< Suor Giovanna della Croce
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A Paolo Bourget II

I.

Uomini poi, a mal più ch’a bene usi,
     Fuor mi rapiron della dolce chiostra
     Dio lo si sa, qual poi mia vita fusi.
     . . . . . . . . . . . . . . . . .
Ciò che io dico di me, di sè intende.
     Sorella fu e così le fu tolta
     Di capo l’ombra delle sacre bende.

Ma poi che pur al mondo fu rivolta,
     Contra suo grado e contra buona usanza,
     Non fu dal vel del cor giammai disciolta.

Paradiso, Canto III.



Scoccarono le cinque. La pesante porta del coro, di antico oscuro legno scolpito, si schiuse, stridendo, si spalancò, sospinta dalle magre e lunghe mani di suor Gertrude delle Cinque Piaghe: anche l’altro battente fu aperto e respinto lentamente contro il muro, dalla monaca. Ella attraversò a passo rapido tutto il coro, avendo nascosto, con un moto familiare, le mani nelle ampie maniche di lana nera della sua tunica, e si andò ad inginocchiar dietro la fitta grata metallica del coro. Dall’alto, da un’altezza grande, ella gittò uno sguardo quasi inquieto nella chiesa di suor Orsola Benincasa, che si allargava e si allungava, giù, giù, in una penombra di tempio dalle finestre velate, dove il crepuscolo quasi pare notte. Non vi era nessuno, in chiesa. Quel coro così alto, posto a livello della seconda fila dei finestroni della chiesa, chiuso nei suoi tre lati da una parete di ottone, singolarmente lavorata a traforo, nulla lasciava vedere, di più, ai fedeli che volessero scorgere, per curiosità, anche l’ombra di una delle Trentatre; mentre le istesse suore che portavano con umiltà ed obbedienza profonda, ma anche con orgoglio mistico, il secondo nome di Sepolte Vive, appena appena, di sopra, poteano scorgere delle figure umane entrare, sedersi, inginocchiarsi, orare, laggiù, laggiù, innanzi all’altare maggiore e nelle due larghe navate laterali, che fiancheggiavano la principale. Suor Gertrude restò con la fronte appoggiata alla grata, con gli occhi socchiusi, un po’ curva l’alta e scarna persona: sulla fronte cinta dalla benda di tela bianca, sul petto coperto dal colletto bianco, sulla tunica nera, ricadeva, innanzi, il grande velo nero, mentre indietro, come era prescritto, ricadeva il mantello di lana nera. Ella pregava mentalmente: a un certo momento, un sospiro le sollevò il petto. Al suo sospiro un altro ne rispose, poichè, accanto a lei, senza far rumore, era venuta a prostrarsi, dietro la grata, un’altra delle Trentatre: suor Clemenza delle Spine, una monaca piccola, minuta, sotto la tunica nera, sotto il velo nero, il mantello nero, e la benda bianca. Pian piano, a passi silenziosi, altre suore erano apparse nel coro, erano venute a inginocchiarsi intorno intorno alla grata, con larghi segni di croce, sotto il loro velo nero: adesso, se ne contavano quattordici, in giro. Nessuna parola era stata scambiata fra loro: solo, ogni tanto, fra una preghiera e un’altra, un sospiro dolente si udiva uscire, di sotto qualche velo, a cui qualche altro sospiro, subito, faceva eco. Poi, sulla porta del coro, una monaca apparve, sorretta da un’altra: doveva essere di grande età, curva assai, quasi piegata in due, lentissima, sostenuta nei suoi passi piccoli e stanchi da una suora più giovane, più forte, che la guidava attentamente, misurando il suo passo su quello della vecchissima che a lei si appoggiava. La monaca vecchissima anche era vestita della tunica nera, della benda bianca che le stringeva la fronte, coperta dal mantello nero sino all’orlo della veste, velata fino ai piedi dal velo nero: ma sul petto, sul goletto bianco, sospesa a un largo nastro di seta nera, una croce di argento pendeva; sulla mano scarna, ossea, dalla pelle giallastra che si raggrinzava, appoggiandosi al braccio della suora giovane, nell’anulare, era una fascia di argento, un anello su cui stava scritto: badessa.

La badessa non andò ad inginocchiarsi alla grata del coro; si arrestò, un po’ indietro dalle sue monache, e tutta tremante, tutta vacillante, si prostrò sovra un inginocchiatoio di legno, adorno di un cuscino di velluto rosso cupo. La monaca che l’aveva condotta sin là, si arretrò, rispettosamente, sino alla porta del coro: altre due monache la raggiunsero, restando sulla soglia, senza entrare. Non portavano, queste tre, nè il mantello, nè il mantello, il velo nero. Sulla benda bianca avevano un cappuccio di lana nera, ad ampie falde. Erano tre converse, non avevano ancora pronunciati i rigorosissimi voti claustrali delle Trentatre, delle Sepolte Vive: ancora tenevano il viso scoperto e il loro corpo serrato nella tunica, senza il gran mantello.

Le preghiere di compieta che le quattordici monache e la loro badessa proferivano, in quell’ora, duravano a lungo: annottava, quando furon finite. Una delle converse aveva accesa una lampada in mezzo al coro e alcuni candelieri sulle mensole, lungo gli stalli di antico legno oscuro, scolpito e intagliato; le ombre si erano diradate. Col loro cauto passo, le quattordici monache erano andate a prender posto, ognuna, in uno stallo del coro: alcune più lente per l’età, forse, o per la corpulenza: altre più rapide, forse per temperamento ancor vivace, negli anni di vecchiaia: alcune, come assorte in una lor cura che ne rallentasse l’andatura. Ma i grandi mantelli neri, infine, chiudevano i corpi e non lasciavano scorgere che a stento le linee della persona: ma i grandi veli, infine, covrivano il volto, fittamente, e nulla lasciavano indovinare di quelle fisonomie di claustrate. Ognuna, passando, si era inchinata a baciar la mano e l’anello abbaziale della badessa: una di esse, suor Giovanna della Croce, appoggiò un istante la fronte sulla mano rugosa della badessa e forse vi lasciò una lacrima. Poi raggiunse, anch’essa, a passo incerto, il suo stallo di legno bruno, dove s’immerse nell’ombra, aspettando.

Ora, l’antichissima suora badessa, alzatasi dall’inginocchiatoio, si era messa a sedere, in mezzo al coro, sovra un alto seggiolone di legno nero. Muta, assorta di dietro il suo velo nero, ella sogguardava a diritta e a sinistra, i trentatre stalli del coro. Un tempo, ella li aveva visti, in onore di Gesù e della sua Passione, occupati tutti da trentatre suore, tante quanti furono gli anni del Signore: e il terribile Ordine delle Sepolte Vive, terribile per la sua claustrazione totale, assoluta, mai frangibile, s’insuperbiva di essere al completo. Oh, i tempi erano trascorsi, suor Teresa di Gesù, la badessa, colei che aveva assunto il nome della Grande Mantellata di Avila, la badessa era così vecchia, e i tempi erano trascorsi, trascorsi! Delle Trentatre, man mano, la morte aveva diminuito il numero, e nessuna nuova creatura muliebre era venuta a offrirsi, per pronunziare il tremendo giuramento: persino le converse, che dovevano essere, per la regola, sette, quanti sono i dolori di Maria Vergine, eran sempre tre o quattro, nessuna di esse resistendo più a quella vita, domandando di andarsene, prima di pronunziare i voti. Quanti anni erano trascorsi sacri da che suor Teresa di Gesù si era monacata? Sessantacinque, forse, ella non ricordava bene: neppur ricordava bene da quando era badessa: forse da quaranta anni. Ora ne aveva ottantacinque: e aveva visto sparire, ad una ad una, prima seppellite nel piccolo cimitero di suor Orsola, la fondatrice dell’Ordine, poi portate via, diciotto delle sue monache. Ella guardava le superstiti, le contava, macchinalmente: vedeva bene, questo sì, che erano solo quattordici, oramai: e tutte vecchie, ma meno vecchie di lei. Un pensiero le passò nella mente, ne fece fremere i vecchi nervi stanchi: e un profondo sospiro uscì dalle labbra della badessa delle Trentatre, suor Teresa di Gesù.

E dagli stalli, da quelle nicchie nere dove le ombre nere delle suore si sprofondavano nell’ombra, altri sospiri profondi, tristi, straziati, risposero alla badessa:

— Che il Signore ci assista, — ella pronunziò, con voce alta, ma tremula.

— Così sia, così sia, così sia, — dissero delle voci, dagli stalli, voci più alte, più basse, fioche, roche, chiare.

Un silenzio susseguì. Preceduto da una conversa, che gli faceva strada, un prete entrò nel coro. Vi fu un rapidissimo movimento tra le monache, come di sgomento, come di pudore offeso: tutte, egualmente, si serrarono nel mantello nero, si strinsero il velo nero al viso. Il prete era vecchio, anche lui, ma con una fisonomia rosea, bonaria, dagli occhi pieni di una luce sfavillante di tenerezza: i suoi capelli erano tutti bianchi, candidissimi. La badessa aveva tentato di levarsi, quando l’aveva visto entrare, per andargli incontro; ma egli le aveva fatto cenno di non muoversi. Don Ferdinando de Angelis era, da più di venti anni, il confessore delle Trentatre. Ma era la seconda volta, solo, che metteva il piede oltre la clausura, nel monastero, per ordine del cardinale arcivescovo: nè il suo volto, sempre lieto, indicava buone novelle.

