi avendo paura, oramai, d’incontrare sua moglie, chiedendo a sè stesso perchè non fosse restato, laggiù, nella solinga casa di via Donnalbina, ad aspettarla, come essa gli aveva ingiunto, perchè non le avesse ubbidito, senza discutere, anche a costo di soffrire le più acute torture, poichè il suo destino, oramai, era di vivere e di morire per lei, vivere di dolore e morire di dolore, ancora chiedendo perchè, perchè mai si trovasse colà, a quell’ora della sera, sgomento di un incontro, di cui sentiva il presentimento fatale nel suo spirito. Sfiaccolato, affranto da una giornata di fatica materiale, passata in piedi, e da una crisi morale che aveva debellato le sue fragili e fugaci energie, tremante di un pericolo morale di cui, con singolare percezione, egli pareva sentisse la imminenza, Mimì Maresca, mise moltissimo tempo per giungere, come uno spettro vagolante, sin quasi alla fine della Riviera di Chiaia, ove, forse, sorgea la casa di Francesca Dentale, ove, forse, stava Anna, sua moglie, e dove egli, adesso, aveva un terrore invincibile di ritrovare questa casa e di ritrovar questa donna.

Egli si era arrestato, macchinalmente, in un punto ove l’andare e venire della gente, nella limpida e morbida sera di estate, era più forte e più allegro. Innanzi a Mimì Maresca che stava immobile, sul marciapiede, in un incrocio largo di binarii, vi era la grande fermata dei trams della Torretta: la Riviera di Chiaia vi finiva, biforcandosi in due strade, quella di Mergellina, quella di Piedigrotta, una che andava a Posillipo, verso il mare sonoro e fragrante, una che andava verso la campagna di Fuorigrotta, nell’ombra solinga e odorosa delle vigne e degli orti. Alle sue spalle, una larga, ma breve traversa, frequentatissima, conduceva all’elegante e aristocratico Viale Elena, conduceva tra palazzi maestosi e villini civettuoli, alla magnifica via Caracciolo. E i carrozzoni dei trams, dalla città, dal mare, giungevano carichi, gremiti di persone, alla fermata della Torretta, ove altra gente attendeva, in piedi, per prender posto, ove molti scendevano, molti salivano, fra gli squilli di campanelli, il rumorio delle voci e il fragor sordo e continuo degli equipaggi signorili, delle carrozze da nolo, e i canti lontani e vicini, e tutto un chiasso umano, ora basso ora alto, ora dolce ora stridente. Continuamente Maresca era urtato, spinto, investito, talvolta da gruppi di persone, mentre, alle sue spalle, in via Mergellina e nella larga traversa, il Caffè Stinco aveva collocato i suoi tavolini all’aria aperta, tutti occupati da gente. Ogni tanto, Mimì Maresca indietreggiava, verso la traversa, verso il Viale Elena: una volta, lentamente, trascinando i suoi piedi morti di fatica e la sua anima morta di tristezza, giunse sino alle acacie del Viale Elena. E fu in fondo a questa traversa che una donna, passando, lo sfiorò e si voltò, subito, a guardarlo, fisamente; la donna mosse pochi passi, indecisi, innanzi: poi, a un tratto, si voltò di nuovo, gli venne incontro, gli si piegò, vicina, dicendogli, con voce bassa e roca:

— Non mi conosci? Non mi conosci più?

