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III.
Bussarono alla porta della stanzetta, leggermente.
— Entrate, — rispose suor Giovanna della Croce, a bassa voce, sciogliendo le mani dal suo rosario.
Entrò donna Costanza de Dominicis, la vedova salernitana, che affittava, per dodici lire al mese, quella stanzetta alla monaca. Era una magra, magrissima donna di cinquant’anni, alta, con certe grosse mani, certi grossi piedi, coi capelli bizzarramente bigiastri a striscie bianche, piantati bassi sulla fronte, tirati alla contadinesca, dalle tempie, sul mezzo del capo, in un mazzocchio: e un viso brunastro, dalla pelle arida e rugosa, dalla bocca grande e pallida sui denti giallastri: bruttissima, infine, ma con un paio di occhi vividi, ove brillava la bontà umana. Portava un vestito oscuro di stoffa di cotone, azzurro cupo, tagliato alla foggia cittadina, ne aveva il grembiule nero e il fazzoletto fiorato al collo, delle contadine.
— Zi monaca, non siete venuta a riscaldare il vostro latte, stamattina?
— No, — disse suor Giovanna della Croce, a voce bassa, — non l’ho preso, dal capraio.
— Perchè? Per qualche astinenza, forse?
— No, no, — replicò subito la vecchia monaca che aveva orrore della bugia, — non è per un’astinenza. Così.... non l’ho preso...
Un silenzio seguì. Donna Costanza guardò bene suor Giovanna della Croce e nello scarno viso della monaca, su cui l’aggravarsi degli anni, i patimenti morali e anche quelli fisici avevano segnato dei solchi anche più profondi, in quel volto che si affilava, in quelle palpebre bluastre che si abbassavano sugli occhi, su quella fronte dove erano segnate le rughe, sempre più marcate del doloroso stupore, le parve vedersi diffondere un rossore.
— Suor Giovanna, perchè non dite la verità? A chi la volete nascondere? Di chi vi vergognate? Non sono io povera, come voi? Voi non avete comprato il latte, perchè non avevate soldi, — concluse, con voce irritata, ma affettuosa, donna Costanza.
— .... — già, — mormorò la povera monaca. — Qualche soldo l’ho ancora. Ma se voglio vivere sino ai ventisette del mese, debbo far molta economia.
— Cioè, volete restar digiuna? Allora, fate una economia completa, andatevene all’altro mondo.
— Dio volesse! — sospirò suor Giovanna della Croce.
Come mutata, come mutata! La sua persona alta si era curvata, nelle spalle, in segno di caducità servile; le mani brune e lunghe si erano disseccate e vi apparivano molto turgide le vene violacee, e, talvolta, un lieve tremore le agitava, queste mani. Anche i suoi panni di monaca avevano sentito il tempo che era passato: la sua tonaca nera aveva, nelle sue pieghe, i riflessi verdastri della stoffa nera che si scolorisce; per non consumare il suo grande mantello nero, l’emblema più espressivo della sua dignità di Sepolta Viva, non lo indossava che per uscire, e intanto, mentre il manto era sospeso a un appiccapanni, contro il muro, le pareva sempre di aver freddo, di non esser completamente vestita: le sue candide bende, il suo candido goletto, non avendone ella che tre da cambiarne, troppo spesso lavati e in casa, con acqua e sapone, non avevano più il biancore immacolato, non reggevano l’insaldatura, erano giallastri, flosci, non assestavano. Il cappuccio nero, rigettato sulle spalle, pendeva, anche tutto sciupato, arrotolandosi agli orli, sfrangiandosi. Invano, le industri mani di suor Giovanna avevano cercato di riparare a questa crescente decadenza dei suoi panni: li portava da troppi anni e non li aveva potuti rinnovare e li vedeva deperire tristemente intorno a sè, disperdendosi così gli ultimi segni della sua vita monacale. Come mutata, come mutata!
— Zi monaca, voi dovete decidervi a fare qualche cosa, — rispose bruscamente donna Costanza. — Come volete tirare avanti, in questo modo?
— Decidere a che?
— Cercare di guadagnare qualche lira. Con quarantuna lire al mese, vi è impossibile di vivere.
— Lo so, — rispose la monaca, malinconicamente. — Non sono neanche quarantuna, sono trentotto e mezzo con la ritenuta della ricchezza mobile.
— Che governo porco! Anche la ritenuta! Che ricchezza mobile! Questa è miseria stabile! Bisogna decidersi a lavorare, suor Giovanna.
— E sono pronta. Ma che debbo fare? Mettermi a servire? Sono vecchia, è difficile che mi prendano. Anche, con questi vestiti, vi è chi mi guarda con gli occhi storti. Non vi è più religione, donna Costanza mia. Chi si burla di me, chi mi ritiene per iettatrice, chi per una falsa monaca.... Oh, non sapete, non sapete niente!
E un singhiozzo, senza lacrime, le ruppe la voce.
— Non potreste vendere quei merletti che tessete?
— Ne vogliono dar pochi soldi. E non conosco nessuno. Per la via, vi sono merlettaie che li vanno offrendo: e io mi vergogno di far questo, con questi panni. E chi me li compra, qui?
— Non ne vendeste qualche metro, due o tre mesi fa, alla signorina del secondo piano?