— Dunque, caro padre, quali notizie ci portate? — chiese suor Teresa di Gesù, con tono trepidante, al confessore.

Egli non rispose subito. Sentiva che, dai quattordici stalli occupati, le monache lo fissavano, con gli occhi ardenti, pendendo dalle sue labbra. Non aveva buone notizie. Curvò il capo, tacendo.

— Non vi è più nessuna speranza, è vero? — chiese la vecchissima badessa, levandosi, come mossa da una forza interiore.

Il prete crollò il capo, tacendo ancora. Alcune monache si erano alzate, anche esse, ed erano venute un passo innanzi, ansiosissime.

— Nessuna speranza, padre, nessuna? — gridò suor Teresa di Gesù, con una voce alta, che non aveva avuta mai, da anni.

— Offriamo a Dio questa tribolazione, — mormorò il prete, sempre a capo chino.

Ma il nome del Signore, pronunziato in quel momento, non giunse a frenare lo scoppio dei singulti di quelle monache. Quelle, in piedi, erano ricadute sui loro stalli, in preda ai singhiozzi; altre si erano gittate, a capo basso, sui bracciuoli degli stalli, soffocando la loro voce contro il duro legno. Con gemiti più forti, più bassi, piangevano tutte; dietro il suo velo fitto, la testa di suor Teresa di Gesù, la badessa, aveva un movimento convulsivo, quello del pianto. Il prete, ritto, in mezzo a quel coro, dove la luce vacillante della lampada e dei candelieri gittava degli sprazzi stranissimi, aveva l’aspetto angosciato, come per uno spasimo invincibile, che ne contraesse la buona anima di vecchio sacerdote.

— Piangiamo, piangiamo, — egli soggiunse, pianamente. — È un dolore grande; piangete, ma sopportatelo da buone cristiane.

La badessa era discesa, da sè, dal suo seggiolone, per accostarsi a don Ferdinando de Angelis. Allora, tutte le monache erano uscite dai loro stalli, l’avevano circondata, piangendo, dietro i loro veli, prendendole le mani, baciandogliele:

— O madre cara, madre cara.... o madre nostra.... come faremo.... come faremo.... madre nostra, diteci voi, che faremo.... che faremo? — esse andavano dicendo confusamente, con certe voci dove il dolore assumeva ora dei toni puerili, ora dei toni tragici.

La povera vecchia badessa, in mezzo alle sue quattordici monache, sembrava, adesso, più curva, più stanca, più disfatta che mai, sull’orlo della tomba. Forse, in quel momento, ella pensò quanto meglio sarebbe stato per lei di esser morta, anzi che vedere l’ora inaspettata e lugubre: ma non lo disse, parendole una empietà.

— Sua Eminenza, — ella mormorò, rivolgendosi al confessore, — non ha potuto fare nulla per noi?

— Tutto ha tentato, Sua Eminenza, — rispose il prete, tristemente. — È andato persino a Roma, apposta....

— Senza riescire a niente?

— A niente, cara madre.

Un lungo, replicato gemito, risvegliò novellamente gli echi di quel coro: sul loro destino implacabile, le monache piangevano e si lamentavano.

— Ma il Papa? Il Papa? — esclamò la vecchia badessa, con accento di profonda riverenza. — Il Papa? Non può intervenire, lui, per noi, sue figlie, sue serve?

— Non ha potuto intervenire. La legge novella è chiara, — disse il povero sacerdote, costretto a diminuire, involontariamente, il prestigio del Capo della Chiesa innanzi alle monache.

— Che legge! Che legge! — esclamò vivamente una monaca, suor Giovanna della Croce. — La nostra legge ci dice di vivere e di morire, qui.

Ella aveva parlato vibratamente. Era una delle più giovani, fra le vecchie, non avendo ancora sessant’anni, conservando diritta e svelta la persona sotto il velo e sotto il mantello. La sua badessa le fece cenno, con la mano, di tacere.

— Il Papa.... il Papa.... — replicò suor Teresa di Gesù, ritornando alla sua idea di salvazione.

— Il Papa è egli stesso in istato di oppressione e di povertà, — rispose don Ferdinando de Angelis, desolatamente.

Un profondo silenzio.

— Dovremo, dunque, andarcene? — chiese, dopo un poco, la vecchia badessa, tristissimamente.

— Sì, purtroppo, cara madre.

— Siamo così vecchie! — ella soggiunse, a voce bassa. — Potevano farci morire qua dentro....

— Morire, morire qui.... — gridarono, fra i singhiozzi, due o tre monache.

— La cosa è stata ritardata, per quanto più si è potuto, — replicò il vecchio sacerdote. — Si è fatto l’impossibile. Ora....

— .... Dobbiamo andare. Io vi sarei rimasta assai poco, ancora, — ripetette la povera vecchia, tornando, come tutte le creature semplici, all’idea semplice.

— Il Signore ha voluto infliggervi questo dolore, cara madre, a voi e a queste buone sorelle: sopportatelo, sopportatelo.

— E che faremo, padre? Dove andremo?

Egli fece un cenno vago, con le mani. In realtà, nulla aveva da offrire, a quelle misere, discacciate dal loro convento.

— Dove, dove andremo? — chiesero, piangendo, quattro o cinque di quelle monache.

— Vedremo.... vedremo, — disse il buon prete, confuso, imbarazzato.

— In un altro convento, padre, forse, in un altro convento? Vi è speranza?

— Non lo sperate. Il Governo non lo permetterebbe, — egli disse, recisamente, per predisporle alla catastrofe.

— E dove andremo? Dove andremo?

— Alle vostre case, nelle vostre famiglie.... — egli mormorò, comprendendo, man mano, tutto l’orrore di quella cacciata.

— La nostra casa, la nostra famiglia era qui, era qui! — disse, dolorosamente, suor Giovanna della Croce.

La badessa, ancora, le fece cenno di tacere.

Di nuovo, a queste parole che esprimevano tutta la umile tragedia del loro cuore trangosciato, risuonarono i clamori delle monache. Esse si erano separate dal mondo, trenta, quaranta, cinquant’anni prima, per sempre: esse avevano giurato povertà, castità, obbedienza e perpetua clausura a Dio: lo avevano giurato e avevano tenuto, sin quasi alla morte, il loro giuramento. Ora, lo infrangevano.

— Noi saremo in peccato mortale, — disse, terrorizzata, la badessa.

— Dio è buono, madre.

— Chi infrange i voti, è in peccato mortale....

— Dio ha tanto perdonato, madre mia!

— Sì, ma noi saremo in peccato mortale.

— Ne parlerò a Sua Eminenza.... egli vi manderà, presto, una parola consolatrice. È troppo afflitto per venire. Verrò io.... domani sera.... — mormorò egli, nella pochezza del suo spirito e nella bontà del suo cuore.

Ancora, silenzio. Poi, di nuovo, suor Teresa di Gesù, parlò, lentamente.

— Voi dite.... domani sera? Dobbiamo, dunque, andarcene subito?

Il povero prete non rispose immediatamente. Malgrado la sua limitata intelligenza, egli comprendeva che era quello l’ultimo colpo. Poi, si decise.

— Dopodomani, lunedì.

Quando la povera vecchia badessa udì che solo due giorni dividevano lei e le sue monache, da quella cacciata crudele, che violava la loro anima e gittava i loro corpi all’abbandono e alla miseria, le forze che fin allora l’avevano sorretta, le mancarono. Vacillò e cadde fra le braccia delle sue sorelle che la raccolsero, lacrimando, cercando di rianimarla. Mentre la conducevano via, circondata, seguita dalle suore, lentissimamente, don Ferdinando de Angelis salutò e benedisse quel gruppo plorante. Andavano, ora, nel lungo chiostro che rasentava il giardino, andavano, le Sepolte Vive, sostenendo la loro antichissima badessa, quasi morente di dolore, esse stesse riboccanti di amarezza: e i pianti si erano quetati. Ma i passi erano più molli, più stracchi, trascinati a forza: ma sotto le tuniche nere che sfioravano la terra, sotto i mantelli neri che le avvolgevano, sotto i veli neri che celavano il loro viso, esse, d’un tratto, sembravano assai più caduche, più vecchie, più prossime alla morte. Alcune si appoggiavano alla muraglia bianca del chiostro, come se svenissero: altre voltavano la testa verso il giardino, guardando dov’erano le tombe delle loro sorelle, morte in convento e colà sepolte, guardavano fissamente, verso le tombe.

