< Suor Giovanna della Croce
Questo testo è completo.
I III

II.

A occhi bassi, raccolta in sè, col passo tranquillo e cauto delle donne che furono lungamente claustrate, suor Giovanna della Croce discendeva lungo la via Magnocavallo, sfiorando il muro con la sua veste nera monacale, col suo largo mantello nero che la chiudeva tutta quanta: il viso era scoperto, ma la benda bianca le fasciava la fronte sin quasi alle sopracciglia, uscendo di sotto il cappuccio nero, e il goletto bianco nascondeva il collo sino sotto il mento. Tirava un gran vento freddo mattinale ed ella rabbrividiva un poco, tremando nelle sue lane nere, sentendo più vivamente l’improvviso soffio della tramontana, per le vie deserte napoletane. Non veniva di lontano: era stata nella chiesa del Consiglio, sovra la via Magnocavallo, ad ascoltare la prima messa, come ogni giorno: una prima messa che si diceva alle sette del mattino e che solo poche popolane, qualche pinzocchera, qualche mendicante, ascoltava, nella penombra della non grande chiesa, mentre il vecchio sagrestano trascinava i passi, tossendo e scatarrando, mentre il prete appena appena si voltava verso il popolo assente, mormorando le parole sante. Suor Giovanna della Croce si era, quella mattina, anche comunicata. Quando, nel tempo felice della sua vita monacale, era sepolta viva in suor Orsola, il suo confessore don Ferdinando de Angelis, le dava il diletto spirituale della comunione una volta la settimana, sempre il venerdì, in onore della Croce: adesso, il prete era diventato più austero, più duro malgrado la sua estrema bontà e le concedeva la comunione solo una volta il mese. Talvolta ella si lagnava, sommessamente, di questa privazione.

— Ora, siete nel mondo... — mormorava don Ferdinando, senza soggiungere altro.

— È vero, sono nel mondo, — ripeteva lei, con un profondo sospiro, pensando che nella vita profana il Signore poco si concede.

Affrettava il passo suor Giovanna della Croce, tutta chiusa nella sua consolazione umile, un po’ puerile anche, di aver preso parte alla Santa Tavola. Non doveva andare molto lontano. Con sua sorella Grazia Bevilacqua Fanelli e coi due suoi nepoti Clementina e Francesco Fanelli, suor Giovanna abitava un piccolo appartamento, in fondo al cortile del numero novantadue, in via Magnocavallo Appunto, per non girare troppo per le strade, in quelle vesti monacali che attiravano l’attenzione, ora benevola, ora schernitrice, alla sua età già avanzata, per quel timore vivo e quasi infantile del mondo esteriore, da cui nulla poteva guarirla, suor Giovanna della Croce aveva scelto la chiesa del Consiglio per le sue divozioni quotidiane; solo per confessarsi, ogni primo giovedì del mese, andava lontano, nella chiesa di Santa Chiara, per trovarvi don Ferdinando de Angelis. Erano appena le sette; la via Magnocavallo era deserta, silenziosa, sporca; qualche raro portone si veniva aprendo, da qualche portinaio ancora sonnacchioso; qualche basso di povera gente si schiudeva, lasciando uscire qualche operaio che andava al lavoro. Suor Giovanna della Croce scantonò subito nel portone semiaperto del numero novantadue: la portinaia, una donna magra e scialba, coi resti di una bellezza sciupata dalla miseria e dai parti numerosi, incinta, grossa, avvolta malamente in uno scialle di lana rossa, a maglia, tutto stinto, la salutò lamentosamente:

— Lodata sia la Vergine, zia monaca mia!

— Lodata sia, — rispose, a bassa voce, la suora, volendo passare avanti.

Ma la portinaia, sospirando, gemendo, la trattenne.

Zi monaca, diteglielo voi, alla sorella vostra, donna Luisa, ditele che non ne posso più, col signorino don Ciccillo!

— E perchè? — chiese, quasi involontariamente, la monaca. — Che ha fatto, mio nipote?

Poi si pentì. Non aveva promesso a Dio, al confessore, a se stessa, di non occuparsi di cose profane, di cose mondane?

— Stanotte non è ritornato a casa, — soggiunse la portinaia, querulamente. — Gravida come sono, non ho dormito per aprirgli la porta subito, quando avesse bussato.... Aspetta, aspetta, chi te lo dà!

— Mio nipote non è rientrato? — mormorò la monaca, pensosa, a capo chino.

— No. Niente. È vero che mi regala qualche cosa, quando torna tardi. Ma quando non torna.... io perdo il sonno e egli se ne scorda, non mi dà nulla.... un giovane come lui....

— Prendete, Concetta, — e, messa la mano in tasca, la monaca dette qualche soldo alla donna piagnucolosa.

— Grazie, grazie! Che peccato, un giovane come lui perdere le notti.... così.... a giuocare.... o chi sa dove....

La monaca aveva subito abbassato gli occhi, arrossendo, assumendo un contegno distratto. La portinaia si raumiliò:

— Lodato sia il Sacramento, zi monaca mia.

— Lodato sia!

Suor Giovanna della Croce attraversò il largo cortile del palazzo, lasciò a destra la scala grande, penetrò in un corridoio e si trovò in un cortiletto, dove era la scala secondaria di quel grande edificio. Salì le scale strette, un po’ oscure e si fermò su quel primo pianerottolo, cercando la chiave di casa. In questo un passo lieve si udì, venendo dal secondo piano, dopo una discreta chiusura di porta, sempre al secondo piano. Una donna, una signora, scendeva lentamente, sola, come stanca, appoggiandosi alla ringhiera: era vestita con eleganza, ma in fretta, coi panni che le pendevano addosso, male aggiustati, male abbottonati: il colletto della sua pelliccia era alzato. Pallidissima, del resto, dietro la veletta del suo cappello, con un paio di occhi mortalmente stanchi, dalle occhiaie oscure, con una bocca bella ma dalla piega affaticata e come amareggiata. Vedendo la monaca, esitò un momento, poi passò, a capo chino, col suo andare abbattuto, di chi ha una grande lassezza fisica e morale.

Due o tre volte, di sera, stando nella cucina a spegnere il fuoco, a mettere in ordine piatti e bicchieri, suor Giovanna della Croce aveva visto salire questa signora, lentamente, quasi furtiva, nascosta dietro la sua veletta fitta e l’aveva udita penetrare, senza bussare, dalla porta socchiusa nella casa del giovane avvocato, al secondo piano. Anche passando, la signora lasciò un sottile profumo di muschio. La monaca crollò il capo ed entrò in casa. Aveva la piccola chiave della porta di servizio, poichè non voleva disturbare sua sorella e sua nipote, passando dalla loro stanza: esse dormivano sino a giorno alto, ogni sera vegliando sino a ora tarda, rincasando da piccole serate di giuochi e di ballonzoli, talvolta avendo, in casa, amici e amiche, facendo del chiasso, giuocando a carte, suonando il pianoforte, qualche volta anche ballando, tra otto o dieci persone. Suor Giovanna della Croce attraversò la fredda cucina e una stanza da pranzo molto poveramente arredata, dove, sulla tavola, erano dei piatti sudici di grasso, dei bicchieri con qualche dito di vino, dei tovagliuoli macchiati; la madre e la figliuola avevano cenato di qualche avanzo del pranzo, rincasando, e avevano lasciato tutto lì, calcolando che suor Giovanna della Croce avrebbe pensato a pulire e a riordinare tutto, quando si fosse levata di letto. In verità, esse fingevano d’irritarsi, quando la vedevano piegarsi a ufficii anche servili, e sgridavano l’unica domestica che avevano, un mezzo servizio, come suol dirsi, una sudiciona malcreata, ghiottona e pigra. Ma, in realtà, poichè per umiltà, per atto di dedizione e per occupare il suo tempo, suor Giovanna della Croce lavorava a tener pulita la casa, esse lasciavan fare, poltrendo sino alle nove, perdendo tempo, dopo, a pettinarsi, a infiocchettarsi, civettuole madre e figlia, di quella ostinata e delirante civetteria povera borghese.