Al chiarore che veniva da una bottega illuminata, ove delle stiratrici lavoravano, nel biancore delle tende e della tavola da stiro, egli fissò bene la donna e la riconobbe. Gelsomina, che toccava i venti anni, pareva fatta più alta e più magra: il suo vestito di mussolina bianca, tutto adorno di merlettini bianchi, pareva che le andasse largo, un po’ cascante sul busto e sui fianchi. Sotto un grandissimo cappello nero, carico di corte piume nere, il suo viso sembrava più smunto, più allungato. Era oltraggiosamente carico di rossetto e di polvere di riso: il colorito naturale di questo viso era sparito, completamente: sottolineati di bistro i suoi occhi, e delineate, anche in bistro, le sovracciglia fini: con atto costante, ella seguitava a mordersi le labbra, per farle diventar rosse. E, strano a dirsi, era leggermente toccato, delineato col rossetto, il segno che ella portava dalla sua nascita, sul mento, la piccola voglia, la piccola fragola. Alle gentili orecchie portava dei pesanti orecchini; delle grosse pietre verdi, quadrate, circondate da pietre bianche, falsi smeraldi con falsi brillanti. Al collo, aveva una grossa spilla, simile: e, sul braccio, uno scialletto di seta rossa, di un colore vivissimo.

— Non mi riconosci? Non mi vuoi riconoscere? — ella domandò, ancora, con quella sua voce lamentevolmente rauca.

— Sì, sì, — mormorò lui, con una pena immensa — ti riconosco, sei Gelsomina, buona sera!

— Non mi chiamo più così! — replicò ella, crollando il capo. — Gelsomina non esiste più.

— E come ti chiami?

Fraolella, solamente Fraolella. Tutti così mi chiamano.

— Chi, tutti? — chiese lui, inconsciamente.

Ella lo guardò, amara, senza rispondere. Sparita, per sempre, da quegli occhi grigiastri e grandi la espressione maliziosa di dolcezza infantile e l’altra, anche infantile, d’improvviso smarrimento: un avvicendarsi, invece, di una rassegnazione passiva, di una tristezza torbida, di una curiosità dolente, di uno stupore dolente. E quegli occhi ove tutta la sua istoria si poteva leggere, per chi ricordava quelli di un tempo, quegli occhi donde tutta la gioia della innocenza e della gioventù era fuggita, contrastavano malamente con quel viso delicato, tutto imbellettato.

— E che fai, qui, a quest’ora... Fraolella? — domandò Mimì, per dire qualche cosa, superando la sua pena.

— Aspetto... aspetto qualcuno... — ella rispose, girando la testa in là.

— Un innamorato?

— Già.

— Don Franceschino Grimaldi?

Un breve riso, impresso di cinismo, uscì dalle labbra dipinte e morsicchiate di Gelsomina.

— Le tue notizie sono vecchie! — ella esclamò, ridendo ancora, e fermandosi, subito, per respirare, come un tempo.

— Non è più il tuo innamorato?

— Ma no!

— Lo hai lasciato?

— Mi ha lasciata — ella soggiunse, piano, come se parlasse in sogno. — Dopo tre mesi, mi ha lasciata.

— Così poco?

— Così poco, Mimì — disse lei, mentre, nella arrocatura della voce, qualche cosa tremava. — Temeva... temeva... qualche guaio... un figlio...

— Non vi è stato... ? — esitò lui, a domandare.

— No... niente... meglio così. Come avrei fatto, Mimì? Mi sarei dovuta buttare dalla finestra.

Essi si guardarono, un momento, ambedue stravolti. Stavano innanzi a quella bottega, ove si lavorava, a grandi colpi di ferro e, vicinissimi, parlavano piano. La gente che passava, o non si accorgeva di loro, andando ai suoi piaceri e ai suoi doveri, o, accorgendosene, aveva un sorriso maligno, vedendo l’interesse di quel colloquio, credendo a discorsi amorosi o, piuttosto, a discorsi sensuali, fra quella giovine il cui aspetto, ahimè, non ingannava nessuno e quell’uomo giovine, smorto, che l’ascoltava attentamente.

— Ascolta, Mimì, ascolta, — ella proruppe, ma pianissimo, dopo essersi guardata intorno, e mettendogli una mano sul braccio — due o tre volte, mi son voluta buttare dalla finestra...

— E chi ti ha fermato, chi ti ha fermato? — chiese lui, ansiosamente.

— La paura. Ho venti anni. Ed ero in peccato mortale! E chi si uccide, è chiaro, muore in peccato mortale!