*

La cella di suor Giovanna della Croce era fiocamente illuminata da un lumino da notte, nuotante nell’olio di un bicchiere: il tutto formava una lampadina, innanzi a un crocefisso, lampadina che restava accesa, giorno e notte, per speciale divozione alla Croce e al Divino che vi era confitto. La regola impediva alle Trentatre di tenere lume acceso, quando andavano a letto, o nella notte: strettamente, si sarebbero dovute spogliare all’oscuro e vestirsi, alla mattina, nelle ombre crepuscolari dell’alba. Ma era concesso loro di far ardere qualche modestissima lampada, in omaggio alle immagini che più veneravano: suor Giovanna non avrebbe potuto dormire, senza quella piccola luce che rischiarava il Crocefisso. Talvolta, nella notte, il lumino si consumava, l’olio galleggiante sull’acqua finiva, la lampadina si spegneva: la suora si svegliava subito, in preda ad ansietà. Nella celletta, con le pareti coverte d’immagini sacre, di quadri e quadretti, di cerei pasquali, di rami d’ulivo benedetto, non vi era se non un letto, una sedia e un piccolo cassettone. Le pareti erano rozzamente imbiancate a calce: sul pavimento i freddi e polverosi mattoni rossi delle più povere case napoletane: lo stesso letto era composto di due trespoli di ferro: un solo materasso e un solo cuscino. Di fronte al letto un balcone: la celletta occupava un angolo orientale del monastero di suor Orsola, al secondo piano, e l’occhio vi avrebbe potuto scorgere il magnifico panorama di Napoli e del suo golfo, se un’alta e fitta gelosia di legno non ne avesse impedito la vista, mentre permetteva all’aria di entrare. Nei primi tempi della sua monacazione, quella gelosia attirava costantemente la persona di suor Giovanna: ella non poteva resistere al desiderio di guardare, ancora, di lontano, di lassù, lo spettacolo delle cose. Anzi, si era confessata di quest’abitudine profana, come di un peccato: ed era un peccato, poichè quelle contemplazioni la riconducevano alla sua vita del mondo, amaramente. A poco a poco, con gli anni che passavano, con la giovinezza che finiva, con le memorie che si cancellavano, ella aveva vinta la tentazione. Ora, da anni, nè la sua persona, nè i suoi occhi erano attratti dalla gelosia: ella aveva dimenticato che da quel balcone, alto come una torre, sul giardino del convento e sul Corso Vittorio Emanuele, aveva dimenticato che da quel balcone si scorgeva il mondo.

Neppure nella triste sera in cui don Ferdinando de Angelis aveva data la notizia orribile, rientrando nella sua celletta per riposare, suor Giovanna della Croce si era accorta, più, che vi fosse un balcone. La notte era lunare: passando pei lunghi chiostri, nel movimento del ritorno alle celle, ella aveva visto il cielo chiarissimo, e le estreme mura del convento fatte anche più bianche. Ora, chiusa la piccola porta della sua cella, senza mettere il catenaccetto, perchè la regola lo proibiva, suor Giovanna era caduta inginocchioni, innanzi alla sua sedia, col moto abituale di ogni sera, tendendo le braccia al Crocefisso. Ma se le sue labbra mormoravano le rituali parole dell’orazione, l’anima sola si concentrò nella preghiera, restando confusa, turbata, agitatissima.

Da molti anni, suor Giovanna aveva obbliata ogni cosa della sua vita anteriore alla monacazione. Prima dolorosa, angusta, opprimente, insopportabile a un temperamento passionale come il suo, la vita delle Trentatre aveva finito per domare quell’anima ribelle, quel cuore impetuoso, quel sangue troppo caldo. Suor Giovanna della Croce aveva molto patito, dei suoi voti: aveva pianto di rabbia, di noia, di tristezza, di languore, per molto tempo: ma le supreme consolazioni, lente, tranquille, costanti, erano discese su lei, con il regime mistico, morale e fisico di una esistenza claustrata, con quelle consuetudini umili, semplici, candide, quasi puerili, delle giornate monacali, con quel rimpiccolimento della esistenza materiale, quella continua elevazione spirituale nelle orazioni, con quelle formule sempre ripetute del rito che spezzano le volontà, suadono le volontà spezzate e stringono l’esistenza in un anello. La regola delle Trentatre, così austera, così dura, così assoluta, le era divenuta dolce, ella ne seguiva tutti gli ordini, con cuore obbediente e persino tenero.

Suor Giovanna era stata, nel mondo, una creatura d’impulso, facile all’entusiasmo, alle lacrime, al furore: nel chiostro, tutto questo ardore si era temperato, equilibrato, si era messo fedele e umile al servizio di Dio. Le era dolce, questa regola, per cui, con gli anni, tutto il passato si era cancellato dalla sua memoria. Chi era più, lei? Non una donna, non una creatura muliebre: era una monaca, una sepolta viva. Come mai si era chiamata, nel mondo? Non lo ricordava. Sapeva solo il suo nome del chiostro: il nome preso in omaggio al suo Signore e al suo dolore, il nome di suor Giovanna della Croce. La pace, l’obblio, un’altra vita, quello che essa aveva chiesto al Cielo, dandogli la sua gioventù, la sua bellezza, il suo ardente desiderio di amore, di gioia, di felicità, le era stato accordato. Aveva la pace e aveva l’obblio: viveva un’altra vita.

Non poteva, in quella sera, pregare, la Sepolta Viva! Fra le incertezze mortali del suo spirito, deviato dal suo corso naturale di pensieri e di sentimenti, sentendosi strappata, crudelmente, alla pace, all’obblio, alla sua seconda vita, brani di esistenza le riapparivano innanzi alla mente, da anni ed anni mai più evocati, nelle ore di solitudine, da anni ed anni mai più semplicemente rammentati. Si nascondeva il viso fra le mani, la suora, quasi per difendersi contro l’assalto delle memorie. Ella si era chiamata, nel mondo, Luisa Bevilacqua. Aveva appartenuto a una famiglia di borghesi agiati: i suoi genitori avevano un commercio, all’ingrosso, di mercerie. Ella non aveva se non una sola sorella, Grazia Bevilacqua: un solo fratello, Gaetano Bevilacqua. Il fratello era maggiore di lei, di età: minore, la sorella. Ah, ora li rivedeva, ambedue: la sorella bionda, grassotta, bellina, vanitosa dei suoi occhi azzurri e dei suoi capelli d’oro, mentre ella, Luisa, era bruna, alta, snella, col viso lungo, non bello, con gli occhi neri, vivaci e i folti capelli neri, il tipo comune napoletano: rivedeva il fratello Gaetano, bel giovane, elegante, sprezzatore della borghesia paterna, tutto dedito alla vita mondana, schiavo di amici più aristocratici di lui: li rivedeva, questo fratello e questa sorella, ambedue egoisti, freddi, calcolatori, avidi, sotto le seducenti apparenze della giovinezza e della leggiadria, ambedue adorati dai genitori, mentre ella non raccoglieva se non un affetto distratto e glaciale dagli stessi genitori!

— Signore, Signore, quanto mi hanno resa infelice! — ella disse, a bassa voce, rivolgendosi al Crocefisso.

Trasalì. Chi aveva parlato? Quale era quella voce che, come trent’anni prima, si lagnava di essere stata trattata con crudeltà dalla gente che più amava? Che era quel lamento? Altre volte, per anni, la celletta aveva udito quei gemiti, quei sospiri, quei singulti. Ma, da tutto quel tempo, la sua grande sventura si era dileguata, come una nuvola al vento: da tanto tempo, il suo cuore era risanato dalla ferita sanguinolenta! Chi le mostrava, ancora, quel puro sangue del suo cuore, sgorgante per un colpo datole da una mano fraterna? Luisa Bevilacqua, nel mondo, a venti anni, aveva amato, di un amore forte e geloso, un giovane, non del suo ceto, più ricco, più fortunato, un giovane che si chiamava Silvio Fanelli: ed egli aveva amato Luisa, con trasporto. I genitori Bevilacqua assegnavano a Luisa, per il giorno in cui si maritasse, trentamila lire di dote, mentre Grazia, sua sorella, la carità, ne aveva cinquantamila: mentre Gaetano, il primogenito, il maschio, il signore della casa, aveva tutto il resto della fortuna, non piccola. Fiera, generosa, disinteressata, Luisa Bevilacqua non chiedeva ragione della disparità: sapeva che si sarebbe maritata per amore e non per danaro: sapeva che il suo Silvio era, egli stesso, nobile, leale, sincero. Le nozze fra Luisa e Silvio furono presto accordate, per contentare l’ardente passione che li legava. Il giovane adorava la sua fidanzata, la fidanzata adorava Silvio e ne era mortalmente gelosa.

— Oh Dio, voi sapete come mi fu tolto! — ella esclamò, battendo con la fronte sulla paglia della grezza sedia.