Suor Giovanna della Croce, prima di mettersi al lavoro, rientrò nella sua camera. Questa era una delle migliori del piccolo e seminudo appartamento: formava angolo e aveva un balcone sul Vico Lungo Teatro Nuovo, un altro balcone sul Vico Primo Consiglio. La stanza aveva l’aspetto monacale, invero, col suo lettuccio un po’ gramo, con le sue molte immagini sulle mura, e i cerei pasquali, e l’acquasantiera: ma le ostentate premure di Grazia Bevilacqua verso sua sorella avevano messo un piumino sul letto e un tappetino innanzi al letto, sui mattoni lucidi. Nel vano del balcone, verso il Vico Primo Consiglio, erano due sedie: sovra una era posato un tombolo di stoffa verde, su cui era fissato coi suoi spilli e coi suoi fuselli un merletto cominciato. Quel vano era il posto preferito di suor Giovanna della Croce quando aveva finito di dar mano alle faccende di casa. Ella non amava l’altro balcone, quello di Vico Lungo Teatro Nuovo: quella via era popolatissima, frequentatissima, piena di gente a ogni balcone, a ogni finestra, i suoi bassi erano pieni di donne, di bimbi, un vero formicolio di persone, su e giù, da per tutto. Anche, dirimpetto, abitava un giovanotto bellino, molto elegante, con cui sua nipote, Clementina Bevilacqua, scambiava saluti, sorrisi, parole dolci, segni d’intelligenza: e sebbene zia monaca fingesse di non vedere, di non udire, ella aveva organizzato tutto quel maneggio sotto gli occhi di lei. Suor Giovanna della Croce si rifugiava presso il balcone, chiuso, del resto, che dava sul Vico Primo Consiglio. Era un vicoletto, piuttosto: nessuno o quasi nessuno lo attraversava, di giorno. Dirimpetto al balcone della monaca, vi erano due balconi sempre o quasi sempre serrati, con le gelosie verdi chiuse e abbassate: raramente, in estate, le mezze gelosie si sollevavano un poco o, un poco, si schiudevano le grandi gelosie, ma senza far nulla o quasi nulla vedere dell’interno. Questi balconi erano a un livello più basso di quello della suora: e si accedeva alla casa, a questo solo primo piano, anzi, a questo ammezzato, da un portoncino sempre aperto, senza portinaio, la cui scaletta di marmo, un po’ sporca, giungeva sulla via. Suor Giovanna della Croce aveva finito per amare questa casa dirimpetto che aveva un aspetto così austero e così taciturno: le ricordava, non sapeva come, il monastero di suor Orsola, con le sue fitte gelosie. Talvolta, ella sogguardava fisamente dietro le gelosie, presa da una curiosità bambinesca, ma non arrivava a scorgere niente. Qualche volta, aveva visto una vecchia megera di serva aprire un po’ le due imposte verdi e scuotere uno straccio, con cui aveva dovuto spolverare la camera oscura e misteriosa che era dietro quelle gelosie: null’altro. Madre e figlia, Grazia Bevilacqua e sua figlia Clementina, spesso, guardando la loro monaca compiacersi dietro a quel balcone, occupata a far saltare ritmicamente i fuselli della sua trina, avevano sorriso maliziosamente fra loro. Ma suor Giovanna della Croce non aveva visto quel sorriso e, anche, troppi sorrisi maligni, sfrontati, spuntavano sulle bocche delle due donne, perchè ella, nella sua naturale e talvolta voluta disattenzione, ne tenesse conto. Facesse freddo o caldo, piovesse o tirasse vento, quando aveva finito di aiutare la serva a rifare i letti, a spazzare, a cucinare il pranzo, quando aveva terminato le sue orazioni, i suoi rosarii, le sue contemplazioni religiose, suor Giovanna della Croce veniva a mettersi al suo posto favorito, nel vano del balcone, sul Vico Primo Consiglio, di fronte ai balconi ermeticamente chiusi della casa dirimpetto, di fronte al portoncino sempre aperto. Quel silenzio, quella solitudine, le piacevano. Una o due volte, nella notte, risvegliandosi dal sonno leggiero dei vecchi, le era parso udire delle grandi risate sghignazzanti, delle voci roche, che venissero dal Vico Primo Consiglio: aveva pensato che, nella notte, delle comitive di ubbriachi, venuti dalle cantine di via Settedolori, di via Formale, delle Chianche della Carità, discendessero verso Toledo: e si era raddormentata. Di giorno, il Vico Primo Consiglio era deserto e la casa dirimpetto muta e cieca.

Prima di mettersi in giro, per la casa, suor Giovanna della Croce, poichè le era stata concessa la bella consolazione di comunicarsi, volle passare un po’ di tempo in raccoglimento, meditando sul dono mistico che era in lei. Come a suor Orsola, nei buoni tempi della sua felicità monacale, ella s’inginocchiò presso il letto, appoggiandosi alla paglia della sua sedia. Ogni volta che compiva questi atti di adorazione alla Divinità, una tristezza le stringeva il cuore; il costante rimpianto della clausura, della regola rigorosa monastica, della pace conventuale, della vita religiosa, si faceva più vivo. La tela che aveva formato la sua vita di trentacinque anni, era stata lacerata, brutalmente: ed ella non giungeva a riannodare i fili infranti. Tentava di non vivere nel mondo, ma era nel mondo; tentava di rifare quella trama di preghiere, di astinenze, di devozioni, di omaggi religiosi, ma non vi riesciva se non in parte, imperfettamente, miseramente. Tutto si frapponeva fra lei e la rinnovazione della sua esistenza anteriore: e quanto ella tentava di fare, era una pallida e informe ripetizione, mancante di ogni spiritualismo, mancante di ogni conforto.

Adesso voleva assorbirsi nel pensiero della Eucaristia, ma a traverso questi sforzi per astrarsi, come le aveva raccomandato il suo confessore, ritornava una domanda inquieta, segreta: perchè suo nipote non era rincasato? Dove era? Correva qualche pericolo?

Questo nipote, Francesco Fanelli, era il più giovane dei due figliuoli di sua sorella. Aveva ventidue anni solamente; alto, snello, coi capelli castani, due occhi grigi-azzurri e due mustacchietti biondi, portava, in sè, una rassomiglianza perfetta con suo padre morto, Silvio Fanelli. Mentre Clementina, biondissima, pallida, con gli occhi biancastri, ma leggiadra sempre, era simile a sua madre, col viso un po’ inespressivo delle bionde e un’aria fra altiera e leziosa, Francesco Fanelli aveva l’aria dolce e ridente di suo padre, e una seduzione fisica che egli rendeva più grande, occupandosi moltissimo della sua persona, perdendo un tempo grande alla sua toilette, spendendo tutto quello che gli davano e che soleva portar via a sua madre, in abiti, in camicie eleganti, in cravatte, in cappelli alla moda, profumandosi da capo a piedi, portando anelli di brillanti al dito e fiori all’occhiello. La sua seduzione fisica non era inconscia: sapeva di esser un bel giovane ed adoperava questo suo potere con tutti, sorridendo, mostrando i suoi denti bianchi, facendo brillare dolcemente i suoi occhi, dicendo delle frasi con la sua voce molle, un po’ femminile, delle frasi che, quasi, egli cantava. La madre e la sorella erano costantemente in collera contro lui, per la sua indolenza, per la sua indifferenza, per il suo continuo bisogno di danaro, mentre esse vivevano maluccio, con gli avanzi della fortuna paterna e materna; ma bastava che Francesco si presentasse, tutto bello, tutto elegante, con la sua aria lieta di sè e del mondo, coi suoi sguardi vivaci, col suo sorriso di bel giovanotto fortunato e felice, perchè le conquistasse anche loro. Egli era indifferente, ma carezzevole; egoista, ma gentile; esigente, ma sempre giocondo ad amabile; capriccioso, ma pieno di vezzi e di moine: freddissimo, in fondo, avido di tutti i piaceri, ma celante questa sostanza del suo essere, sotto il più incantevole aspetto. E suor Giovanna della Croce, la vecchia zia monaca, invece di concentrarsi nel ringraziamento al suo Signore, per essere disceso in lei, si chiedeva ove mai si fosse smarrito suo nipote, Francesco Fanelli. Correva egli qualche pericolo forse? Così giovane, una notte lontano dalla casa, dove, dove mai poteva essere? Stava da mezz’ora, così inginocchiata, volendo invano fermarsi sovra i beneficii mistici della comunione, suor Giovanna della Croce, quando bussarono alla porta della cucina. Si levò, rinunziando alla contemplazione. Chi bussava, era la serva Bettina: bisognava aprirle, unirsi a lei, per le faccende di casa. Infine, non era un atto di obbedienza, di rassegnazione alla bontà divina, quell’adoprarsi, in casa, presso coloro che le avevano aperte le braccia, che l’avevano ospitata? Non era suo dovere? Era vecchia e certi servizii pesanti la stancavano: ma molte cose le poteva fare ancora, per alleggerire la serva, che non bastava a tutto. Bettina borbottava sempre: la casa era grande, le padrone erano capricciose e colleriche, quindici lire di mesata e uno scarso pranzo: ella non finiva di borbottare.

— Hai portato il caffè? — le chiese la monaca.

— Caffè? Non avevo denaro, — rispose l’altra, levando le spalle.

— Grazia, non te ne ha dato?

— No. Doveva comperarsi una scatola di cipria per sè e un paio di guanti per la signorina: come poteva pensare al caffè? — brontolò la serva.

— Tieni: va a comperarlo, — disse suor Giovanna, mettendo la mano in tasca.

— Datemi anche i soldi per il latte, allora. Sapete che il signorino ama il caffè e latte.

— Il signorino non vi è, — soggiunse la suora, a voce bassa e tremante. — Non è rientrato.

— Tornerà più tardi, — disse indifferentemente la serva.

— Tu credi? Veramente?

— Eh, zi monaca mia, non si è mica perduto, a ventidue anni, — esclamò la serva, cinicamente.

— Sarà sano e salvo? Una notte fuori di casa, così, chi sa dove!

— Eh, lo so io, dove è! — borbottò la serva.

Ma la monaca non chiese altro. Il suo volto appassito, di claustrata sessantenne, di nuovo arrossì come quello di una giovinetta. Si tirò il mantello nero intorno alla persona, come se avesse freddo: e mentre la serva si alzava il fazzoletto di cotone sulla testa per ripararsi dal vento, uscendo di casa, suor Giovanna cominciò a portare in cucina i piatti sudici, con pochi avanzi di carne fredda, i bicchieri dove s’inacidiva, in fondo, del vinello, aprì la chiave dell’acqua di Serino, mettendovi sotto tutta quella roba sporca. Poi, presa della minuzzaglia di carbone con la paletta, accese il fuoco, perchè l’acqua pel caffè bollisse, quando Bettina fosse di ritorno. Quelle occupazioni volgari non la contristavano. In verità, in monastero, la badessa voleva che ognuna di loro, per turno, aiutasse le converse alla cucina, alla pulizia: e quella obbedienza, quella umiltà era loro cara, poichè pareva loro, nell’anima semplice e rimasta infantile, che tutto andasse a gloria del Signore. In casa Bevilacqua ella seguitava la sua opera di domesticità, ma con minore soddisfazione, in quella oscura e gelida cucina, tra quei poveri arnesi che sua sorella non pensava a rinnovare, tutta dedita all’apparenza e a un falso lusso della persona: seguitava, in compagnia di quella serva brontolona, ingorda, avida, pettegola, la cui lingua spesso correva al discorso turpe e alla bestemmia, soffrendo di quel contatto, ma soffrendone in silenzio, rassegnatamente. Quaranta, quarantacinque anni prima, quando erano nella casa paterna Bevilacqua, lei e sua sorella erano servite, godevano di un’agiatezza secura: ma gli anni erano passati, sua sorella aveva divorato, con suo marito, tutta o quasi tutta la sua fortuna e quella di casa Fanelli: era vedova, adesso, con due figli, con rendite scarse, con una ragazza da maritare, con un figliuolo che non studiava, non lavorava e cercava una dote, con la sua beltà seducente. Quasi povera, Grazia Fanelli; eppure aveva raccolto sua sorella teneramente, in apparenza. Sua sorella, come tutte le altre monache di suor Orsola cacciate dal monastero, aveva avuto, poichè i giornali conservatori e clericali avevano fatto gran chiasso, una somma di mille lire: ma si diceva che il governo avrebbe certamente restituito la dote, a ogni monaca. I più scettici dicevano che le Sepolte vive avrebbero ottenuto un forte assegno. Suor Giovanna della Croce pagava, dunque, l’ospitalità, lavorando, cercando di provvedere al disordine e alla miseria segreta della casa, cercando di renderla più decente, mentre Grazia Fanelli si tingeva i capelli biondi incanutiti e sua figlia Clementina si ondulava con la ricciolina. Le ventimila lire di dote di suor Giovanna si aspettavano, da otto mesi. Niuno ne parlava, ma tutti le aspettavano.