— Ma perchè volevi morire, Gelsomina? — esclamò lui, obliando di chiamarla col suo soprannome.

— Faccio una vita disperata, Mimì — rispose lei, chinando il capo sul petto.

Tacquero, un poco. Come il senso della fatalità passava sulle loro teste, sulle loro vite, egli, infelice, tentò reagire, e rispose:

— Non ti potrei salvare, io, non potrei?

— Tu? — disse lei, con accento singolare.

— Io, sì, io! Dimmi se posso, dimmelo, purchè io non ti sappia... così... purchè io non ti vegga... in questo stato.

— Tu non puoi fare niente — ella rispose, con una tetraggine cupa. — Niente.

— Ma perchè?

— Perchè è troppo tardi.

— Troppo tardi?

— È troppo tardi — ella concluse, aprendo le braccia, con un gesto desolato, non volendo soggiungere altro.

Pure, vi era tanta espressione di rammarico inconsolabile, di un lungo rimpianto antico, senza conforto, tanta evocazione di un passato che era stato dolce e che avrebbe potuto essere felice, che egli, ottuso, sordo e cieco, intese il rimprovero, ma senza approfondirne la essenza disperata. Girò lo sguardo intorno, vagamente, come a raccogliere le sue idee, i suoi sentimenti, i suoi ricordi: ma preso dal suo dolore personale, ancora più veemente, perchè non espresso, non trovò nulla da soggiungere. Ella fece un atto lieve, di disdegno pietoso, con le labbra, innanzi a quella sordità, a quella cecità e riprese, lentamente, parlando in sogno, come un tempo:

— Solo Dio... solo la Madonna... possono fare qualche cosa, per me...

— Ma tu li preghi? Tu preghi, ancora? — chiese lui, con ansia ingenua.

— Ancora: indegnamente. Ho portato dei ceri all’Addolorata di Santa Brigida... ho fatti tanti voti... voglio andare scalza, da Napoli a Valle di Pompei...

— Ebbene?

— Niente — disse lei, con voce desolata.

— Bisogna pregare, sempre: sperare sempre...

— Tante altre, come me, tante altre poverette, hanno pregato, hanno fatto voti... e nulla hanno ottenuto... Certe non pregano più... forse così vuole, Dio, per farci fare il Purgatorio in terra — ella disse, con quello accento di sogno, di lungo sogno interiore e triste.

— Così vuol Dio, forse!

Amen — disse lei, aprendo le braccia e abbassando la testa.

Poi, come avendo accettato questa croce, questa pietra che le ricadeva sul petto, ella mutò discorso:

— E tu, Mimì, tu? Che fai? Hai già un figlio?

— No — egli disse, trasalendo.

— Come? Non hai un figlio? Me lo avevano detto... che avevi avuto un maschio... un bel maschio... che bugiardi! E ti dispiace, di non averne?

— Mi dispiace — rispose lui, sempre a occhi bassi.

— E ad Anna, dispiace?

— No. Le fa piacere, non aver figli.

— Piacere? Piacere? — gridò lei, stupita. Le può far piacere, questo?

— Già.

— Non ha cuore, dunque?

Domenico Maresca non rispose. E, sul volto, gli si vedeva la tortura che subiva per quell’interrogatorio; ma, strano a dirsi, anche il desiderio morboso di non troncarlo.

— Ma ti vuol bene, Anna? Ti vuol bene?

Alla domanda incalzante, egli seguitava a non rispondere. Un’aspra ambascia lo soffocava: ma in quell’ambascia, almeno, egli poteva concentrare tutto quanto aveva sofferto in quel giorno, tutto quanto aveva sofferto in un anno e mezzo. A quella povera ragazza, diventata una creatura perduta, a quel povero essere dalle guance brucianti di rossetto, dall’acconciatura equivoca, che ronzava, sola, in quell’ora tarda, in quel quartiere di piacere, egli sentiva di poter denudare il suo cuore, senza tema di esser deriso, senza tema di esser beffato.