Ancora! Ancora! Ancora suor Giovanna della Croce ripeteva il grido di disperazione di Luisa Bevilacqua, la sepolta viva ripeteva l’atroce parola che aveva infranto il cuore della fidanzata! Poichè ella era stata tradita. Come la luce del sole, a Luisa Bevilacqua era stato chiaro il tradimento di Silvio Fanelli con sua sorella, Grazia Bevilacqua. Avevano scherzato insieme, prima, i due traditori; egli senza pensarvi troppo, con la fatuità degli uomini, l’altra per il desiderio di far dispetto alla sua sorella maggiore: a poco a poco, si erano inoltrati nella via dell’amore, prima celatamente, col gusto del frutto proibito, poi tanto apertamente, affrontatamente, da far tutto noto alla tradita. Perchè non era ella morta di dolore, in quel giorno della scoperta? Non era morta, per orgoglio. Nessuno aveva avuto una parola di biasimo per i due traditori: nessuno aveva avuto una parola di pietà per Luisa Bevilacqua. Ella si era irrigidita, contro lo spasimo. I suoi genitori, suo fratello, i parenti, gli amici, tutti avevano congiurato per trovar grazioso che un fidanzato passasse da una sorella all’altra, avendovi pensato meglio: e che sposasse la seconda, invece della prima. Ella stessa, la tradita, pallida, immota, incapace di lamento, aveva dichiarato che non teneva a Silvio, che non teneva al matrimonio e che volentieri cedeva quel fidanzato a sua sorella. Volentieri! Ella aveva pronunziato quella parola, spinta da una forza interiore. Qual forza?

— Eravate voi. Signore, che mi chiamavate, — mormorò la suora, guardando Gesù in croce, subitamente intenerita.

Sì, il Signore l’aveva chiamata a sè, poichè il mondo di egoisti, di disumani, di crudeli, non era fatto per quell’anima appassionata di Luisa Bevilacqua: poichè la immensa delusione dell’amore ne aveva incenerito ogni speranza e ogni desiderio, dandole solo la nostalgia della solitudine e della preghiera, poichè tutti coloro che ella aveva amati, erano stati falsi, sleali, brutali, con lei: e una sola via di verità, di dolcezza, di luce, le balenava, innanzi. Prima che le nozze di sua sorella Grazia Bevilacqua con Silvio Fanelli fossero celebrate, Luisa Bevilacqua aveva dichiarato, fermamente, recisamente, che non poteva resistere alla vocazione pel chiostro: che questa vocazione era così vivace da farle prescegliere il convento governato dalla regola più aspra, dove la clausura non fosse solo perpetua, ma rassomigliasse alla morte. Certo, coloro che avevano tradito e i loro complici se ne turbarono: certo, tentarono vagamente di distorla: certo, non seppero spiegare al pubblico, onestamente, quella risoluzione. Furono vani tentativi di opposizione. La fanciulla li vinse. Quando entrò, come novizia, nel monastero delle Trentatre, aveva ventidue anni; ne aveva venticinque, quando pronunciò i voti eterni: ed erano, adesso, trentacinque anni che ella aveva posto il piede nel convento fondato da suor Orsola Benincasa, senza uscirne mai più, senza mai più rivedere nè i genitori, nè fratello e sorella, nè parenti, nè amici, mai più.

— Solo voi, Signore, — ella soggiunse, dolcissimamente, guardando il Redentore, sulla croce.

Questa era la semplice e comune istoria di suor Giovanna della Croce. Così le si ripresentava, tutta quanta, questa volgare istoria, nella notte silenziosa, nella solitudine della sua cella. Altre volte, quando era ancor giovane, nel convento, e i suoi capelli tagliati crescevano irruentemente, sotto la bianca benda che le fasciava la fronte, questa storia le era parsa un dramma tremendo, che solo il suo cuore era stato capace di subire, senza rompersi per lo schianto: altre volte, nella sua piccola mente, ingrandendo i contorni dei fatti, nel bollore del suo sangue giovanile, sotto le sue vesti nere di sepolta viva, sotto il suo gran velo nero che mai, mai, la monaca deve rialzare, innanzi ad altri, le era parso di essere l’eroina del romanzo più straziante. Lentamente, tutto questo aveva perduto ogni grandezza, ogni importanza, ogni valore: lentamente, i fatti si erano diminuiti, diminuiti, erano spariti: e i sentimenti ardenti si erano smorzati, sotto un velo crescente di cenere. Anche adesso, in questa notte di inquietudine, di dubbio, di tristezza, la sua storia, riapparsa in tutta la sua precisione, non le era sembrata la sua, ma quella di un’altra: le parole che le erano sfuggite, non erano partite da lei, ma da un’altra persona, che era vissuta, nel passato, che era sparita, nel presente. Ella si era liberata, in Gesù. Non certo, aveva avuto le crisi mistiche della Grande Carmelitana, nè i trasporti di Santa Caterina, nè le estasi di suora Luvidina: la sua fede era stata breve, circoscritta, modesta, continua; e la sua fede, così come era stata, le aveva data la liberazione.

Si levò dalla terra su cui era inginocchiata, con le membra indolenzite. La sua tristezza era diventata mortale. Nulla del passato l’addolorava più: nulla poteva addolorarla di quel che era stato. Ma era mortalmente triste. Giovane, battuta dai marosi della vita, nel mondo, era venuta a salvarsi in quel convento, sottomettendosi alle privazioni, agli stenti, alle obbedienze più cieche: aveva vissuto trentacinque anni sotto una regola ferrea, che la opprimeva e la esaltava, insieme: si era invecchiata, colà. Aveva quasi sessant’anni. Non aveva specchio per vedere il suo viso, ma sapeva che i solchi del tempo vi erano impressi profondamente: erano corti, sotto le bende, i suoi capelli, ma ella sapeva che erano tutti bianchi. Adesso, certe fatiche, certe penitenze, certe astinenze la trovavano debole e scoraggiata. Adesso, nella preghiera, non trovava che dolcezza molle e quieta, mai più entusiasmo. Si sentiva ed era vecchia. Neppure sapeva più i suoi anni. Forse, pensava anche di averne di più. Infine, infine, aveva trascorso tutta una vita, là dentro, avendo giurato al Cielo di non uscirne mai, se non morta, di stare lì dentro, in povertà, in castità, in obbedienza: aveva giurato sull’altare, con parole tanto sacre, che le avevano fatto terrore. In quel securo porto, ella era stata la serva del Signore, tranquilla oramai, scampata a ogni bufera; e credeva, era certa, di restarvi sino all’estrema sua ora, agonizzando e morendo in quella sua celletta, su quel suo letto! Certa! Non aveva giurato? Non si era votata, così? Non era una Sepolta Viva? Non era una delle Trentatre? Adesso, prima della morte, tutto si mutava. Il suo giuramento non valeva più: contro suo grado, il suo voto era infranto. Quella celletta, fra un giorno, non era più sua: quel monastero non era più la sua casa. Doveva staccarsi dal giuramento, dal voto, dalla clausura, da Dio: fra un giorno. Moriva di tristezza.

E alla tristezza si univa un terrore infantile, indomabile. Dove sarebbe andata, fra un giorno? Uscendo da quella porta del monastero che, un giorno, le era parso si chiudesse per sempre alle sue spalle, qual via avrebbe presa? Dove si sarebbe diretta? Da chi si sarebbe ricoverata? I suoi? Chi? Vivevano? Chi, di essi, viveva? Non erano, forse, partiti, dispersi, morti? Dove cercarli? Da chi? Da trentacinque anni ella non aveva visto nè la città, nè le sue vie, nè le sue case, nè i suoi abitanti: non sapeva più nulla, non aveva più una notizia, non ne aveva chieste, non gliene avevano mandate. Dove, dove andare? Sola, vecchia, sgomenta, confusa, imbarazzata, addolorata, fra i suoi veli, nelle sue vesti nere, sepolta viva, ridonata al mondo, dove, dove sarebbe andata a cadere? E se non trovava nessuno? Come vivere, dove vivere? Di che vivere? Ognuna di loro aveva portato una dote, in quel convento, ella stessa vi aveva portato le sue ventimila lire, poichè la famiglia le aveva decimato anche i suoi denari. Dicevano alcune, che il Governo avrebbe loro restituito il denaro: altre crollavano il capo, dicendo che il Governo non avrebbe dato nulla. Di che campare allora? Un terrore, un terrore le saliva nell’anima, come a un bimbo che fosse restato solo, una notte, all’oscuro, in un gran letto, donde la sua mamma, morta, fosse stata portata via: il terrore dell’ignoto, delle tenebre, del vuoto: il terrore del vasto mondo, pieno di cose orribili e incomprensibili: il terrore che fa gelare il sangue, che fa sudar freddo, che fa battere i denti. Le parve, in quell’accesso, a suor Giovanna della Croce, che tutte le consolanti immagini della sua stanzetta fossero sparite; che il Crocefisso fosse stato travolto via; che la lampada si fosse spenta, per non riaccendersi più mai: e che ella brancolasse nel buio, vacillando a ogni passo, credendo di precipitare....

Una luce sottile penetrava dalle gelosie sbarrate. E la monaca che, da anni, non vi si era accostata, vi andò avidamente: e guardò, attraverso le fasce di legno incrociate, il cielo all’aurora e il mare lontano, tutto di un bianco argenteo e i tetti delle case napoletane che emergevano dalla bruma dell’alba. Quello era il mondo. Colà doveva tornare. Tutto era stato inutile. Tutto era stato invano.