Ella stessa s’impazientava, vedendo le ristrettezze della casa, sentendo di essere a carico, privandosi molto, cavando, sempre che poteva, qualche cosa dal suo gruzzolo delle mille lire, soldi, naturalmente, ma cavandone sempre, meditando di fare un gran dono alla sorella e ai nipoti, appena le avessero restituita la dote. Le due donne non dicevano nulla, non chiedevano nulla: quando zi monaca metteva fuori dei soldi, delle lire, voltavano la testa in là, fingevano di non vedere. Ed ella non si era fatta nè una camiciola di flanella, nè una sottana, nè un fazzoletto di più del suo povero corredo di convento; consumava i suoi due vestiti di suor Orsola, lavorando e stirando da sè le sue bende candide e i suoi candidi goletti. Adesso avrebbe dovuto comprare un paio di scarpe, ma esitava a spendere quelle dieci lire.

Quando la serva fu tornata e il caffè e latte fu pronto, Bettina lo portò nella stanza, ove madre e figlia si voltavano e si giravano nel letto, non avendo voglia di alzarsi, sbadigliando, la madre dal viso sciupato e logoro, dai capelli mal tinti, la figliuola con le palpebre arrossate delle bionde troppo bianche.

— Che fa zia monaca? — domandò la ragazza, stiracchiandosi.

— Spolvera la stanza da pranzo. È già stata a messa, — rispose la serva.

— Beata lei, che si può mettere in grazia di Dio, — mormorò ipocritamente Grazia Fanelli.

Suor Giovanna della Croce, lasciato il cencio con cui spolverava, era andata ad aprire la porta, perchè avevano picchiato. E si trovò avanti il nipote, Francesco Fanelli, il bel Ciccillo, ben vestito, come un figurino di moda, tranquillo, col suo sorriso seduttore.

— Oh, — esclamò la vecchia suora. — Sei qui! Sei qui!

E non gli disse altro, tutta tremante di gioia. Egli, sempre amabile, prese la mano rugosa e un po’ callosa della vecchia monaca e la baciò rispettosamente.

— Sono stato a Caserta, con un amico, — disse, come se niente fosse, sorridendo.

— Vuoi il caffè e latte? Lo vuoi?

E si avviò per andarglielo a prendere, felice di servirlo. Egli la tirò pel nero mantello monacale.

Zia monaca, mi fate un favore?

— Che vuoi?

— Ho da pagare la mia parte di viaggio. Prestatemi venticinque lire.

Col suo passo cauto e quieto di claustrata, ella se ne andò in camera sua a prendere questo denaro per darglielo. Egli fumava una sigaretta e canticchiava. Grazia e Clementina sua figlia disputavano vivamente, infilandosi le calze, nella loro stanza.

*

Sedute, una di fronte all’altra, coi piedi sui freddi mattoni, con le mani nascoste nell’ampiezza delle maniche monacali, nell’atto tradizionale delle suore, le due vecchie si guardavano, volta a volta, con occhi teneri e tristi e, volta a volta, ripigliavano un discorso lento e sommesso. L’ora non era tarda, appena oltre le quattro pomeridiane: ed esse avevano collocato le loro sedie nel vano del balcone, quello che guardava il vico Primo Consiglio: ma la giornata era grigia, di un grigio eguale e chiuso di nuvole invernali. Il pomeriggio non era freddo: ma un brividìo raggrinziva l’antica pelle di quegli antichi visi di donna. Una di esse, l’ospite, era suor Giovanna della Croce, cioè donna Luisa Bevilacqua: la visitatrice era suor Francesca delle Sette Parole, che aveva, nel mondo, il nome di Marianna Caruso. Nei dieci mesi dopo la cacciata dal monastero delle Trentatre, suor Francesca che non avrebbe avuto pace, se non le fosse stato dato di ritrovare una sua sorella sepolta viva, per mezzo di preti, di confessori, era riuscita a saper l’indirizzo di suor Giovanna della Croce e, malgrado i suoi settant’anni e i suoi acciacchi, venendo dall’estremo quartiere di san Giovanni a Carbonara, in dieci mesi tre volte aveva picchiato alla porta di suor Giovanna, per farle una lunga visita. Le due monache restavano sole, in queste visite, e un po’ taciturne in sulle prime, guardandosi nel volto come per riconoscersi meglio: non si baciavano, non si toccavano la mano, poichè questi segni di affetto terreno sono proibiti, fra le suore. Si guardavano, sospirando: e nelle rughe che fitte solcavano il floscio e bianco volto di suor Francesca, che era stata una giovane grassoccia e rosea, nelle rughe fini che si diramavano intorno agli occhi, intorno alla bocca della bruna e magra faccia di suor Giovanna, nella espressione di stanchezza rassegnata e pure dolente di suor Francesca, nel senso di malinconia ancora ardente, ancora vivida, di suor Giovanna, ciascuna cercava di leggere la umile storia di rimpianto segreto e inconsolabile, per il securo asilo che avevan perduto, per la casa di Dio che era stata tolta loro, per la pace dell’anima che era stata loro turbata per sempre, per il cibo del corpo che era stato loro rubato. Tacevano entrambe, sole, sospirando insieme, poichè i loro cuori avevano i medesimi sussulti di tristezza, pensando al loro alto convento di suor Orsola, ove si erano sepolte vive e donde erano state discacciate, per sempre. Poi, lentamente, mentre le ombre si venivan dileguando dai loro visi incorniciati di tele candide, si parlavano pian piano, con la discrezione di chi è molto vissuto, fra il chiostro e la chiesa, con la parsimonia di gesti di chi è abituato a dominare ogni impeto fisico, sotto un regime di calma e di rassegnazione. Infine, questa era la terza visita: in un pomeriggio di febbraio, senza sole, di un bigio diffuso da un velo eguale di nuvole.

— Io ho dovuto rinunziare alla divozione della Scala Santa, Giovanna mia, — disse, sommessamente, suor Francesca, — ed era la mia consolazione, in monastero. Mi dicono che vi sia una Scala Santa, a Napoli, ma in una chiesa verso Mergellina, alla fine del Corso Vittorio Emanuele: come ci posso andare, così distante dalla casa mia? Anche con l’omnibus, ci vorrebbero due o tre ore, per andare, per tornare. Poi, forse, non avrei la forza di fare i trentatre scalini sulle ginocchia. Sono così vecchia! Io ho da tredici a quattordici anni più di voi, Giovanna.

— Anche io ho dovuto rinunziare a varie divozioni, — riprese, piano, suor Giovanna. — Sono in casa di mia sorella, essa mi rispetta, ma è tutta del mondo e certe cose non le può capire. Una volta, vi rammentate, Francesca? io digiunavo tutti i giovedì, vigilia del venerdì, in cui è morto nostro Signore: Adesso, non lo posso fare più. Mia sorella dice che sono divozioni che fanno male alla salute, mia nipote Clementina mi burla e mio nipote Francesco dice che l’ostentazione è un peccato anch’esso. Così, per non farmi notare, ho smesso il digiuno del giovedì, Francesca. Ma, che volete? non ne ho più l’abitudine, di mangiare in quel giorno, e ogni boccone mi pare che mi strozzi.

— Se ho voluto tenere accesa una lampadina innanzi al Sacro Cuore, — riprese suor Francesca delle Sette Parole, sempre a bassa voce, — ho dovuto e debbo comperarmi l’olio da me. I miei parenti sono avarissimi. Del resto sono molto poveri, marito e moglie, e sono stati ben fortunati di non aver avuto figli: quel poco che hanno basta appena appena a loro. Io non ho il coraggio di chieder loro nulla. Per due mesi, dopo che ci hanno cacciate dal convento, mi hanno tenuta con loro, senza farmi pagar niente, ma sono stati dei gravi sacrifizii che hanno fatti per me e che non potevano continuare a fare. Li vedevo sempre freddi e muti, che si guardavano, imbarazzati, seccati di questo peso che era caduto loro addosso. Sono loro prozia, non avevano obbligo di mantenermi. Adesso.... è un’altra cosa.

Un silenzio. Ognuna di esse, prima di parlare, guardava la compagna, con una breve contemplazione quieta e malinconica; poi, riannodava il discorso come se parlasse fra sè, senza interlocutore, pianissimamente, con ritmo eguale di voce, come lo scorrere costante e monotono di una fonte. Talvolta, come adesso, ambedue tacevano: sogguardavano nella stanza nuda e gelida di suor Giovanna, quasi senza vedere le cose, intorno: sogguardavano verso i balconi sbarrati della casa dirimpetto, nel vicolo deserto del Consiglio.