— Anna non ti vuol bene? — chiese ancora, lei, con la insistenza della pietà, della tenerezza.

E, infine, come non lo aveva mai detto a nessuno, come non lo aveva confessato mai apertamente, neppure a sè stesso, come lo aveva detto solo al Signore, nelle sue orazioni, Domenico Maresca, a Gelsomina, che non si chiamava neppure più così, portando, oramai, solo il nome di Fraolella, portando solo il soprannome di una di queste disgraziate donne, a Fraolella, rispose questo:

— No, Anna non mi vuol bene.

Un silenzio tragico regnò fra loro.

— E allora, allora — lo interruppe lei, alzando la voce, come per protestare contro il Destino — allora, è stato inutile che tu la sposassi?

— È stato inutile.

— Sei certo, che non ti vuol bene?

— Come della morte, ne sono certo.

— Oh Dio! — disse lei, celandosi il viso tra le mani.

— Essa mi ha sposato per il danaro — continuò lui che, oramai, era preso dal delirio della confidenza. — Non per altro: per danaro. Ne ho speso tanto, Gelsomina: e non è bastato: e non basta: ce ne vuole sempre: se no, Anna mi disprezza e mi disprezzerà più che mai...

— Gesù, Gesù... — ripeteva lei, sommessamente.

— Non solo non mi ama, ma le sono odioso: lo mostra, lo dice, in ogni atto, in ogni parola. Non posso più accostarmi a lei, senza che mi respinga: non posso volerle dare un bacio, senza che mi faccia uno sgarbo...

— Che ingrata... che ingrata...

— La mia famiglia, i miei parenti, i miei amici, tutti, tutti li disprezza, sputerebbe loro in faccia, se potesse... e, invece, sta sempre con i suoi... non so dove... non so con chi...

— Che dici? Non sai, dove? Non sai, con chi?

— Gelsomina, Gelsomina, — gridò lui, giunto al colmo del parossismo — da oggi, alle quattro, è andata via, e mi ha scritto che sarebbe rientrata tardi, mi ha lasciato solo... disperato...

— Non sai dove è?

— Qui, qua vicino, qua attorno, deve essere in una di queste case della Torretta, da una sua parente, e non so il numero di casa, non so nulla, e sono in giro da due ore, Gelsomina, per trovarla e cammino, cammino come un pazzo, per incontrarla, così, mia moglie, Anna, capisci!

Vedendolo così esaltato, come mai lo aveva visto, Gelsomina lo aveva attirato verso il Viale Elena, ove era meno gente che osservasse, che udisse, lo aveva attirato sotto le acacie in fiore. E, lentamente, gli prese le mani, gli disse con dolcezza:

— Oh povero Mimì, povero Mimì, che hai fatto, che hai fatto!

— Mai, lo avessi fatto, mai! — gridò lui, disperato. — Era meglio morire che far questo!

E i due sventurati, ambedue precipitati in fondo a un abisso, ambedue incapaci di altro che di esalare il proprio dolore in vane parole, si teneano per le mani, come due morenti.

— Almeno... — mormorò lei, lentamente — almeno... ti è fedele?

— Sì — disse lui, sordamente. — Mi è fedele.

— Ne sei sicuro?

— Ne sono sicuro. È così cattiva, così fredda che non ha voluto bene e non vorrà bene, mai, a nessuno. Ah io dovevo morire e non sposarla mai! Dovevo vivere senza amore, io! Non ero destinato all’amore, io! Come mio padre, come il mio povero padre, non era mio destino, voler bene a una donna ed esserne corrisposto...

— Tuo padre, Mimì? Tuo padre?

— Nulla — disse lui, troncando subito tale divagazione, mordendosi le labbra. — Vedi bene, Gelsomina, che non sei la sola, a fare una vita disperata. Io sono solo, come un cane: come un cane che abbia un padrone tiranno, perverso, malvagio, che lo colmi di frustate, a ogni buona azione che fa. Non sei sola, a fare una vita disperata. Almeno, hai un innamorato...