Desolatamente, sconsolatamente, ella mirava l’orizzonte e il paesaggio e piangeva.

*

Con fermezza, avendo nelle due notti e nel giorno di preparazione, raccolte tutte le sue estreme forze, volendo anche una volta dare esempio di rassegnazione e di obbedienza alle sue monache, suor Teresa di Gesù, la badessa, aveva comunicato loro che tutte, e lei, dopo di tutte, erano forzate a lasciare il convento di suor Orsola Benincasa il lunedì, alle tre pomeridiane. Di nuovo, fu un accorrere attorno a lei, con uno sgomento puerile, con un profluvio di domande, ingenue, bambinesche, con un gemitio sommesso delle più vecchie, delle più taciturne: la badessa non sapeva rispondere altro, che di raccomandarsi a Dio, il quale non le avrebbe abbandonate.

Fermo era l’accento della misera donna, colpita da tanta sciagura, nell’ultimo limite della sua età e del suo coraggio, ma vi trapelava lo smarrimento di una coscienza candida, sgominata da un castigo inaudito, inaspettato, ineluttabile. E dalla sera prima, a ogni parola, a ogni atto, a ogni passo, dalle labbra delle monache esciva un ritornello tetro, lugubre:

— Sorella mia, è l’ultima volta che diciamo le preghiere del vespro, insieme.

— Sorella mia, è l’ultima volta che cantiamo il Pange Lingua, insieme.

— Mia sorella, è l’ultima sera che passiamo, insieme, per questi chiostri.

— Sorella, è l’ultima notte che ci concedono di dormire, in questa cella.

A ognuna di queste frasi mortali, di abbandono, di distacco, di addio, tutte le altre chinavano il viso, sotto il velo: ad alcune, le meno vecchie, più sensibili, le mani riunite si torcevano, convulsamente. Quando l’ora del riposo venne, nessuna voleva andare nella sua stanzetta, prolungando la veglia, raggruppate nei corridoi alla porta del refettorio, in piedi presso lo scalone, a piccoli gruppi, parlottando rapidamente fra loro, con quel mormorìo un po’ infantile delle monache, con quelle voci un po’ leziose, in cui una gravità era passata, velandole, facendole roche di emozione. Due e tre volte la badessa, pazientemente, aveva mandato le converse a pregare le monache, perchè si ritirassero, perchè andassero al riposo, poichè il dì seguente era il giorno della gran prova: ad una ad una, funebremente, le monache rispondevano:

— È l’ultima notte....

— È l’ultima notte....

— È l’ultima notte....

Alla primissima ora mattinale, si videro cose anche più commoventi. Suor Veronica del Calvario, malgrado i suoi settant’anni, la piissima suora che, dicevano le altre monache, era in un profondo stato di grazia, si era levata di letto, malgrado gli anni e gli acciacchi, ed aveva passato la notte nel coro, sola, in orazione, uscendo di lì, all’alba, tremando di freddo e balbettando confusamente delle Ave Maria, ancora. Suor Francesca delle Sette Parole, non avendo pace nella sua celletta, si era andata a distendere sui gradini della Scala Santa: quella scala, a imitazione di quella di Roma, aveva trentatre gradini, che le più giovani, le più forti suore, salivano per voto, per penitenza, sulle ginocchia: una scala che, ogni giorno, le più mistiche suore venivano a bagnare di lagrime, nell’impeto e nella commozione della orazione: suor Francesca delle Sette Parole vi era restata tutta la notte, abbracciando convulsamente la pietra benedetta. Nella notte, sotto il chiarore lunare, suor Giovanna della Croce, non potendo reggere allo spasimo, era discesa in giardino e aveva fatto dei mazzolini, coi poveri piccoli fiori, dei mazzolini legati da un filo di refe: questi mazzolini di fiori, essa li era andati spargendo sulle tombe delle suore, che erano morte in convento nei tempi trascorsi, e che erano state seppellite colà, quando la legge lo permetteva: ella era passata di tomba in tomba, nella notte chiara, in preda a una pena acuta, senz’accorgersi dell’ora, del posto, di sè: e le sue vesti nere erano molli di rugiada, alla mattina, e il velo, bagnato, le si attaccava alla faccia. Dopo le preghiere di mattutino, a ogni minuto che trascorreva, a ogni piccolo atto che facevano, a ogni passo che davano, monotonamente, con la più tetra monotonia, nella idea fissa delle piccole anime, nelle parole monotone di chi si aggira intorno a un solo breve sentimento, le monache dicevano:

— Sorella mia, fra poche ore non saremo più qui....

— Sorella mia, fra poche ore avremo lasciato suor Orsola.

— Sorella mia, fra poche ore saremo fuori pel mondo....

— Sorella mia, fra poche ore...

— .... Fra poche ore....

Le voci erano tremanti. Poi, come l’ora si avvicinava al mezzogiorno, le suore divennero più taciturne. S’incontravano, si salutavano appena, facevano meccanicamente il segno della croce: alle volte, due si appartavano, in un angolo: e si udiva qualche frase: così....

— .... Io vi sono stata quarant’anni....

— .... Io trentotto....

— .... Avevo diciotto anni, quando vi sono entrata....

— .... Io ne aveva venticinque....

A mezzogiorno, dopo averle riunite in una sua grande stanza, la badessa le esortò, di nuovo, a soffrire, nel nome di Gesù e della sua Passione, nel nome degli ineffabili dolori di Maria, questa tribolazione: e le pregò di raccogliere, nelle loro cellette, la poca roba che loro apparteneva, cioè il secondo vestito che possedevano, quello delle grandi solennità, poichè le Trentatre non potevano avere più di due vestiti: unissero anche la loro rozza biancheria. Ella stessa, che apparteneva alla nobilissima famiglia dei Mormile e che aveva dato a suor Orsola una grossa dote, aveva fatto preparare la sua poca roba dalla sua conversa Cristina: era, dietro il suo seggiolone abbaziale, un semplice fagotto, chiuso in uno scialle oscuro.

— E le immagini? — esclamò la piissima suor Veronica del Calvario. — Possiamo portare, le immagini, via?

— Quelle delle vostre stanze, sono vostre. Distaccatele e portatele via.

— Potessimo portar via il nostro Ecce Homo, dalla chiesa!

— Potessimo portar via la statua della Madonna!

— Il Sacramento, dall’altare!

— La Scala Santa, la Scala Santa!

— Le mura del convento, le care mura!

Così esclamavano, gridavano, quelle infelici, con un balbettìo puerile. Col movimento delle sue antiche mani scarne che, da tanti anni, si erano mosse solo per pregare e per benedire, la badessa tentò di chetarle.

— Andate, andate, obbedite, figlie mie.

Andarono. Tutte le porte delle cellette erano aperte, sul lungo corridoio del secondo piano: in fondo alle piccole stanze, le monache andavano e venivano, togliendo il poverissimo loro corredo dal cassettone, distaccando le immagini, i quadretti, i crocifissi, i cerei pasquali, i rosarii: a ogni distacco, esse baciavano religiosamente l’oggetto, dicevano delle preghiere, si raccomandavano:

— Oh Gesù Cristo, pietà di noi....

— Madonna della Salette, guidateci voi....

— Sant’Antonio, che fate tredici grazie ogni giorno....

— Sant’Andrea Avellino, considerateci come se fossimo in punto di morte....

Qualcuna, gittata bocconi sul letto, ne baciava il cuscino su cui aveva posato il capo, da tanti anni; qualcuna, come disfatta, si era seduta sull’unica sedia, le braccia prosciolte; qualcuna vagava intorno, con attitudine smarrita, toccando e baciando gli oggetti.

Quando, a un tratto, un passo rapidissimo attraversò il lungo corridoio: era Giuditta, la conversa, portinaia, che fuggiva verso la grande stanza della badessa, gridando affannosamente:

— È spezzata la clausura, è spezzata la clausura! Vi sono quelli del Governo!

Come una grande raffica di vento passò lungo le celle aperte, come il rombo di un temporale si diffuse per suor Orsola Benincasa. In preda a una paura folle, invincibile, dimenticando l’età, la debolezza, le monache uscirono, correndo dalle loro celle, passarono, correndo, anche le più tarde, anche le più vecchie, anche le più acciaccate, per il corridoio, entrarono, correndo, dalla badessa, rifugiandosi dietro la sua sedia, come bimbe anelanti, affannando, balbettando, strette in un gruppo, attaccate al seggiolone:

— È spezzata la clausura.... è spezzata la clausura.

Senza dir verbo, suor Teresa di Gesù si era levata in piedi. Si vedeva solo un po’ di tremito delle sue rugose mani, su cui brillava l’anello di argento abbaziale.

