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15 Maggio.
Ti scrivo dal letto. Sono assai malata. Se tu mi vedessi, cara Marianna, come la febbre ha divorato le mie carni! Allorchè guardo le mie povere mani pallide e tremanti mi pare di vedere il sangue circolare nelle vene, tanto sono scarne. Ho un ardore, un bruciore qui, nel petto!...
Oggi mi sento alquanto meglio ed ho la forza di scriverti. Vorrei ciarlare con te e pensare a quei bei giorni ch’erano pieni di vita e di allegria; ma tutto quello che mi circonda è sì triste, che il mio cuore non ha forza di sorridere neanche chiudendo gli occhi e sognando il passato. Ho sofferto assai, ma il Signore non mi ha abbandonato. Mi hanno trasportata all’infermeria, e questo è stato un gran dolore. Almeno nella mia celletta ci avevo tante memorie che sebbene dolorose tuttavia mi erano care; ma qui mi sembra che tutto sia lugubre, che ogni inferma vi abbia lasciato lo spettro delle sue sofferenze. Chi sa quante monache son morte qui?... forse in questo stesso mio letto!... E quando, nelle lunghe notti insonni in cui la febbre più mi travaglia, io faccio coteste riflessioni, provo un ribrezzo invincibile, e veggo i fantasmi avvolti nel velo nero strisciare lievemente sulle pareti facendo vacillare il debole lume della lampada dal corridoio.... ed ho paura, e nascondo il capo sotto i lenzuoli. Piango da mane a sera ricordandomi di quel caro stanzino di Monte Ilice, le cui pareti mi conoscevano e mi sorridevano, accanto ai miei parenti, con quel bel sole, quell’aria, quei volti amati.... E quando il mio cuore ha maggior bisogno di affetto e di conforto, non si vede attorno che i visi delle infermiere, rese impassibili dall’abitudine di veder soffrire. Anche il raggio che attraversa la finestra è pallido, scolorito, malaticcio. La primavera è passata ridendo sulla terra senza mandare un solo dei suoi colori festosi su quest’angolo derelitto di pene e di miserie.
Ieri una farfalletta tutta bianca venne svolazzando a posarsi fin sui vetri della finestra. Tu, benedetta dal Signore, che vedi il sole, che respiri l’aria libera a pieni polmoni, non puoi farti un’idea di quel senso di tenerezza che può recare la vista di una farfalla, il profumo di un fiore, all’anima di un’inferma! Mi pareva che tutto il lieto corteggio della primavera, il venticello profumato, il verde dei prati, il canto mattutino dell’allodola aleggiasse intorno a quella farfalletta, e fosse venuto ad allegrare il doloroso asilo di tante derelitte. Ahimè! la farfalla dopo di essersi fermata un istante su quel triste fiorellino che spunta dal crepaccio del davanzale, si staccò agitando le sue alucce e si perdette nell’azzurro del cielo... era libera, allegra, e avea forse visto tutti quei visi pallidi e tutte quelle lagrime!
Fra due o tre giorni spero levarmi un’ora o due. Farò forza a me stessa, purchè mi permettano di ritornare alla mia celletta... purchè mi tolgano da questo luogo...
Chi sa quando potrò rivederti? Mi sento talmente sfinita di forze che mi sembra non debba mai più alzarmi da questo letto.
Ti ho scritto in due o tre riprese, e tuttavia non potresti immaginare quanta fatica mi abbia costato lo scriverti.... Pure è stato un gran conforto per me... il solo conforto che mi sia rimasto. Non vorrei mai lasciare il chiacchierare con te, perchè intanto non penso che soffro, che son qui... e tante altre brutte cose. Ma adesso non ne posso più. Ti ho scritto una lunga lettera, non è vero? molto lunga per una povera malata quale io sono. Ti costerà un po’ di fatica il decifrare la scrittura, perchè la mano è malferma; ma tu che mi ami indovinerai quello che ho scritto... e quello che non ho scritto.
Bisogna ringraziare Iddio anche di questa malattia. Sono come istupidita. Mi pare di sognare, e ancora non saprei render conto a me stessa di quello che son diventata.... Quando mi sveglierò, il buon Dio mi darà la forza.... Addio....