— Adesso, che fate? — domandò suor Giovanna, chinandosi un poco verso la sua vecchia compagna. — Adesso non siete più a loro carico?

— No, pago. Pago qualche cosa, ogni mese, — rispose suor Francesca, con un lieve sospiro. — Da quando ho avuto le mille lire che voi sapete, Giovanna, non ho avuto la forza di mangiare il pane dei miei nipoti, così, senza far nulla per loro. Sul principio, non volevano: si vergognavano: dicevano che la gente avrebbe sparlato di loro, se accettavano il mio denaro. Ma io capii che lo avrebbero preso. Ora, io pago.

— E che pagate?

— Pago quaranta lire al mese, per tutto, — disse suor Francesca delle Sette Parole, con un sospiro anche più profondo. — Mi danno una stanza, il pranzo, la servitù, l’imbiancatura, per queste quaranta lire al mese. Un po’ di caffè, la mattina; il pranzo alle due; e un po’ di cena, alla sera.

— E come mangiate?

— Mi piaceva meglio la cucina del convento, — disse suor Francesca, con un tono più alto di tristezza.

— Quaranta lire al mese? Le pagate da otto mesi, n’è vero? Dovete così avere già speso trecentoventi lire.

— Ne ho speso trecentocinquanta, — riprese, tristissimamente, suor Francesca. — L’olio nella lampada.... qualche piccola elemosina.... un paio di scarpe che mi son dovuta comprare.... certi fazzoletti.... io non ho più che seicentocinquanta lire. Ho fatto varie volte il conto, Giovanna. Sono solo due anni che io posso aver da vivere, con quel denaro.

— Sì, due anni soltanto, suor Francesca, — riprese l’altra, con tono dolente.

— Io ho una sola speranza, in tutto questo.

— Che ci restituiscano la dote?

— Non ci restituiranno più niente, — soggiunse la vecchia monaca, crollando il capo. — Oltre quelle mille lire, non avremo altro, lo vedrete. Si è fatto del chiasso allora e, per far tacere la gente, ci hanno dato quel denaro. Ora, tutti ci hanno dimenticate. Io ho una sola speranza: ed è di morire prima dei due anni. Sono assai vecchia e Dio mi chiamerà presto, io spero, prima di mandarmi all’elemosina o di lasciarmi morire di fame.

Un triste silenzio, ancora. Penosamente, suor Giovanna lo ruppe:

— Io non ho neppure questa speranza, suor Francesca, perchè sono meno vecchia di voi. Debbo raccomandarmi a Dio, perchè mi tolga da questo mondo di dolore e di miseria.

— Anche voi pagate, qui?

— No, non pago. Mia sorella e i miei nipoti non hanno mai voluto accettare che io pagassi una pensione. Ma è anche peggio, sorella mia. Erano agiati: sono, adesso, in ristrettezze. Non voglio dire per causa di chi e perchè, non debbo far giudizi maligni o temerari. Spesso, il denaro manca in casa. Allora, io debbo spendere, se non voglio farla da avara, da egoista o da profittante.

— E avete speso assai?

— Eh!... abbastanza, — rispose, con voce smarrita, suor Giovanna.

— Quanto?

— Circa seicento lire.

— Seicento lire? Gesù! Più della metà?

— Più della metà, purtroppo!

— E come avete fatto?

— Così, a soldo a soldo, a lira a lira. Prima, tenevo un piccolo libro dove, ogni giorno, scrivevo quello che spendevo. Adesso, non ci scrivo più nulla.

— Seicento lire! È troppo, Giovanna mia.

— Sì, è troppo, lo so. Ci è anche quel mio nipote, Francesco Fanelli, che ha tanti bisogni.... È un giovanotto.... si vuole sposare.... cerca una ragazza.... ogni volta che mi chiede danaro, non so dire di no.

— Gli volete bene a questo nipote, non è vero? — chiese suor Francesca delle Sette Parole, sogguardando un po’ di più la sua sorella in Gesù.

— Sì, gliene voglio.

— È questo il figliuolo di quel giovane che dovevate sposare, mi pare.

— Sì, è questo: è il suo unico figliuolo. Il padre è morto. Se non fosse morto, io non sarei venuta qui, — soggiunse, semplicemente, suor Giovanna della Croce.

— Per paura della tentazione, forse?

— No, sorella mia. Da molto tempo, Gesù mi aveva dato la pace. E la vecchiaia, poi! Ma non sarei venuta, ecco, se Silvio Fanelli fosse stato ancora vivo. Sarebbe stato ridicolo e sciocco, ritornare qui. Ma non vi è più: da un pezzo gli avevo perdonato ed egli stesso deve avermi perdonato, in punto di morte, se gli ho dato qualche tristezza.

— Il figliuolo gli rassomiglia?

— Sì, molto.

— E vi siete confessata di tutto questo?

— Sì, suora mia, — disse umilissimamente suor Giovanna della Croce. — Per iscrupolo, mi sono confessata.

— E vi hanno assolta?

— Sì. Ma il confessore mi ha esortato a non dar più il mio denaro, nè a mia sorella, nè a mio nipote.

— Ha ragione. Quando non ne avrete più, come farete?

— Io non lo so, — disse suor Giovanna, stringendo le mani nelle ampie maniche, rabbrividendo tutta. — Non so niente.

— Io ne ho per due anni; ma voi no, sorella mia.

— Forse per due mesi, non più, e io tremo di spavento, pensandoci. Non credete che ci ridaranno la dote? No? Non lo credete? Qui, lo credono. Sovra tutto, lo sperano. Io.... io non dovrei dirlo, ma è proprio così: ritengo che mia sorella ci abbia calcolato sopra, in questo decadimento completo della sua fortuna. Quando venne.... non dovrei dirlo, è troppo triste.... non mi parlò di danaro, non fece che condurmi qui, ma io restai sospettosa, diffidente: non mi aveva mai voluto bene, mia sorella. Perchè mi raccoglieva? Sulle prime, non mi hanno detto nulla. Fra le altre cose credevano che io avessi accumulato del denaro, in convento. Voi sapete che avevamo fatto voto di povertà! Poi, si sono convinti che non avevo altro che quelle mille lire: e se le vanno prendendo allegramente, senza dirmi neppure grazie. Da due mesi, adesso, non parlano se non delle mie ventimila lire, come se fossero loro, come se dovessero averle domani.

— Non avremo mai restituita la dote, — disse, monotonamente, suor Francesca delle Sette Parole.

— Voi lo dite! — disse, angosciosamente, suor Giovanna della Croce. — E mio nipote, invece, crede il contrario. È già andato a Roma, due volte, da persone del Governo: gli ho dato cinquanta lire alla volta. Sempre ha portato delle buone notizie. Si rincorano, fanno i loro conti, rimandano il pagamento di vari debiti a quel tempo, fanno progetti di nuove spese.... È una cosa che mi fa spasimare, ma non oso di parlare, sorella mia.

— Ma vi trattano bene? — chiese suor Francesca, con affetto.

— Quando pensano a questo denaro, sì, — disse suor Giovanna, a voce anche più bassa. — Non sono interessati, forse, ma sono bisognosi: che farci? Mi hanno data una buona stanza, vedete. Io lavoro in casa: fo di tutto. Non servo loro, servo il Signore. Ci avevano abituate alla fatica, vi rammentate? Ma faticavamo in letizia, allora. Qui vi è noia, vi è malinconia: spesso, litigano forte, fra loro, la madre e la figliuola. Si dicono delle cose brutte, assai brutte.... io ne soffro, suor Francesca.

— Pazienza, pazienza!

— Sì, pazienza, è vero, ne ho; ma niente di quello che succede, mi piace. Nè la madre nè la figlia amano il Signore: vanno in chiesa la domenica, solo per occupare un’ora. Fanno la burletta sulle cose della religione. Io mi alzo e vado via, quando questi discorsi cominciano: non posso udirli. Sento che ridono alle mie spalle: adesso, ridono anche più....

— Fermezza, nelle tribolazioni!

— Quando sono sola, piango qualche volta, suor Francesca. Io penso che accadrà di me, quando non avrò più un soldo e quando costoro avranno perduto ogni speranza di avere le ventimila lire! Ora, vengo spesso in questa stanza, mi isolo, mi metto a tessere il merletto, qui, su questo balcone....

— Potreste venderli, questi merletti, suor Giovanna, — mormorò suor Francesca, toccando i fuselli.

— Venderli? E che me ne darebbero? Io non conosco nessuno. Così potessi! Questo merletto serve per l’altar maggiore della chiesa, qui, del Consiglio....

— È bello: uno simile, lo potreste vendere.

Tacevano. Imbruniva. Le loro persone si abbandonavano, stanche, abbattute, nelle vesti nere. Il volto molto bianco, di un bianco di cera, di suor Francesca delle Sette Parole si distingueva, nelle prime penombre: quello bruno e sottile di suor Giovanna si riempiva di ombre.

— Voi passate le giornate, qui, suor Giovanna?

— Sì; dirimpetto, vedete, abitano persone silenziose e solinghe, che non ho mai viste, che non schiudono mai le finestre, nè i balconi. Nessuno mi osserva: io non osservo nessuno. E mi sembra, talvolta, di esser ritornata a suor Orsola....

— Oh, suor Orsola era un’altra cosa, — mormorò suor Francesca delle Sette Parole. — Niente vi somiglia, sorella mia. Quanti anni ci siamo state, quanti!

— Troppo pochi!

— Sono fuggiti come un giorno. Mi pare di aver sognato; penso che ho sognato. Vi rammentate di suor Clemenza della Spine, quella piccola?

— Sì, povera suor Clemenza, mi ricordo! Come era divota delle anime del Purgatorio! Ed era così brava nel fare i letti, tutte quante la pregavano, perchè rifacesse loro il letto! Che ne sarà stato?