Tre uomini entrarono nella grande sala, con aspetto tranquillo. Innanzi andava un signore alto e magro, dalla barba rossa ben pettinata, dagli occhiali legati finemente in oro, vestito con la sobria eleganza di un uomo che ama di piacere, anche a cinquant’anni. Correttamente, teneva in mano il suo cappello a cilindro lucidissimo e un bastone dal pomo d’oro cesellato: sulla fisonomia inespressiva non si vedeva di vivente se non un sorriso amabile e gelido, non mancante di una certa ironia. Era il prefetto Gaspare Andriani, un prefetto, dicevano, a pugno di ferro e a mano di velluto. Accanto a lui era un giovine, pallido, bruno, dai bruni mustacchi arcuati, dall’aspetto freddissimo, anche egli assolutamente elegante: un giovine consigliere di prefettura, il cavalier Quistelli. E ancora, più indietro, un altro signore, dalla fisonomia comune, dall’aria servile ed annoiata, vestito decentemente, col tradizionale paio di guanti neri che indica il funzionario di Questura. Tutti tre si avanzarono verso la badessa, con una certa cautela; e fu con una voce melliflua e curvando ipocritamente la testa sovra una spalla, che il prefetto disse:

— Sono dolente di dover compiere una missione ingrata, illustre signora. Io vengo a prendere possesso, in nome del Re, del monastero di suor Orsola Benincasa e di tutti i suoi beni mobili ed immobili.

— Io protesto, in nome della regola di suor Orsola Benincasa, in nome della comunità che rappresento, per le suore qui presenti e per me, contro la violazione della clausura, — disse, con voce limpida, la vecchia badessa, fissando i suoi occhi, di sotto il velo, in quelli del prefetto.

Costui torse un po’ lo sguardo, s’inchinò e con affettata galanteria rispose:

— È spiacevole per me, illustre signora, non poter accogliere tale protesta. Il mio Governo ha sciolto le corporazioni religiose e queste clausure per noi non esistono.

Senza badare a queste parole, suor Teresa di Gesù continuò:

— Io protesto giuridicamente, amministrativamente contro questa presa di possesso illegale, ingiusta ed iniqua. E mi riserbo di far valere, debitamente autorizzata, davanti al magistrato, i nostri diritti.

Il prefetto si voltò verso il suo consigliere di prefettura, dandogli uno sguardo sarcastico: costui, correttissimo, sorrise anche lui, con una punta di commiserazione. Ambedue si strinsero lievemente nelle spalle. La povera suor Teresa di Gesù aveva ripetuto la formula di protesta, che Sua Eminenza le aveva mandata, in iscritto, per mezzo di don Ferdinando de Angelis: ma ne sentiva la inefficacia, la inanità, dinanzi a quegli uomini che avevano violato la perpetua clausura di quelle porte, come se entrassero in un caffè. E udiva, alle sue spalle, ai suoi lati, il forte anelare di quelle monache, il loro tremor forte che scuoteva la sua seggiola, e sentiva che quella era l’ora più affannosa e più dura della sua vita, vecchia come era, debole, senza difesa, senza sostegno, contro quella violazione.

— I tribunali decideranno, — disse, con falsa compiacenza, il prefetto. — Vostra Reverenza voglia, per adesso, rispettare il fatto compiuto. E mi dia modo di eseguire tutta la mia missione, senza ostacoli, senza difficoltà.

Mentre sciorinava i fiori della sua eloquenza burocratica, dal primo momento che era entrato in quella stanza, il prefetto sogguardava verso le monache, anche il consigliere di prefettura, anche l’ispettura di questura, ammiccavano da quella parte. Una curiosità volgare li teneva, supponendo chi sa quali volti fiorenti di bellezza e di gioventù sotto quei veli, pensando ai terribili voti che avevano sepolte vive quelle donne, lì dentro, sottraendolo all’amore, alla gioia, alla vita. Le monache, vedendosi guardate, si stringevano anche più dietro il seggiolone, come un branco di pecore folli; si serravano il mantello intorno la persona, si tenevano fermo sul volto il velo.

— Vostra Reverenza ha inteso? — domandò il prefetto, con un tono dolciastro.

— Io non comprendo, signore. Vogliate spiegarvi.

— Bisogna che tutte le monache, cominciando da lei, sollevino il loro velo e mi dieno il loro nome di famiglia, per constatarne la identità.

E un lungo grido, ripetuto da quattordici voci, sorse:

— Il velo, no! Il velo, no! Il velo, no!

— Eppure bisogna sollevarlo, care signore mie, — soggiunse il prefetto, con un sorriso, agitando con disinvoltura il suo bastone.

Ancora, esse gridarono, angosciate:

— No, il velo! No! Madre cara, madre, diteglielo, che non vogliamo, che non possiamo.

— Avete udito, signore? — disse la badessa, in preda a una profonda emozione, — esse non possono sollevare il loro velo.

— Vostra Reverenza le induca all’obbedienza, come è nel suo diritto, — disse il prefetto, meno sorridente, un po’ accigliato.

— Non posso comandare loro un atto contrario alla nostra regola.

— Via, cominci a farlo Vostra Reverenza, — soggiunse il funzionario, diventato glaciale, guardando in aria.

— Io non lo farò, signore.

— Eppure, bisogna. Si decida, Vostra Reverenza.

— No, signore.

— Allora, — mormorò, con un perfetto tono di finto rincrescimento, il prefetto, — dovrò ricorrere alla violenza.

— Appunto, signore. Ricorrete alla violenza.

Con un passo da esperto ballerino di quadriglia d’onore, il prefetto si avanzò verso la badessa delle Trentatre, suor Teresa di Gesù: mise in una mano il cappello lucidissimo e il bel bastone dal pomo di oro e con l’altra, dopo aver fatto un inchino, con l’altra mano, guantata di un guanto inglese di Lean, toccò il lungo velo della monaca e lo sollevò, con un leggiadro sorriso di galanteria.

Suor Teresa di Gesù, mentre un lungo gemito di pudore offeso, di orrore religioso partiva da tutte le monache, non oppose nessuna resistenza. E un antichissimo viso di donna consumato nelle contemplazioni e nelle preghiere comparve: un viso dove alla nobiltà delle linee venuta dalla razza, si era unita la nobiltà di una vita spesa a servire il Signore, in ogni atto pietoso: un viso di donna già prossima alla morte, con qualche cosa di già libero e di augusto, in questa liberazione: un viso dove era sparso non solo il pallore della vecchiaia, della esistenza passata nell’ombra, ma il pallore di un dolore sconfinato, subìto nella più profonda rassegnazione.

Veramente, il prefetto si arrestò interdetto: forse, in quel momento, la sua missione gli sembrò meno attraente, meno curiosa, meno divertente di quello che aveva pensato prima. Guardò il suo consigliere di prefettura, un po’ turbato: anche costui aveva l’aria imbarazzata. In quanto all’ispettore di questura, egli conservava il suo aspetto volgare, tronfio, di poliziotto che è onorato di un incarico di fiducia.

— Vostra Reverenza, — disse il prefetto, cavando una carta dal suo portafogli e leggendola, per dominare il suo lieve turbamento, — è la duchessa Angiola Mormile di Casalmaggiore, dei principi di Trivento?

Le palpebre della badessa batterono, replicatamente. Ella ebbe l’aria di riunire i suoi ricordi.

— Io sono suor Teresa di Gesù, badessa delle Trentatre. Ero.... sì... ero, nel secolo, quella che voi dite.

— Bene. Si compiaccia farmi constatare l’identità delle sue monache. È doloroso.... ma è così.

— Anch’esse non solleveranno il loro velo, se non con la violenza.

E allora, con la stessa buona grazia di prima, con una celata, e mal celata curiosità, il prefetto si inoltrò verso le monache. Queste tremavano a verga. Ma imitando la loro superiora, non aprirono bocca, non fecero atto di contrasto. Ad uno ad uno, i quattordici veli furono sollevati, gittati indietro. Quattordici volti comparvero. Eran volti di vecchie; di vecchie monache, in tutte le apparenze della vecchiaia, giunta nella solitudine, nell’astinenza e nella preghiera. Alcune scarne, con la pelle che le ossa parevan bucare; alcune grassocce e flosce; alcune emaciate; altre tutte rugose e pur tonde, come un frutto conservato lunghi anni; altre coi segni della decrepitezza, i nasi adunchi prolungati sulla bocca, le gengive senza denti, i menti rialzati. Tacevano: qualche fremito correva sulla loro pelle, non avvezza all’aria libera: le palpebre, ferite dalla luce, battevano. Ma su tutti i volti si distendeva un pallor grande di dolore, una espressione di rassegnazione incomparabile. Il prefetto e il consigliere di prefettura apparivano un po’ seccati e, certo, delusi.