— Già! — disse lei, con un riso cinico.

— L’hai detto tu!

— L’ho detto. È la verità. Sai chi è, il mio innamorato? Non lo sai? È Gaetanino Calabritto, il figlio del sellaio in via Cavallerizza: un bel giovanotto, non lo hai mai visto, ma, se aspetti un poco, lo vedrai! Un bel giovanotto — continuò lei, ansimando, con gli occhi pieni di lacrime — che non ha nè arte nè parte, che prende o ruba danaro, a sua madre, che prende o ruba danaro, a suo padre, che è affiliato alla mala vita, che è stato già in carcere, tre volte, che vi tornerà... e che è il mio innamorato!

— Che orrore! — esclamò lui.

— Ti fa orrore? Pure a me. Ogni giorno, ogni sera, egli viene da me... e io debbo dargli quel che vuole, quello che ho... dieci lire... cinque lire... due lire... quello che ho... capisci!...

— Capisco! Che orrore!

— Anche a me, anche a me fa orrore! Io non ho un soldo, questi abiti che ho addosso, me li ha venduti la mia padrona di casa, e non glieli ho pagati... e non so come fare certi giorni, per mangiare... ed egli vuol sempre quattrini... capisci, capisci?

— Capisco! È orribile! Ma come sei capitata con lui?

— Così! Per non esser sola, come una povera bestia abbandonata, nella sua cuccia, per non esser sola, comprendi, per avere una finzione di amore, una finzione di protezione, una finzione di compagnia... ho messo la mia esistenza in mano di costui... che mi fa ribrezzo, Domenico, te lo giuro, per quella Vergine che non dovrei nominare, tanto le mie labbra sono piene di peccato. Domenico, egli mi fa schifo, e intanto, egli viene, e io gli do quello che ho, così, per debolezza, per viltà... per non esser battuta, la sera e la mattina...

— E non puoi lasciarlo?

— Egli mi ucciderebbe — disse lei, tetramente

··················

Ambedue, tacendo, eran ritornati dal Viale Elena, verso la Torretta: e camminavan un po’ lontani l’uno dall’altro, oppressi, schiacciati, ognuno, dalla propria sventura, più angosciati, ancora, dell’incontro che avevano fatto, l’uno dell’altro, più esterrefatti, ancora, dagli sfoghi terribili che avevan fatto, ognuno, della propria miseria, senza che, malgrado la compassione, malgrado la tenerezza, l’uno potesse consolare l’altro. La gente era meno folta, perchè l’ora si avanzava: un’aria assai più fresca, soffiava, dal mare. Macchinalmente, Gelsomina si gittò sulle spalle, si strinse al collo, il suo scialletto rosso, di un rosso ardente. Un istante, restarono fermi allo sbocco della traversa, sulla Riviera di Chiaia, rimpetto all’incrocio dei trams della Torretta, che giungevano, partivano, ora, meno colmi di persone, con un tinnìo di campanelli più languido. E a un tratto, quasi involontariamente, dalle labbra della poveretta, escì un grido:

— Ecco Anna.