— Chi lo sa! Anche suor Gertrude delle Cinque Piaghe era buona, non è vero? Un po’ superba, forse, della sua nascita: ma era un piccolo difetto. Se ne pentiva, poi si batteva il petto, mi ricordo. Certe notti, per questo peccato di superbia, si batteva con la disciplina. Che ne sarà avvenuto?

— Chi lo sa! Tutte le suore mi erano care, ma suor Veronica del Calvario mi sembrava una santa....

— Era una santa, era! Quante grazie particolari aveva da Gesù, da Maria, suor Veronica! Io mi raccomandavo sempre a lei, perchè mi affidasse alla Madre e al Figlio: ed essa, talvolta, restava ore intiere, inginocchiata in estasi, pregando solo per me. Chi la vedrà più, ohimè, suor Veronica? Pregherà essa ancora per me? Dove sarà? Che farà?

— Chi lo sa!

— Voi non avete saputo più niente di nessuna?

— No, di nessuna. Solo di voi.

— E io, solo di voi. Eppure, della povera nostra badessa, avrei voluto conoscere qualche cosa, Giovanna mia. Ho cercato, ho cercato: ma non vedo nessuno, sono così vecchia, mi è stato impossibile di averne notizie.

— Suor Teresa di Gesù era la mia madre e la mia benefattrice, — disse, esaltatamente, suor Giovanna della Croce. — Io mi sono separata da lei, solo per la forza.

Ancora un silenzio, un lungo silenzio pensoso.

— Io dico che suor Teresa di Gesù deve essere morta, — soggiunse suor Francesca, come se parlasse a sè medesima.

— Credete che sia morta? Voi lo credete?

— Lo credo, sorella mia. Quando ci separammo, compresi che non poteva vivere molto. Essa deve esser morta.

— Beata lei, se è morta.

— Beata lei, se è morta.

La sera era caduta. Suor Francesca delle Sette Parole si levò per andarsene. La visita era durata molto. Anche l’altra monaca si era levata. Erano di fronte, nell’ombra.

— Diciamo qualche avemaria, insieme, — propose suor Giovanna, tristamente.

Orarono, un poco. Si separarono.

— Io vado. Prenderò l’omnibus, sino laggiù. Costa due soldi.

— Non avete paura, sorella mia?

— No. Che mi può accadere? Chi si cura di una vecchia monaca come me? È tardi: non vi sono neppure monelli, per corrermi dietro e gridarmi zi monaca. Vi è l’omnibus, quasi qui, a Toledo.

— E quando ci vedremo? — chiese Suor Giovanna. — Grazie della visita. Quando ritornerete?

— Non so. Non posso dirvi. Come vorrà Iddio. Forse, mai più: meglio separarsi, come se morissimo.

— Dio vi benedica, allora.

— Benedetta voi, sorella mia.

L’una monaca se ne andò, a capo chino, con le mani nascoste nelle maniche, nelle vesti nere, curva la fronte sotto il candor delle bende: l’altra monaca rimase, a capo basso, stringendosi nel mantello, sotto le vesti nere, con la fronte chiusa sotto la fascia bianca: una solinga, per le vie frequenti; l’altra, solinga, nella casa vuota, di fronte a una casa taciturna e oscura.

*

Due o tre volte, Clementina Fanelli aveva fatto capolino dalla porta di sua zia monaca e aveva sogguardato, con curiosità ed impazienza, che cosa facesse suor Giovanna della Croce: prima l’aveva trovata assorta nella lettura di un libro di orazioni e la suora non si era neppure accorta della presenza della nipote: la seconda volta, la monaca era inginocchiata innanzi al crocifisso, a testa bassa, mormorando delle lunghe giaculatorie; la terza, diceva il rosario di quindici poste, quietamente, seduta presso il gramo letto. Clementina Fanelli aveva battuto il piede pel dispetto e si era morsicate le belle labbra, sempre un po’ pallide: era una bionda molto scialba, dai capelli di un biondo cenere arruffati sulla fronte e alle tempie, dagli occhi di un azzurro biancastro, dal naso all’insù, con un’aria di freddezza, d’indolenza, di seccaggine, in tutta la persona alta e sottile. Vestiva bizzarramente, del resto, anche in casa, di chiaro, con un nastrino celeste al collo nudo, che si vedeva dall’apertura del vestito, malgrado si fosse in febbraio, con le maniche che appena oltrepassavano il gomito, coi capelli fermati da forcinelle di pastiglia, da pettinessine con brillantini falsi, con due grosse perle false alle orecchie. Ella fremeva per entrare in quella stanza di suora Giovanna e per potersi avvicinare al balcone del Vico Lungo Teatro Nuovo. Quel rosario non finiva, dunque, mai? Non potendo più stare ferma:

— Permettete! — disse alla zia, entrando, avvicinandosi al balcone tanto agognato.

Suor Giovanna non rispose. Guardò la nipote, il balcone e una espressione di tristezza e di confusione le si dipinse in viso: più lente, più fioche, si sgranarono le Ave Marie e i Pater sotto le sue dita, avvezze al trascorrere dei grani del rosario. Adesso, la nipote si era installata dietro i cristalli e fissava il balcone dirimpetto, nel vivace e rumoroso Vico Lungo Teatro Nuovo; dietro i cristalli, il giovanotto con cui ella amoreggiava, era fermo aspettandola al convegno. Si guardavano, si sorridevano: poi, una telegrafia vivace, di segni, di lettere alfabetiche, riprodotte con le dita, cominciò, mentre suor Giovanna della Croce, sospirando, aveva voltato la persona in là, per non vedere. Ma questo non bastava, a Clementina. Ella disse a sua zia:

— Scusate, zi monaca, ma debbo dire qualche cosa a Vincenzino. — E schiuse i cristalli, lasciando entrare il freddo di una giornata rigida di febbraio; si mise a parlare col giovanotto di rimpetto, che aveva aperto i cristalli, con voce moderata, dalla soglia del balcone. Come aveva cercato di non vedere, triste, imbarazzata, la vecchia monaca tentò di non ascoltare, e s’immerse in altre orazioni, sebbene avesse finito il rosario. Clementina cercava di parlare nitidamente, ma piano, e dal fondo della stanza suor Giovanna della Croce dovette, per forza, udire le ultime parole del colloquio d’amore:

— .... Stasera, stasera.

Clementina chiuse i cristalli, rientrò nella camera: dalla sua parte, il giovanotto era sparito. Animata e colorita, durante quella breve scena di amore, Clementina riprendeva, ora, il suo aspetto smorto, indifferente, annoiato. Si avviava per andarsene, quando la zia la chiamò:

— Clementina?

Zi monaca?

— Perchè, figlia mia, fai questo? — le domandò la vecchia suora, guardandola negli occhi, ma senza severità.

— Che cosa? — rispose la fanciulla subitamente scossa.

— Quest’amicizia.... con questo giovane.... — mormorò la monaca, che non voleva, per pudore, precisare bene.

— Non è amicizia, è amore, — dichiarò Clementina, impertinentemente. — Io voglio bene a Vincenzino, Vincenzino mi vuol bene, per questo lo faccio.

— Non sta bene, figliuola mia, non sta bene! — e crollò il capo, suor Giovanna.

— Perchè non sta bene? Tutto il mondo amoreggia, — continuò l’insolente Clementina.

— Non tutti, non tutti, figliuola mia.

— Voi non ne sapete niente, perchè siete monaca e siete vecchia. Tutto il mondo amoreggia e io pure. Tutte le mie amiche hanno l’innamorato, io che sono più bella di loro, anche lo ho.

— Non parlare così, — disse, piano, suor Giovanna della Croce, il cui volto pieno di rughe si andava covrendo di rossore.

— Io dico quello che penso, zi monaca. Sia maledetta la bugia! Sono ragazza e non debbo nascondere che amoreggio. Sono le donne maritate che lo debbono nascondere! — replicò sfrontatamente la fanciulla.

— Zitto, Clementina, zitto! — e la povera monaca, scandalizzata, fece atto di turarsi le orecchie.

— Le donne maritate anche fanno all’amore, se lo volete sapere, zi monaca. Ed è una vergogna, perchè si potrebbero stare al loro posto! La portinaia qui abbasso, ha per amante una guardia di pubblica sicurezza, che ogni sera viene a trovarla nel casotto; e Concetta gli fa trovare il caffè e il bicchiere di vino. È maritata o no, Concetta? Qua sopra, al secondo piano, l’avvocato de Gasperis ha una donna maritata che viene a trovarlo, due o tre volte la settimana, di notte, e se ne va la mattina. Io l’ho vista salire e scendere, e voi pure, eh! zi monaca, l’avete vista?...

— Gesù, Gesù, che scorno, una ragazza, parlare così! — esclamò la monaca che soffriva enormemente di quei discorsi.

— Eh, le ragazze capiscono tutto adesso! — gridò Clementina che era entrata in uno stato d’isterismo. — Le ragazze non sono più stupide come una volta, a tempi vostri, zi monaca! Foste stupida voi ad andare nelle sepolte vive, per mio papà che vi aveva tradito, per mammà che vi aveva rubato il fidanzato! Mammà ha fatto altro che questo, dopo....

Ma si fermò. La vecchia monaca si era levata in piedi, tremante, con le mani tese, chiedendo, imponendo silenzio alla creatura sfacciata, che gridava le brutali verità della vita. Clementina s’interruppe, balbettò:

— Scusate, zi monaca.... ho i nervi, oggi....

Fece per uscire, ma tornò indietro, e cavò una lettera, larga, dalla tasca.

— Mi sono scordata di darvi questa lettera che il postino ha portata.