*

Per arrivare al monastero delle Trentatre, dal Corso Vittorio Emanuele, a piedi, poichè non vi è via carrozzabile, bisogna ascendere un primo tratto di via erta, ma selciata, di fronte al grande palazzo Cariati; poi, comincia un secondo tratto di strada a grossi e larghi scalini, dalle pietre tutte smosse: si volta in un sentiero quasi campestre, ripido, lungo, dove, qua e là, restano delle tracce di scalini: sentiero che rasenta, a sinistra, l’alta muraglia chiusa e muta del convento e, dall’altra, certe casupole mezzo dirute e sporche; infine, a un altro gomito, un ultimo tratto di erta strada, ancora a scaglioni, che conduce alle due porte del monastero, la porta piccola e la grande. È un’ascensione lunga, dura e faticosa. Verso il Corso Vittorio Emanuele, la rampa ha un aspetto ancora civile e popoloso; come si passa nell’aspra viottola, si cade nel deserto e nel silenzio: solo qualche rara popolana, dalle chiome spettinate, dalle vesti a brandelli, mentre culla col piede il canestro dove dorme, per terra, un poppante ravvolto in luride fasce, sta sulla porta del suo tugurio e torce, fra due sedie sgangherate, lo spago, a matasse. Da quelle parti, un po’ più lontano, un po’ più vicino, erano, un tempo, le grotte degli spagari, antri quasi zingareschi, dove si accumulavano uomini e bestie, in uno stato quasi selvaggio: la piccola industria della filatura e della torcitura dello spago, ancora, in qualche stamberga di quelle, dà un po’ di pane a chi vuol lavorare. L’ultima rampa, quella che mena direttamente alla grande porta del convento, è sempre deserta: ha l’aria claustrale, triste, fredda. Sulla porta piccola delle Trentatre, dove entrano a deporre i cibi, nelle mani delle converse fuori clausura, i pochi fornitori, è una croce nera, di ferro: di dietro le mura, più basse, di questo lato, non colpito dalla clausura, si vedono gli alberi di un orto. Di fronte, il gran portone sbarrato non ha nessun segno religioso. Da quel portone sono entrate, per l’ultima volta, le monache, ad una ad una, senza più uscirne; quel portone, in trenta o quarant’anni, non si è aperto se non due o tre volte innanzi al cardinale e due volte innanzi al confessore delle monache, don Ferdinando de Angelis. Chiunque è salito, lassù, per curiosità, per distrazione, per bussare al piccolo portone delle Trentatre, ha sempre visto il gran portone, il portone del monastero, sbarrato. Ora è spalancato; un androne alto, profondo, oscuro, nero, si scorge. La clausura è infranta, da due ore: e le monache, ad una ad una, lentamente, escono da quel recinto, dove credevano di essersi sepolte vive, in onore e gloria della Croce di Cristo.

Sul Corso Vittorio Emanuele vi è già folla che, avvertita del caso singolarissimo, attende: pian piano la folla è ascesa verso la prima rampa, è ancora salita più su, più su, per la viottola, per la seconda rampa, fin quasi alla porta grande, spalancata. È una folla di popolani, di popolane, di operai, di piccoli borghesi, di sartine, di fanciulli: una folla muta, paziente sul principio e un po’ stupita, anche: una folla tenera, triste, sarcastica, pietosa, curiosa, burlona, animata da sentimenti diversi, tutti rudimentali. Curiosissima, sovra tutto, curiosissima di queste Trentatre, di queste Sepolte Vive che il Governo ha dissotterrate, che ha strappate alla clausura, al monastero, a ogni lor voto, e che gitta nel mondo, di nuovo; e qualche esclamazione triste, irata, compassionevole, sgomenta, frizzante, si ode, fra la folla, lassù, quaggiù, mentre si attende la cacciata delle monache.

— Poverette, poverette!

— Che ne sarà di loro, che ne sarà?

— Oh malann’aggia il Governo!

— Tutto deve rubare, tutto!

— Hanno preso i loro danari, ora prendono il monastero.

— Lo vedrete che si vanno a maritare, quelle monache.

— Sono vecchie.

— Qualche giovane, ci sarà.

— Poverette, poverette!

— Gesù Cristo non lo dovea permettere.

— Sono castighi, sono castighi!

L’androne del gran portone attira gli occhi di coloro che, spinti lentamente, sono giunti sino alla soglia. Qualche cosa, in quel buio, apparisce. È una monaca, vecchissima, sorretta da una conversa; è la badessa suor Teresa di Gesù, che viene a mettersi sulla porta, per salutare, ad una ad una, le sue monache, che se ne vanno via. Le sue palpebre sono rosse per qualche lacrima versata, bruciante come tutte le lacrime della estrema senilità. Degli ondeggiamenti di emozione corrono lungo la folla, dalla porta del convento, giù, giù, sino al Corso Vittorio Emanuele.

— È la badessa, è la badessa!

— Che sacrilegio, Madonna mia, che sacrilegio!

— Dove siamo arrivati!

— Povera vecchia, pare che se ne muoia.

Così, passa la prima monaca. È suor Gertrude delle Cinque Piaghe, una vecchia alta, magra, asciutta e snella. L’accompagna chi è venuto a raccoglierla, un suo fratello prete, meno vecchio di lei, di pochi anni: suor Gertrude va piano, col velo gittato indietro, poichè questo è stato l’ordine, a occhi bassi, senza scambiare una parola con suo fratello, un sacerdote dall’aria raccolta e triste. Nel vedere la badessa, sulla porta, suor Gertrude si scuote, si ferma, si abbassa su quella mano scarna e la covre di baci:

— Per l’ultima volta, madre, beneditemi, — ella mormora, a voce bassa, per soggezione della folla che più si accalca.

— Ti benedico, ora e sempre, figliuola. Addio, — dice la badessa, a capo chino, anche lei.

Suor Gertrude delle Cinque Piaghe oltrepassa la soglia, dopo un momento di esitazione, si avvia lentamente, accompagnata a passo lento da suo fratello, va, va, tra un fremito lunghissimo della gente: ella scompare alla cantonata, è nel mondo, via. Un’altra monaca si avanza, dall’androne: è suor Clemenza delle Spine, piccina, delicata, con certi lineamenti minuti che nascondono, nella gentilezza, la sua età già molto avanzata. Col viso quasi nascosto dal fazzoletto, tutto intriso di pianto, ella seguita a singhiozzare, mentre un suo cognato, un vecchio che ha sposato una sua cugina, unico parente, che ella non conosce, che non la conosce, un vecchio che ha l’aria di un umile impiegato dello Stato, le sta accanto, imbarazzato, intimidito, muto.

— Me ne vado, me ne vado, madre mia, addio! — esclama convulsamente la suora, baciando l’anello di argento della badessa.

— Ti accompagni il Signore, in ogni passo, sino alla morte, — risponde la badessa, temendo di scoppiare in singulti anche lei.

Suor Clemenza delle Spine ha un moto di repulsione, guardando la strada brulicante di gente, la strada che conduce giù: non sa reprimerlo. Il pianto la soffoca, di nuovo. Ma deve obbedire, passa la soglia, cammina, cammina, senza vedere dove mette il passo, acciecata dalle lacrime. E nella folla, qualche donna già piange, nel veder passare quella plorante: qualche collera scoppia in ingiurie contro il Governo.

— Ladri e assassini!

— Povere anime di Dio!

— Che infamia è stata questa!

Suor Veronica del Calvario, la vice badessa, colei che è piena della grazia di Dio, come dicono le sue sorelle monache, colei che ha passato tutta la sua vita in astinenze e in preghiere, e Gesù e la Madonna sempre l’hanno colmata dei loro doni spirituali, suor Veronica del Calvario, ora, esce anche lei. Sul volto brunastro, magro della suora, è una serenità completa. Ella ha accettato, come un altro dono del Signore, quell’angoscia: ella è la vera figliuola di Dio, quieta, pacata, passiva, che si lascia andare dove la volontà del Cielo la conduce. Ella ha passato la notte scorsa, tutta intiera, in orazioni, nel coro, e se ne è uscita tremante di freddo, il suo spirito è calmo, per sempre. Suor Veronica del Calvario non è napoletana, è messinese: si chiama Felicita Almagià. Alcuni suoi nepoti, avvertiti della circolare prefettizia, hanno telegrafato a Napoli, alla Navigazione generale, per mandare qualcuno a prenderla, per imbarcarla e condurla a Messina. Suor Veronica del Calvario attraverserà il mare: un impiegato della Compagnia Marittima è venuto a prenderla, è un giovanotto dalla fisonomia volgare e fredda, che compie la sua missione, senza interesse, ma precisamente. Quasi, quasi, vedendo la sua badessa, suor Veronica del Calvario sorride. Le bacia la mano come ogni sera, a compieta: e la badessa la guarda, prima meravigliata, poi compresa di ammirazione. Le parti s’invertono, la badessa le si raccomanda, a quella piissima, che Dio ha già racconsolata.

— Ricordatemi ogni giorno a Gesù Crocifisso, suor Veronica.

— Indegnamente, madre mia.

Suor Veronica del Calvario se ne va, senz’esitare, fra la gente, seguita dal giovanotto. La folla sorride, vedendola così tranquilla, malgrado la vecchiaia, malgrado ella sia curva. E, intuendo, la folla, un’anima già benedetta, per sempre, le si raccomanda:

— Un’Ave Maria, per me, buona madre!

— Anche per me, per mio figlio malato!

— Raccomandatemi alle anime del Purgatorio!

Suor Veronica del Calvario annuisce, chinando il capo, va, va, sparisce: ella è nel mondo, non importa!

