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24 Giugno.
Dio sia benedetto! ho veduto alfine il mio babbo! Tu sai quanto abbia dovuto pregare il medico e l’abbadessa perchè mi fosse concessa codesta grazia. Ieri finalmente il buon dottore mi permise di uscire dall’infermeria.
Il tempo era bello; sentivo il mio povero petto tanto malato dilatarsi nel respirare l’aria vivificante del mattino; Filomena mi dava il braccio. Attraversai il giardino ove c’era un bel sole e dei fiori... avevo avuto tanto freddo in quei tristi cameroni quasi bui! Le fogliuzze stormivano appena perchè la brezza non può spirare in questo recinto chiuso da mura così alte, la sabbia dei viali scricchiolava sotto i passi, due o tre farfallette svolazzavano di fiore in fiore.... Era ben poco, è vero, ma tu non sai quanto valga questo pochissimo per una povera reclusa! Lassù in alto, ad una finestra del dormitorio, un canarino cantava dolcemente... è vero ch’è chiuso in gabbia, poverino! e se si potesse intenderlo si saprebbe che invece egli piange... ma pure tutti questi nulla ineffabili, che per molti passeranno certamente inosservati, formano tesori di dolcezze per chi non ha altro che gli rammenti i campi, i boschi, la vita... e fanno sorridere il cuore, se non la mente.
Chiudendo gli occhi in quest’angolo di terra recinto dalla clausura si potrebbe dimenticare di essere in convento ed immaginarsi di essere circondati di liete campagne, di luce, di aria.... e di esser liberi. Ma poi si vedono muri così alti, e finestre tutte chiuse da gelosie.... e il cuore si stringe involontariamente.
Vedi come son fatta!... Pensare che avrebbe potuto bastarmi quest’angolo di terra, uno spicchio di cielo, un vaso di fiori, per godere tutte le felicità del mondo, se non avessi provato la libertà e se non mi sentissi in cuore la febbre roditrice di tutte le gioie che son fuori di queste mura!... e pensare che se ricadrò malata, se mi chiuderanno di nuovo in quell’infermeria, sarò privata anche di questo giardinetto, di questi fiorellini, di questo sole che non viene a visitare i poveri infermi, perchè anche il suo raggio diverrebbe triste....
Oh! Marianna! quello che provai allorchè scórsi il mio babbo adorato che mi aspettava in parlatorio! quello che provai allorchè appoggiai le mie mani tremanti a quella grata!... non saprei dirti, ma come mi vide così pallida e così disfatta, non potè frenare le lagrime; Gigi piangeva anche lui, ed anche Giuditta, ed io che ho il cuore infermo, che sono così debole, che mi struggo in lagrime per un nulla, ruppi in singhiozzi che mi alleggerivano il seno. Avrei voluto buttarmi fra le sue braccia, e quella grata dura e fredda stava lì, fra di noi, fra il padre e la figlia che si rivedevano dopo essere stati sul punto di non vedersi mai più.... Non ho mai compreso prima d’allora tutto quello che ci è di odioso nella clausura.
Quando ci fummo sfogati in lagrime, mio padre mi domandò le più minute informazioni della mia malattia. Tentava di sorridere, di confortarmi, e di tratto in tratto i singhiozzi gli strozzavano la parola, e le lagrime cadevano sulla sua barba grigia senza che egli se ne avvedesse.... Come si stringeva il mio cuore!... eppure avrebbe dovuto essere una festa quella!... non è vero? Giuditta era lì, così pallida! piangeva anch’essa; la guardavo, la guardavo come se trovassi in lei qualche cosa di nuovo, d’indefinibile. Avrei voluto singhiozzare o piangere a voce alta fra le sue braccia, e sentivo che l’affetto di lei mi faceva male al cuore, la guardavo, e gli occhi mi si riempivano di lagrime, e attraverso le lagrime la tentazione mi faceva scorgere accanto alla sua testa un altro viso pallido pallido....
Oh! Marianna! è la debolezza che mi viene dalla lunga malattia; sono allucinazioni prodotta dal demonio.... Dio mio! aiutatemi!
E poi fra me e le persone che mi sono più care, in quei momenti ineffabili che dovrebbero essere sacri, c’era la monaca che mi accompagnava, estranea ed indifferente a quella gioia, a quel dolore, a quelle lagrime.... Non ti pare che le lagrime abbiano anch’esse il loro pudore?... C’era anche mia matrigna che ci proibiva il dolce sfogo del pianto sotto pretesto che mi facesse male. Fra tutte queste cose fredde, dure, ingrate, le sbarre dell’inferriata erano le meno repulsive.
Come scorsero in un lampo le due ore che mi fu concesso rimanere al parlatorio! Finalmente tutte quelle care persone che son parte di me dovettero lasciarmi. Le accompagnai cogli occhi fino alla porta; ma allorchè furono per oltrepassare la soglia, il cuore non mi resse, mi parve di smarrire il senno; chiamai il babbo ad alta voce, quasi fuori di me, come se non dovessi rivederlo mai più; cercavo un pretesto per trattenerlo ancora pochi minuti e non seppi dir nulla, e scoppiai in lagrime. Piangevano tutti e nessuno poteva trovare una sola parola. Il babbo mi promise che sarebbe ritornato il giorno dopo. Questa volta partì davvero, e il rumore della porta che si chiudeva me lo sentii ripercuotere nel cuore; stringevo la grata di ferro con mano convulsa e fissavo ancora gli occhi su quella porta chiusa.... Che momenti son quelli, Dio mio! Le monache mi aiutarono a risalire nella mia cella, e quando fui sola, senza testimoni, allora soltanto potei mettermi ginocchioni e sfogarmi in singhiozzi.
Ora son più tranquilla. Ho ringraziato il Signore di avermi fatto rivedere il babbo; gli ho chiesto perdono di questo mio soffrire che è una colpa, perchè avevo già accettato cotesta vita di privazioni e di dolori, avevo fatto voto di dedicarmi a Lui intieramente.... e il mondo mi avvince ancora coi suoi legami più tenaci.
Dio misericordioso! ci ho colpa io se non ho la forza di rompere cotesti legami?
Marianna mia, non verrai uno di questi giorni a visitare la povera inferma? Vieni, vieni. Ho tanto bisogno di vederti!