E se ne andò subito, lasciando suor Giovanna della Croce in mezzo alla stanza, con quella larga lettera fra le mani. Un tremito mortale scuoteva le fibre della monaca; mentalmente, ella si raccomandava a Dio, perchè vincesse la sua confusione e il suo dolore. La ragazza aveva taciuto, era partita: un altro minuto ancora e la vecchia suora avrebbe pianto di umiliazione, di pudore offeso, di vergogna, innanzi a sua nipote. Così, non potette aprire subito quella lettera, tenendola nelle mani, distrattamente, quasi non vedendola, quasi essendosene dimenticata: si andò a gittare sulla sedia, nel vano del secondo balcone, quello che dava sul Vico Primo Consiglio, dirimpetto alla casa muta e cieca. Teneva curva la testa, curve le spalle: si sentiva piegata sotto un peso atroce, che lentamente la schiacciava. Restò così, qualche tempo. Poi, si rammentò la lettera. Guardò il francobollo timbrato; veniva da Roma; portava questo indirizzo: Signora Luisa Bevilacqua, già monaca nell’Ordine delle Sepolte Vive. L’aprì, la lesse. La lesse di nuovo, più piano, parola per parola. Il suo viso era diventato plumbeo e il capo era caduto sul petto.

Quando, un’ora dopo, Grazia Bevilacqua entrò nella stanza di sua sorella monaca, la trovò a quel posto solito, di fronte alla casa oscura e silenziosa. Suor Giovanna della Croce teneva il tombolo del merletto sulle ginocchia, ma non lavorava: le mani lunghe e magre erano abbandonate sul cuscino, coperto di tela verde. La monaca pareva assorta, niente altro.

La sorella, meno vecchia di lei di cinque o sei anni, non le rassomigliava. Era bionda e i suoi capelli erano tinti malamente, tanto che assumevano, qua e là, ombre verdastre: il viso era bianco e gonfio di un cattivo grasso: una costante espressione di malcontento torceva quella bocca, che era stata molto bella. Come sua figlia Clementina, Grazia indossava una vestaglia sgargiante, carica di nastrini, di ciuffetti, di cascate di merletto e portava dei braccialetti ai polsi: ma il corpo si deformava nella grassezza, rompeva la fascetta. Si sedette di fronte alla sorella monaca.

— Che fai? — le domandò, senza interesse e senza curiosità, tanto per entrare in discorso.

— Niente, — disse suor Giovanna, con voce fioca.

— Non ti senti bene? Vuoi qualche cosa? — replicò l’altra, con gelida premura.

— Grazie, non voglio nulla. Sto bene.

— Sei qui, sola sola, da molto tempo? Ho avuto tanto da fare io! Ho tanti guai, tanti guai!

— Nessuno è solo, in compagnia di Gesù e di Maria, — rispose la monaca, a voce bassa.

Tacquero. Si vedeva bene che Grazia Bevilacqua voleva dire qualche cosa d’importante alla sorella. La guardava: le bianche e flosce palpebre batterono sugli occhi azzurro-grigi che erano stati così belli e così perfidi.

— Luisa? — chiamò Grazia.

— Non mi chiamare così. Chiamami Giovanna, — soggiunse la monaca, scuotendosi.

— Come vuoi tu: Giovanna, Luisa, per me è tutt’uno. Purchè ti ricordi che mi sei sorella, mi basta!

La monaca, tratta dallo stato di stupore, in cui si trovava, levò gli occhi in viso alla sorella, improvvisamente attenta.

— Io sono in un mare di tristezze, Giovanna. Con quel poco che mi è restato, non giungo a far vivere la mia famiglia e me, che a stento; tu lo vedi. Non è colpa mia, credilo. Silvio, mio marito, si è divorato quasi tutto il suo avere e una parte della mia dote: io, è vero, ho voluto sempre figurare, mi è piaciuto di mostrarmi al mio grado, ma ti giuro che non ho sciupato molto....

— Perchè mi dici queste cose, Grazia? Io le so.

— Non le sai bene! Non le sai abbastanza! Sei monaca: queste cose del mondo, non le puoi capire perfettamente. Sono guai, sono guai grossi....

— Dio ti assista!

— Aiutati che ti aiuto, dice Dio! Se non marito Clementina con un giovane ricco, se non procuro una sposa ricca a Francesco, come faremo? Perciò porto in giro la ragazza, perciò faccio dei sacrifizii per far vestire bene Francesco: qualche buon partito, ricco, molto ricco, deve capitare, all’una, all’altro. E allora tutti saremo prosperi, felici, anche tu, Giovanna....

— Io chiedo al Signore la pace, — disse la suora con un profondo sospiro.

Grazia era inquieta, agitata, sulla sua sedia. Aveva fatto tutto quel preludio fra querulo e ipocrita, per venire a un fatto concreto.

— Per ora, sono nell’olio bollente, Giovanna. Debbo dare quattro mesi al padron di casa, cioè trecentosessanta lire, a novanta lire il mese, ed egli strepita per averle. Mi ha anche citato due volte: un giorno o l’altro, mi sequestra questi pochi mobili.

— Oh, Gesù!

— Così è. Non si vergogna di fare strepito per questa sua brutta casa, con l’inconveniente grave che vi è....

— Che cosa? — chiese, inconsciamente, la monaca.

— Nulla, — disse Grazia, cangiando discorso, dopo aver sogguardato dalla parte del Vico Primo Consiglio, verso la casa sbarrata e muta. — Alle corte, io ho cento lire da dare al padron di casa: ma non le vuole. Vuole tutto. Dammi tu le altre duecentosessanta lire ed esciamo di pena.

— Volentieri, Grazia, volentieri, — mormorò con voce umile suor Giovanna della Croce. — Ma non le ho.

— Non le hai? Non le hai? — esclamò, con un principio d’ira la sorella. — Come è possibile?

— Non le ho, purtroppo.

— E che ne hai fatto del tuo denaro?

— Quale denaro?

— Le mille lire! Qua non ti ho fatto pagare un soldo, di parte tua, in casa. Che ne hai fatto, di mille lire?

— Le ho spese, — disse semplicemente la monaca.

— Dove le hai spese? Mille lire, sono molte! — e la sua voce diventava furente nella delusione dell’avidità.

— .... così, un poco per volta.... le ho date a te.... a Francesco, molte, a Francesco....

— Qualche lira mi avrai dato: ed erano mille! Perchè le hai date a Francesco? Quanto gli avrai dato? Non hai più niente? — E la guardava, con gli occhi torbidi e stralunati, con la bocca gonfia che si torceva.

— Cinquanta o sessanta lire, niente altro, — disse suor Giovanna della Croce, lasciando cadere desolatamente le braccia.

— E stai fresca! Stiamo freschi! Cinquanta o sessanta lire, null’altro! E io che ti ho mantenuta, di casa e di vitto, come una signora! Io che me lo sono levato dalla bocca, per dartelo! Cinquanta lire! Te ne farai un cataplasma, di queste cinquanta lire: e io pure! Hai sciupato novecentocinquanta lire: e qui ci sfrattano dalla casa! Hai gittato il tuo denaro e se ti serve una tonaca, domani, chi te la fa? Se ti ci vuole un paio di scarpe, chi te le fa? Gittare questo denaro, così! Sempre una pazza sei stata, sempre, da quando ti andasti a far monaca per Silvio...!

Suor Giovanna della Croce sopportava in silenzio tutta la collera di sua sorella, raccomandandosi mentalmente a Dio, perchè le desse una pazienza sublime. Era vecchia, era stanca, era triste: ma il rinfaccio crudele della sua miseria e del suo abbandono, il rinfaccio del tetto e del cibo datole quasi in elemosina, e quel costante, perenne ricordo del suo amore per Silvio, facevano ardere il suo lento sangue di sessantenne. La sua mano stringeva il rosario cadente dalla cintura, convulsamente lo stringeva, come a reprimere ogni suo sentimento.

— E intanto, come si fa, ora! — gridò, novellamente, Grazia Bevilacqua. — Come si paga, questo padrone di casa? Abbiamo bisogno di vestiti per la primavera, dobbiamo comperare della biancheria, possiamo girare lacere? E questa egoista ha buttato mille lire! Come si fa? Ma tu, cuore ne hai? Gratitudine, ne provi? Che monaca sei? Solamente di Gesù Cristo, ti occupi? Quello sta bene, in Cielo! Pensiamo alla terra! Qua ci vuole un rimedio. Tu lo devi trovare. Ti ho tenuta un anno, in casa, gratis; tu devi trovare il modo di aiutarmi....

Suor Giovanna della Croce diede un’occhiata smarrita e desolata a sua sorella.

— Cerchiamo uno strozzino, facciamo un debito sulle tue ventimila lire, firma una cambiale.... — disse Grazia, che aveva pratica di questi espedienti.

— Quali ventimila lire? — disse la monaca, trasalendo.

— La dote! La dote! Quella che ti deve restituire il Governo e che tu, se hai viscere di donna, devi dare a me ed ai nepoti. La dote! Ventimila lire!

Allora, suor Giovanna della Croce levò la testa, chiuse un istante gli occhi e rispose:

— Io non ho più nulla.

— Come? Che dici?

— Dico che non ho nulla, — ripetette, fermamente, la monaca.

— Sei pazza! Sei pazza! Il Governo non ti deve ridare il tuo danaro?

— Il Governo non mi restituirà più niente, della mia dote!

— Chi te l’ha detto? Chi te l’ha detto?

Era spaventosa, di collera, di ansietà, di smarrimento, Grazia Bevilacqua.

— Me lo hanno scritto.

— Chi te lo ha scritto? Da dove?

— Ecco la lettera, — disse la monaca, dandola a sua sorella.

Dopo la lettura, affannosa, febbrile, della lettera, vi fu un lungo silenzio fra le due sorelle. Suor Giovanna della Croce non appariva turbata: l’altra era accasciata.

— Tutto è finito, dunque? — domandò Grazia.

— Tutto è finito.

— Che ti daranno al mese? Quarantuna lire?

— Sì, quarantuna lire, — rispose senz’altro suor Giovanna della Croce.

Di nuovo, silenzio.