L’altra, che viene innanzi, ha nella persona, nel volto, tutti i segni della disperazione. È suor Francesca delle Sette Parole, colei che ha passato, la notte prima, distesa sui gradini della Scala Santa. Suor Francesca delle Sette Parole si chiama, nel secolo, Marianna Caruso, d’una famiglia di piccoli commercianti in generi coloniali; al tempo della monacazione, ella entrò nel convento coi denari d’una piccola eredità raccolta. Sono venuti a prenderla alcuni suoi parenti, cugini suoi, vecchi venditori di zucchero e caffè, dal lontano quartiere dei Santi Apostoli: hanno certe facce fredde e oscure, certi volti lividi, dalle labbra sottili di persone avarissime. La sogguardano, taciturni e diffidenti, venuti lì per obbligo, poichè la circolare del Governo era tassativa: essa non li guarda. Desolata, disperata, ella fa un passo innanzi e tre indietro: ella si ferma a baciare, ogni momento, le mura, gemendo, sospirando, agitandosi, come in preda a un accesso di angoscia folle. I parenti, marito e moglie, stringono la bocca, malcontenti e sospettosi. Ella si dispera, senza nulla sapere. La badessa la esorta, con lo sguardo, accennandole la folla, a chetarsi. Ma suor Francesca delle Sette Parole si gitta in ginocchio, innanzi alla sua superiora e, battendo il capo contro la sua tunica, le dice:

— Perdonatemi, perdonatemi, tutti i miei peccati, madre mia, in questo terribile momento....

— Dio ti ha perdonato, tu sei buona, va, figlia mia, non dare spettacolo....

— Madre mia, madre mia, beneditemi come in punto di morte....

Ella la benedice, mentre i parenti, infastiditi, aspettano che tale commiato finisca. Suor Francesca delle Sette Parole non vuole andar via, ella si volta, bacia il legno del portone. Ancora, suor Teresa di Gesù la esorta:

— Obbedienza, obbedienza, figliuola mia....

La suora si avvia, vacillante, a capo basso, senza voltarsi più indietro, non vede il cammino, inciampa, è per cadere. La folla si commuove, novellamente:

— È come Cristo, come Cristo, sotto la Croce!

— Questa non campa.

— Meglio per lei, meglio.

La triste teoria delle monache discacciate dal convento si svolge, di minuto in minuto. Ognuna di esse, insieme allo stupore infantile e ai segni del pudore claustrale offeso, ha sul viso le tracce di lacrime recenti; qualcuna piange; qualcuna sembra inebetita dall’età, dalle sofferenze, dal caso straziante. A ognuna che passa la badessa suor Teresa di Gesù prova come una novella, più acuta impressione di pena: ogni distacco aumenta il dolore di tutti gli altri. Il gesto della benedizione si fa più largo, più tremante, su quella soglia, dove l’addio ha tutta la sua angoscia. Sono già passate, accompagnate da parenti vicini o lontani, da amici di famiglia, da antiche conoscenze, nove monache. Sono via, nel mondo. Suor Teresa di Gesù non le vedrà più. Ecco, adesso, ne appaiono quattro, insieme. Invano il Governo ha mandato tre o quattro volte la circolare, ai parenti presunti di queste quattro: nessuno ha mai risposto. Questi parenti sono o morti, o partiti, o non vogliono caricarsi del peso di una vecchia monaca, cacciata dal monastero. Sono queste quattro: Suora Benedetta del Sacramento; suor Scolastica di Getsemane; suor Camilla del Sepolcro; suor Genovieffa della Passione. Non hanno, queste quattro suore, nessuno. La prima, nel secolo Maria Calenda, è napoletana, di nobile famiglia, pare, completamente estinta; la seconda, Clotilde Massari, è di Bari: i suoi hanno lasciato Bari da venti anni; la terza, Giulia Melillo, è napoletana, ma non vi sono tracce dei suoi; la quarta, Gabriella Filosa, è di Casamicciola: la sua famiglia è stata distrutta dal terremoto. Sono accompagnate, queste quattro abbandonate, dal delegato di questura, il signor Domenico Trapanese, colui che era entrato nel convento col prefetto e col consigliere di Prefettura. Costui ha sempre la sua aria tronfia e volgare e, per di più, è annoiatissimo di quel che fa. Le quattro monache di cui nessuno vuol sapere, fra cui suor Camilla che zoppica atrocemente, circondano la loro badessa, balbettando, piagnucolando, lamentandosi.

— Chi sa dove ci conducono, madre!

— Chi sa dove ci gittano, madre!

— Che ne sarà di noi, madre?

— Nessuno ha avuto pietà di noi, madre!

L’antichissima badessa, ora, è alla fine delle sue forze. Queste, quattro infelici, a cui si toglie ogni ricovero, fanno frangere il suo vecchio cuore di donna. Ella chiede al delegato che, fermo, sbuffa di seccatura:

— Dove le conducete, ora, signore?

— In Questura, — dice lui bruscamente.

Suor Teresa cerca di comprendere di che posto si tratti.

— È un ricovero? — chiede, tremando.

— Eh!... sì, se vogliamo, — sghignazza il delegato.

— Ve le raccomando, signore, — ella mormora, dignitosamente.

— E va bene, signora superiora. Andiamo, zi monacelle, — egli dice, famigliarmente, come se indicasse la via a un gruppo di ladruncoli.

Anche le quattro, confuse, smarrite, non sapendo camminare, con suor Camilla che minaccia cadere a ogni passo, vanno via, scortate dal delegato. La folla sa, essa, chi è quell’uomo, qual sia il suo duro e triviale ufficio, che sia la questura. Comprende, subito, la folla:

— Queste non hanno nessuno.

— Le portano in Questura.

— Coi ladri! Con le cattive donne!

— Dormiranno dietro il cancello.

— Con le guardie e i malandrini!

— Poverette, poverette!

Le monache non odono, non comprendono, non sanno il loro destino. Vanno.

Adesso, sotto l’androne, si vede venire l’ultima monaca, suor Giovanna della Croce. Non ha trovato nessuno in parlatorio, ma l’hanno avvertita che una donna l’aspetta, fuori. Suor Giovanna ha gli occhi gonfi per aver troppo pianto: le labbra le fremono, come a una bimba. Ha l’aria vecchia, assai vecchia, stanca, malata. Anche essa s’inginocchia per farsi benedire dalla badessa: le bacia la mano, le bacia il lembo della tunica.

— Non avete nessuno? — chiede la badessa, che si sente morire.

— Si.... vi è qualcuno.... — mormora suor Giovanna.

— Chi?

— Non lo so. Mi aspettano.

Difatti, fuori il portone, una donna si avanza verso suor Giovanna della Croce. È una donna oltre la cinquantina, coi resti di una beltà bionda sul viso scialbo e floscio, coi capelli già quasi tutti bianchi, pingue, sformata: è vestita con pretensione di eleganza, non adatta alla sua età. Ha sul volto una espressione d’incertezza e, forse, di sgomento. Ella si accosta a suor Giovanna della Croce e le dice, sogguardandola, non senza confusione e dubbio:

— Siete voi, suor Giovanna della Croce?

— Sono io. E voi, chi siete? — domanda con voce esitante la suora, fissi gli occhi sul volto di quella donna.

— Sono tua sorella. Sono Grazia Bevilacqua.

Intensamente si guardano, senza baciarsi, senza toccarsi la mano.

— Sono venuta a prenderti, — soggiunge Grazia, affrettando le parole sotto quello sguardo.

— E papà e mammà? — chiede la suora, infantilmente.

— Sono morti, in salute nostra, — mormora, con un sospiro, Grazia. — Io sono venuta a prenderti.

— E Gaetano, mio fratello?

— È morto. Io sono venuta a prenderti.

— E Silvio Fanelli, tuo marito? — dice suor Giovanna, senza muoversi.

— È morto, è morto. Andiamo.

— Andiamo, — dice suor Giovanna della Croce.

Ora che tutte le monache sono andate via, disperse pel mondo, la badessa, suor Teresa di Gesù, si muove per partire anche lei. È venuta a mettersele accanto una giovinetta quindicenne, biondissima, bianchissima, dall’aria fiera e nobile: è una sua pronipote, donna Maria Mormile dei duchi di Casalmaggiore e dei principi di Trivento.

La giovinetta è figliuola di una nipote della badessa ed è l’unica di casa Mormile. Sebbene quindicenne, ha l’aria raccolta e austera. Un servitore, in grande livrea, di casa Mormile, la segue. La giovinetta offre il braccio alla prozia, per andare. La badessa si volta a guardare le mura di Suor Orsola, l’ultima volta. Tremolante, curvissima, appena potendo muovere i passi, avendo esaurito ogni sua forza, oramai, ella si trascina per la discesa, al braccio della paziente, pietosa e taciturna nepote. Il gran portone si chiude, rumorosamente, dietro l’ultima delle Trentatre. E la folla, vedendola andare, rovina umana, già piena di morte, dice la parola semplice, la parola della giustizia e della pietà:

— Oh poveretta, poveretta! Non la potevano lasciar morire, lì dentro?

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