Dirimpetto ai due, ma lontana, Anna Dentale aspettava, in piedi: e malgrado la distanza, si riconosceva, al suo viso bellissimo e calmo, ai suoi grandi occhi che vagavano, placidamente, intorno, in attesa quieta di qualche cosa. Ella era vestita riccamente di nero e delle pagliuzze scintillavano, su lei, qua e là, alla luce elettrica delle grandi lampade; una mantellina ricca le stringeva le spalle e una mano guantata di bianco, ne appariva, fra i merletti, tenendo delle rose bianche, un fascetto di rose, mentre l’altra era abbandonata lungo la persona, stringendo un ventaglio. Anna non era sola. Accanto a lei stava un giovanotto alto e snello, dalla ben formata persona, vestito elegantemente di oscuro, con un cappello di paglia, sul capo: un giovanotto dal viso fresco e grazioso, sul cui pallore fine si arcuavano dei sottili baffetti biondi, brillavano gli occhi oscuri e scintillanti, la cui bocca era sfiorata da un sorriso di compiacenza e di sarcasmo. Ogni tanto, questo giovine, che si teneva accanto ad Anna, si chinava verso lei, e le diceva una parola, con un sorriso anche più espressivo, mentre ella gli levava gli occhi, in viso, gli sorrideva, tenuemente, gli rispondeva a fior di labbro. E i due, Anna Maresca e Mariano Dentale, soli, a quell’ora avanzata, a cui la serata di metà settembre, dava una poesia anche più intensa, colpiti vivamente dalla luce elettrica, sul loro lato, non vedevano chi passava loro accanto, non scorgevano chi li guardava, dall’altro lato della via.

Al grido di Gelsomina, che indicava Anna, Domenico Maresca, aveva avuto un sussulto, aveva cercato, con gli occhi, dapertutto, esclamando:

— Anna... dove... dove...?

— Là — indicò l’altra, con un gesto breve, della mano, con un accento bizzarro.

Tutto vedeva e scorgeva, adesso, il povero Domenico Maresca, stupefatto, inchiodato al suo posto da quella visione. E nell’inaspettata, mortale rivelazione che chiudeva orribilmente il suo calvario di quella giornata, in quella rivelazione che infrangeva, di un colpo solo, tutta la sua ultima sicurezza, come tutti i deboli, come tutti i fiacchi, una paralisi morale lo abbattè, una paralisi fisica gli legò i piedi, le mani, la voce. Non visti, Gelsomina e Domenico scorsero, dall’altra parte della lunga via, Anna e Mariano scambiare qualche parola, ancora, fra loro, poi avanzarsi, un poco, in linea retta, verso loro: e Gelsomina udì il pittore dei santi, spaventato, dire con voce sorda, come se morisse:

— Oh Dio... oh Dio!...

Ma, fra i quattro personaggi, un tram che veniva da Posillipo si fermò, s’interpose. Nell’istante della fermata, dall’altro lato, Anna e Mariano, leggermente, disinvoltamente, vi salirono, si sedettero, uno accanto all’altro, tranquilli e sorridenti, con l’aria soddisfatta di chi completa bene la propria giornata. E, davanti a Gelsomina e a Domenico, il tram filò, nettamente, fuggendo, sparendo, verso l’alto della Riviera di Chiaia. Solo allora, vincendo il suo profondo stupore, Domenico Maresca, con un ruggito forte, tentò slanciarsi:

— Dove vai?, dove vai? — lo trattenne, Gelsomina, afferrandolo pel braccio.

— Lasciami!... lasciami!... — smaniò lui.

— Sono lontani... — mormorò lei — non li raggiungi più. Erano lì... ora sono lontani.

— Dove andranno? Dove vanno? — chiese lui, puerilmente, con un singhiozzo nella voce.

Ella ebbe una lieve stretta di spalle, innanzi a quella domanda imbelle.

— Eh! chi lo sa! A casa tua... forse...

— Credi? Credi che Anna rientri a casa? — balbettò lui.

— Credo.

— La troverò, tu dici?

— Eh! sì, sì, la troverai! — s’impazientì lei, dinanzi ad una viltà così profonda.

— E se non vi è? Se non vi è?

Gelsomina non rispose. Distratta, occhieggiava a diritta e a sinistra della Riviera di Chiaia, come se dovesse scorgervi qualche cosa di strano, ma di cui fosse in attesa, in agitata attesa.

— Se non la trovo, Gelsomina, se non la trovo, che ne sarà, di me? — gemette l’infelicissimo.