— Con quarantuna lire, — riprese, assalita da un nuovo accesso di rabbia, Grazia Bevilacqua, — dovendo dormire, mangiare, vestirsi, calzarsi, vi è da star bene. Sei ricca, eh!

Suor Giovanna della Croce aprì le braccia con un cenno vago e largo.

— E che intendi di fare? — disse Grazia, con voce fischiante.

La sorella trasalì, la guardò.

— Io ho figli, ho poco denaro, non ti posso mantenere, — continuò Grazia, duramente, crudelmente. — Ho speso troppo, me ne pento, ma la cosa non può continuare. Le tue quarantuna lire non servono a nulla, in casa mia. Ci vuole altro. Che intendi di fare?

— Andarmene, — rispose, senz’altro, suor Giovanna della Croce.

— Meno male, che hai capito. Ti ho tenuta dieci mesi, nessuno mi può dire nulla. Le tue mille lire, le hai disperse. Chi ne ha visto un soldo? Le tue quarantuna lire, non le voglio. Più presto si risolve questa faccenda, meglio è!

— Andrò via domani, — replicò suor Giovanna della Croce.

Esclamando ancora, trascinando il passo, col viso stravolto e la bocca piena di fiele, Grazia Bevilacqua lasciò la stanza. Suor Giovanna della Croce aspettò, immobile, rigida, che la sorella fosse lontana, all’altro capo della casa. E quando fu certa di non essere udita, suor Giovanna della Croce crollò sul suo povero letto, singultando, dibattendosi, mordendo il cuscino, gridando fra i singhiozzi:

— Vergine dei Dolori! Vergine dei Dolori! Vergine dei Dolori!

*

Albeggiava. Il cielo d’inverno, purissimo, passava dall’azzurro nero, profondo e nitido della notte piena di scintillanti e trepide stelle, all’azzurro quasi bianco, uguale, quasi latteo dell’aurora d’inverno. Il silenzio grande della città, dormiente, ogni tanto era attraversato da un grido mattinale, ora lontano, ora vicino. La luce si diffondeva, limpida e cruda, dai cristalli chiusi dei due balconi, nella camera di suor Giovanna della Croce: ella non serrava mai le imposte per lunga abitudine conventuale, tutte le monache dovendo levarsi all’alba, per le preghiere del rito. L’ombra favorisce troppo il sonno, l’infingardaggine, i sogni e tutte le altre tentazioni della vita profana. La suora, quella notte, aveva avuto un riposo scarso e inquieto. Due o tre volte le era parso di udire del chiasso nel Vico Primo Consiglio, come qualche altra notte: voci irate, mescolate a grandi sghignazzamenti, una canzone di voce briaca, un ritornello di fischi e di grida. Con un moto di sgomento, ella aveva nascosto la testa sotto le coltri: le sue sempre più grandi tristezze, il suo rotolare infrenabile verso un precipizio di stenti e di miseria, la rendevano, oramai, più timida e più paurosa del giorno in cui era stata scacciata dal monastero di suor Orsola Benincasa. Di nuovo, però, il silenzio aveva dominato l’ambiente; e, nella stanza della monaca, non era restata che l’agitazione della sua anima in pena.

Pure, quella mattina, la consuetudine monacale la portò ai soliti atti di prostramenti, di preghiere, di parole e di gesti ripetuti mille volte, quando era nella calma, sepolcrale solitudine delle Trentatre, protetta dalle forti mura, simili a quelle di una tomba.

Ancora una volta ella doveva fare un povero fagotto delle sue poche robe e partire, cercando un asilo poverissimo, ove andare a vivere gli anni della sua già avanzante vecchiaia: ma, prima di accingersi a questa novella dipartita, meno straziante, forse, meno angosciata, poichè il cuore ha la lenta assuefazione al dolore, ma non meno piena di dubbi, di smarrimenti, di paure, suor Giovanna della Croce compì quanto ogni alba ella faceva, da quarant’anni. Certo, vi era alcun che di meccanico, di monotono, di esteriore, in tutto quel susseguirsi di gesti e di atti religiosi, di preci e di litanie, che si legavano l’uno all’altro, ma bene la fede li ha riuniti e li ha imposti, come un freno naturale a ogni orgasmo fisico, come esercizio, se non di elevamento, di pacificazione. Quando tutto ebbe finito, suor Giovanna della Croce andò in cucina, attraversando la casa in punta di piedi, per non risvegliare la sua avida e crudele sorella, i suoi sfrontati e duri nipoti. Con quell’abitudine sempre crescente della domesticità, della servilità, ella accese il fuoco nella cucina ancora immersa nella penombra, e mise a riscaldare un poco di caffè del giorno prima, in una cuccumetta di stagno. Era un peccato di gola, quel caffè: un bisogno di alimento nervoso, che gli anni e gli acciacchi avevano reso prepotente in lei. Anzi, per questo caffè alla mattina, il suo confessore le aveva fatto ottenere una dispensa ecclesiastica per ragioni di salute. Mentre il caffè si riscaldava, suor Giovanna della Croce lavò e asciugò le tazze che erano restate sporche, dal giorno prima.

Ora, il largo finestrone della sudicia cucina dava sul cortiletto del Palazzo Marinelli e si trovava di fronte al pianerottolo della scaletta: si vedeva la prima rampa di scale che conduceva alla casa abitata dalla famiglia Bevilacqua, e la seconda che conduceva a quella abitata dall’avvocato de Gasperis. La suora andava versando il caffè nella tazza lentamente, provando già un piacere in quell’aroma, quando udì un violento battere di porta, sopra, al secondo piano: la porta a vetri dell’avvocato de Gasperis si era richiusa con tanto fracasso da parere che tutti i cristalli andassero in frantumi. Suor Giovanna della Croce restò interdetta, bevendo il suo caffè, guardando, dal fondo della semioscura cucina, verso le scale.

Un uomo scendeva dal secondo piano, con passo rapido e deciso, col bavero del cappotto alzato, col cappello abbassato sugli occhi; e, intanto, pur si vedeva il volto di un uomo quarantenne, con una barbetta nera, l’aria tetra e truce, sparsa sovra un viso chiuso e freddo. Lentamente, trascinando i passi, come se andasse a morire, una donna lo seguiva, appoggiandosi al muro: era la donna che, due o tre volte, suor Giovanna della Croce aveva incontrato per le scale, salendole cautamente, con la veletta fitta che le nascondeva il viso, con la pelliccia stretta sulla persona. Adesso, ella aveva la pelliccia semplicemente gittata sulle spalle e le vesti un po’ discinte, sempre male abbottonate: portava la sua veletta in mano e mostrava un viso gracile, gentile, pallido, con un paio di occhi dolci, stralunati, una bocca fine e rosea come una tenue rosa. Mentre scendeva, taciturna, senza guardare gli scalini, silenziose lagrime le si disfacevano sulle guancie. Come ella rallentava il passo, quasi non volendo, quasi non potendo più camminare, due volte l’uomo dal viso tetro si era voltato a guardarla fieramente, e un amaro sorriso si era disegnato sulle sue labbra. Subito, la donna aveva cercato di affrettarsi. Discesero, sparvero. E, malgrado il suo candore di vecchia suora, sparita dal mondo a venti anni, prima di nulla conoscere, suor Giovanna della Croce comprese che quell’uomo era il marito di quella donna e che quella donna, sorpresa nel peccato, andava forse al più lungo e atroce martirio, forse alla più vicina morte. Suor Giovanna della Croce si segnò.

Quando ritornò in camera sua, sempre camminando pianissimo, ebbe un movimento di decisione. Doveva andar via, in quel giorno, più tardi, non sapeva dove, ma doveva andare. Rilesse la lettera del Ministero dell’Interno, con cui le si comunicava che, secondo la legge sulle corporazioni religiose, legge citata in due o tre articoli, ella non aveva altro diritto che a percepire una pensione mensile di lire quarantuna, pagabile ogni mese, a Napoli, all’Ufficio dei Beneficii Vacanti; e che si fosse presentata per ritirare i suoi documenti certificativi, per poi, ogni ventisette del mese, avere il suo assegno. Ora, quel giorno era il venti febbraio. Suor Giovanna della Croce aprì un portafogli e contò il denaro che le restava delle mille lire che sua sorella e i suoi nipoti si erano venuti divorando man mano: non aveva che cinquantasette lire. Ella non aveva che una scarsa idea di quello che costava il cibo di una persona, avendo tutto dimenticato, in quei quarant’anni, e nulla avendo appreso o molto poco, in quei dieci mesi di permanenza, in casa di sua sorella; non aveva nessuna idea di quello che costasse un alloggio, una camera, in qualunque posto. Ripose la lettera fatale e il suo denaro nel portafogli. Sarebbe andata, infine: non sapeva e non voleva altro.

Si guardò attorno. Malgrado che ne fosse stata ospite per quasi un anno, ella non amava quella camera di casa borghese, a quel primo piano basso, dove salivano tutti i rumori, tutte le voci rudi della via e le parolacce e le bestemmie e gli odori nauseanti e l’alito vizioso di una via cittadina, abitata da gente fra povera e corrotta, fra misera e feroce. La camera era solinga e nuda, invero: ma la strada vi arrivava, vi entrava, con tutte le sue cose brutte, nelle persone, nei loro atti, nei loro detti. No, non aveva amato nulla di quella stanza; forse era ingrata, poichè vi aveva avuto dei lunghi momenti di quiete e di raccoglimento: non vi aveva amato nulla, poichè l’ospitalità che le aveva dato, non era stata basata sulla tenerezza e sulla pietà, ma sul calcolo più laido e sull’avidità più sfacciata. Sì, era stata ricoverata, lì: ma le avevano elargito il ricovero solo per derubarla, man mano, del suo avere presente, solo per spogliarla di una ipotetica somma di denaro avvenire. Forse, era ingrata. Ma la sorella, i nipoti non le avean tutto tolto e, ora che non aveva più nulla, non la cacciavano via? Non poteva, dunque, amare quella stanza.