Ella non l’ascoltava più, vinta, adesso, dalla imminenza di qualche cosa che temeva e che, senz’altro, doveva accadere. E come un fanciullo debole e malato, Domenico Maresca gemette, ancora:

— Gelsomina, se non la trovo, io ti vengo a cercare! Dimmi dove stai, io ti vengo a cercare, se non la trovo...

— A far che? — disse lei, con una voce ove fischiava l’ironia.

— A piangere con te... a piangere... Gelsomina, se non la trovo! Dimmi, dove stai?

— No — disse lei, brevemente.

— Ma perchè? Perchè? Neppure tu! Neppure tu!

— Non posso — ella soggiunse.

— E perchè, non puoi? Perchè? Se non la trovo, che ne sarà di me?

— Guarda — ella disse, con un cenno.

Verso loro due si avanzava un uomo, un giovane. Portava un vestito grigio chiaro, attillatissimo, un cappelletto nero sull’orecchio, le mani in tasca, un bastoncino che usciva da una delle tasche: le sue scarpe scricchiolavano: e tutta la sua persona di una volgare beltà, aveva un’andatura provocante, la sua faccia bella e triviale, un’aria provocante. Di lontano, scorse Gelsomina che parlava con Domenico, si fermò. Egli attese, così, un minuto. Poi un fischio leggiero e lungo gli escì dalle labbra.

— Eccomi — disse, come fra sè, Fraolella. — Qui sta il cane.

E senza voltarsi, senza guardare, soggiunse, al pittore dei santi:

— Addio, Domenico.

Il pittore dei santi la vide allontanarsi, rapidamente, fermarsi col giovanotto, parlargli, a lungo. Costui, silenzioso, con un mozzicone spento all’angolo della bocca, l’ascoltava, con le sovracciglia aggrottate, l’occhio torbido. Precipitosamente, con grandi gesti, Fraolella continuava a dare spiegazioni, mentre l’altro, sempre più arcigno, crollava il capo. E si allontanarono, ambedue, nella notte: l’uomo, innanzi, col suo passo elastico, con lo scricchiolìo dei suoi stivalini, con il suo aspetto spavaldo: la donna, più indietro, con passo stanco, con le spalle curve, a capo chino, come un povero cane.


Sdraiata in una poltroncina del suo salotto, Anna leggeva un libro, quietamente. Aveva indossata una vestaglia bianca, le sue belle mani escivano dalle maniche larghe. Quando Domenico rientrò in casa, era mezzanotte. E, stravolto, si fermò sulla soglia; un profondo sospiro gli sollevò il petto. Ella appena levò gli occhi, dalla lettura:

— Sei qui, Anna, sei qui! — balbettò lui.

— Dove dovrei essere? — chiese ella, freddamente. — Ti aspetto da tre quarti d’ora. È tardi.

— Ero venuto... ero venuto, a cercarti...

— Ti avevo detto di non farlo — replicò lei, con un lieve aggrottamento di sopracciglia.

— Io ti ho cercata... laggiù... tutta la serata.

— Hai fatto male — ella conchiuse, rimettendosi a leggere, senza dargli più retta.

E Domenico, a un tratto, esplose la sua angoscia, tutta la sua angoscia:

— Ti ho incontrata, Anna, ti ho vista! Non eri sola! Ho visto con chi eri!

— Ebbene? — chiese lei, glacialmente, posando il libro sulle ginocchia.

— Eri con Mariano Dentale, con Mariano!

— E poi? — chiese, ancora, Anna, fissando suo marito negli occhi, con tale una collera gelida che egli allibì.

— Con Mariano... con Mariano... — gridò Domenico, pianse Domenico, torcendosi le mani.

Anna si alzò, chiuse il libro, lo posò sul tavolo, si avviò verso la stanza da letto, piena di un’ira muta, superbissima di sdegno taciturno.

— Con Mariano... con Mariano, Anna! — piangeva lui, nella idea fissa.

— Se dici un’altra parola, Domenico, — pronunciò lei, nettamente, dalla soglia — prendo il cappello e me ne vado.

Ed egli tacque.

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