Pure, quando andò a prendere il suo tombolo dove era fissata, con gli spilli, la sottile trina cui stava lavorando, quando volle mettere il tombolo nel suo fagottello, ebbe un sospiro breve di rimpianto per quel vano di balcone, dove aveva trascorso molte ore in contemplazione, in assorbimento. Sempre quella casa muta e cieca, dirimpetto, aveva prodotto su lei un effetto di pace: non so come, qualche volta, le era parso che quella muraglia fosse quella di un convento, quelle gelosie le gelosie, di un convento, sempre sbarrate. Infine, sì, avrebbe rimpianto quel piccolo spazio ove ella aveva pensato, pregato, lavorato, seduta sulla sedia di paglia, coi piedi appoggiati sui cannelli dell’altra sedia, tenendo sulle ginocchia o il libro di devozioni, o il rosario, o il tombolo.

Quando mai un’anima, in quelle ore diurne, era passata per quella viottola, da cui il suo balcone non era più alto di quattro metri? Colà, ella aveva goduto una tranquillità perfetta.

Eppure, con sua sorpresa, in quell’alba che già cedeva il posto al giorno, ella vide una persona all’angolo del Vico Primo Consiglio. Veramente costui stava un po’ dietro lo spigolo del muro, appoggiato ad esso, in attitudine di attesa. Era un giovanotto che di poco poteva avere oltrepassato i venti anni, non alto, smilzo, imberbe, col viso biancastro, dagli zigomi sporgenti. Vestiva come un operaio pulito, con un par di pantaloni giallastri, stretti al ginocchio, larghi al collo del piede, con una giacchetta azzurro-cupa, molto serrata alla persona e di cui teneva il bavero alzato per il freddo: in testa un cappelletto a falde strette, messo a sghimbescio. Un mozzicone di sigaro, spento, nero, pendeva dall’angolo della sua bocca ed egli teneva le mani in tasca, come per riscaldarle. Infatti, il freddo era vivissimo, tagliente. Dietro i cristalli, guardando curiosamente il giovanotto, suor Giovanna della Croce ebbe un brivido dentro le sue lane nere, che male la proteggevano contro il rigore della tramontana. Non passava alcuno, neppure più giù, verso il Vico Lungo Gelso, neppure verso la più larga Via Speranzella, sempre animata: anche il Vico Lungo Teatro Nuovo era deserto. L’ora e il freddo glaciale prolungavano il sonno, anche dei più mattinieri. Così, in quell’angolo, non vi erano che quel giovane appoggiato al muro, con la espressione di una paziente e sicura attesa sulla faccia, e la monaca, su, dietro i suoi cristalli, con una misteriosa curiosità nell’anima. Ella lo vedeva benissimo; egli non poteva vederla. Del resto, il giovanotto, ogni tanto, sogguardava verso la casa oscura e silenziosa che si ergeva, a un piano soltanto, dirimpetto al balcone di suor Giovanna della Croce; sogguardava, come se cercasse di penetrare, miracolosamente, dietro le gelosie ermeticamente chiuse, tutte polverose, per non essere state scosse e aperte, da tempo immemorabile: e sogguardava, anche, verso quel portoncino sempre aperto, in cui, mai, nella giornata, suor Giovanna della Croce aveva visto entrare o uscirne alcuno. E sogguardava così attentamente, con tanta intensità nel suo viso bianco di ventenne, con tale fissità di sguardo, che la suora si sentì rabbrividire, a un tratto, non solo di freddo, ma di paura.

Ella cercò sottrarsi a quella curiosità infantile che, costantemente, vinceva il suo spirito di monaca che nulla aveva visto, che nulla aveva saputo della vita: cercò vincere quel desiderio di vedere e di conoscere, così fanciullesco: si allontanò dal balcone, girò per la sua stanza, volendo ritrovar tutti i suoi libri sacri, opuscoletti, foglietti volanti, figurine di santi, dietro le quali erano stampate delle speciali preghiere; volendo raccogliere tutti i suoi scapolari, gli abitini, tutte quelle minuzie della religione, di cui le suore formano un pascolo al loro semplice cuore. Ma, dopo un poco, quando tutto fu raccolto e messo in un panno bianco e fermato con gli spilli, ella ritornò al balcone. Il giovanotto era ancora dietro il suo angolo, ad aspettare. Adesso, però, suor Giovanna della Croce osservò un particolare anche più strano: quel giovanotto si nascondeva, lì dietro: stava appostato. Di fatti, era passato di lì il caffettiere ambulante, con un bracierino portatile pieno di carboncini accesi su cui si reggevano le caffettiere, e una serie di tazzine infilate alle dita dell’altra mano: appena il giovanotto lo aveva visto, si era messo subito a fischiettare, come un essere spensierato e gaio, e mossosi dal suo posto, aveva fatto dei passi per allontanarsi, scantonando verso Magnocavallo. Quando il caffettiere, emesso il suo grido tradizionale, ebbe imboccato la Via Formale, quando fu sparito in quelle lontananze, il giovanotto dal viso imberbe e la persona smilza era venuto, in fretta, ma con cautela, di nuovo ad appostarsi al cantone del Vico Primo Consiglio. Suor Giovanna della Croce, rivedendolo, ebbe nello spirito, un novello, più forte brivido di paura. Quegli, oramai, non distoglieva più gli occhi dal portoncino: sugli zigomi scarni, sulla pelle biancastra, il freddo aveva fatto salire due macchie rosse. E la suora si mise a guardare anche lei, involontariamente, verso il portoncino aperto.

Passò ancora un terzo d’ora. Il giovanotto quasi tutto nascosto dal muro, piegato in due, spingendo innanzi solo la testa, anzi solo la fronte e gli occhi per vedere, pareva un animale che concentrasse tutte le sue forze, per spiccare un salto feroce e afferrare la preda. La monaca, in preda a una paura sempre più affannosa, non dubitava più che quello sconosciuto non fosse lì, animato da una intenzione oscura ma terribile: pure ella non poteva nè comprendere, nè prevedere. Addossata allo stipite bianco del balcone, anche ella si era tirata indietro, temendo che quegli la scorgesse, mentre ella lo spiava e sporgeva solo il capo per osservare il portoncino.

Un uomo apparve, infine, su quella soglia: un bel giovane alto, aitante della persona, vestito con l’uniforme dei Reali Equipaggi, col largo colletto azzurro aperto al collo, il fazzoletto a cravatta di seta nera, e il berretto di marinaio abbassato un poco sulla fronte. Sulla soglia egli s’arrestò: non per guardare, poichè aveva l’aspetto tranquillo e securo, ma per respirare largamente, lungamente, come chi ha passato troppe ore in un ambiente chiuso e soffocante. Poi si avviò, con passo fermo, scendendo il Vico Primo Consiglio, dondolandosi un poco, come fanno tutti i marinai: non guardava nè a destra, nè a sinistra, andava innanzi, sempre diritto. Il giovanotto appostato non aveva fatto che un solo gesto, cioè cavata la mano destra dalla tasca: aveva lasciato passare il forte marinaio, che non si era accorto di lui, ma non aveva costui fatto tre passi più oltre, che lo aveva raggiunto con un salto da tigre e gli si era aggrappato alle spalle. Senza gridare, senza reagire, il marinaio cadde, di un tratto, a terra, lungo disteso, supino, con un coltello nel petto: il giovanotto si chinò un minuto, poi fuggì verso le Chianche della Carità: sparve.

Un orribile grido di terrore era uscito dal petto di suor Giovanna della Croce; ma, nello stesso tempo in cui l’aggressione e l’assassinio erano accaduti, in quell’attimo rapidissimo, una mano convulsa aveva fatto scrollare, sette od otto volte, le gelosie del balcone dirimpetto che, sotto l’urto, si erano dischiuse, rompendo la catena di ferro che le teneva unite: una donna era apparsa, curvandosi sul balcone, interrogando le vie, intorno. E, poichè il marinaio giaceva lungo disteso, quindici passi lontano dal portoncino, con un fiotto di sangue che sgorgava dalla ferita, gli intrideva i panni e si allargava in una pozza, sul lastrico, col viso già bianco e gli occhi socchiusi, la donna si mise a urlare, a urlare, a urlare:

— Gennarino, Gennarino, Gennarino!

Altre donne apparvero a quel balcone e visto l’assassinato, cominciarono a gridare, anche esse: delle altre finestre si aprirono. La donna urlava, urlava, urlava:

— Gennarino, Gennarino, Gennarino!

Era una giovane, con una vestaglia di seta gialla, tutta a fiocchi rossi, gittata sovra la sola camicia di seta lilla: i piedi erano nudi nelle pianelle di velluto nero, a tacco alto; le guance erano cariche di rossetto e gli occhi tinti di nero: i capelli neri formavano un alto casco, lucido di pomata: la fisonomia era piacente, ma volgare. E le altre donne erano in vestaglie vistose, in maniche di camicia e sottane di seta, tutte a merletti, e calzate di seta nera: alcune discinte e spettinate: altre con gli occhi imbambolati. Tutte gridavano, rovesciandosi sui ferri del balcone: quella in mezzo, si disperava, urlando:

— Gennarino, Gennarino, Gennarino!

Suor Giovanna della Croce vide tutto questo e vide anche due uomini uscire rapidamente dal portoncino, scantonare, inavvertiti, verso Via Settedolori, e vide, mentre le donne gridavano al soccorso, dal balcone aperto, una grande stanza a divani rossi, a specchi dalle cornici dorate; e a malgrado la sua ignoranza, la sua innocenza, la sua cecità, ella comprese in un baleno, quanto vi era di sozzo, d’immondo, di orrendo, in quello spettacolo; e, per la vergogna, per la nausea, per l’orrore, cadde indietro, sulla terra, come se morisse.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.