— .... Sì, sì, mi dette dieci lire, per otto metri. Ci avevo lavorato per tanto tempo! Ma dieci lire, donna Costanza, sono dieci lire e mi fecero gran bene. Potessi ora farmi una tonica, comprarmi un po’ di mussola per queste bende! Io chieggo perdono ogni giorno a Gesù, per queste vesti di monaca, che non si riconoscono più. Ah, non dovrei mangiare, dovrei digiunare e farmi le vesti sacre! che scorno, che scorno!
E la misera vecchia suora si celò il viso fra le mani. In piedi, la rude salernitana la guardava, e il suo orrendo viso si contraeva di emozione, mentre i suoi occhi buoni si velavano di lacrime.
— Non avete del merletto, ancora, suor Giovanna?
— Sì, ne ho, tanto da mettere attorno a quattro foderette e a un lenzuolo grande. Non è una gran cosa, poichè i miei occhi non mi aiutano molto, più: ma fa buona figura.
— E perchè non glielo portate, questo merletto, alla signorina del secondo piano?
Suor Giovanna guardò la sua padrona di casa, esitando; e abbassò la testa, senza rispondere.
— Vi vergognate del vostro bisogno? O vi fate scrupolo di andare da quella ragazza?
— .... per le due cose, — balbettò la vecchia suora.
— In quanto alla vergogna, smettetela. Tutti siamo poveri. Lo sapete come stentiamo, mio figlio ed io, con la borsa che gli fa la provincia di Salerno, per studiare medicina. Se non fossi venuta io, qua, non avrebbe mai potuto vivere, povero figlio mio! Io fo la spesa, cucino, pulisco la casa, lavo, stiro, dalla mattina alla sera: se no, quelle poche lire, come basterebbero? E non mi vergognerei, se dovessi portare in giro dei merletti da vendere!
— Avete ragione: questa vergogna è atto di superbia, — mormorò la suora. — Ma il denaro di quella ragazza....
— Forse, non avete torto. Ma che ci volete fare? A ogni peccato misericordia! Cristo non ha perdonato alla Maddalena? E voi, non le volete perdonare?
— Oh, io sono una umile cristiana, niente altro, non posso giudicare nessuno, tutti abbiamo peccato. Gli è che quel denaro, quel denaro....
— Eh, alla fine, quella vive con un giovane, come se fosse sua moglie, non riceve nessuno, non esce, fa una vita di schiava, infelice! Io la compatisco, che credete? Sulle prime mi seccavo per Errico, mio figlio, che vi fosse questa bella giovane, questa tentazione, nel palazzo! Ebbene, il mio ragazzo fa una vita così di studio e quella così di reclusa, che non si saranno mai incontrati. Andateci, andateci. Se no, come fate? Quante lire avete, per finire il mese?
— Quattro, — disse angosciosamente suor Giovanna.
— E ne abbiamo venti del mese! Ci vogliono sette giorni per esigere la pensione. Andate, andate su, suor Giovanna della Croce, fate la volontà di Dio.
— Andrò, — disse la suora, mostrandosi più curva ancora, mentre un vivo tremito le scuoteva le mani.
La valorosa donna Costanza, contenta della sua opera, voltò le spalle e uscì. Doveva ancora spazzare tutto il piccolo quartino, in quel primo piano, al Vico Rosario Portamedina, quattro stanzette che costavano quarantacinque lire il mese e di cui era costretta ad affittarne una, per aiutarsi. Ella era la madre, la innamorata, la serva, la schiava del suo figliuolo, uno studente medico, che aveva già ventitrè anni, un giovanottone venuto dalla vanga e che era giunto ad elevarsi per mezzo di una volontà tenace, ardente, dalla scuola elementare al ginnasio, al liceo, all’Università, avendo sempre pieni voti assoluti, guadagnando sempre le sue tasse scolastiche, finendo per avere una borsa per mantenersi a Napoli, durante gli anni di Università.
Brutto, forte, rude, Enrico de Dominicis somigliava perfettamente al suo dragone di madre: ed era un figliuolo tenerissimo, promettendo a sua madre di arricchirla, quando si fosse laureato in medicina. In quell’anno, si laureava.
Il sussidio della Provincia di Salerno finiva: ma egli si laureava, non importava nulla! E la coraggiosa madre e il coraggioso figliuolo vivevano una vita aspra e austera, uniti in affetto profondo che ne elevava le anime semplici e un po’ grossolane.
Sospirando, suor Giovanna della Croce prese la scatola di cartone, dove chiudeva i suoi merletti da vendere: si mise sulle spalle il mantello, si assoggettò il grande rosario alla cintura e, fattosi il segno della croce, uscì dalla casa e salì la scala del secondo piano, lentamente. Sulla porta chiusa, vi era una lucida placchetta di ottone, su cui era inciso: Concetta Guadagno. Una cameriera, vestita di nero, col grembiule bianco, venne ad aprire, ma con atto diffidente tenne la porta socchiusa.
— Volete dire alla padrona che vi è la monaca del primo piano? — balbettò la vecchia suora.
— Aspettate, — disse la cameriera, lasciandola fuori la porta.
Ma ritornò subito.
— Venite pure. La signorina è da questa parte.
Le quattro stanzette erano mobiliate con un certo lusso di paccottiglia, molto pretenzioso, con certe false tende turche, con certi ventagli di carta giapponesi alle pareti, con certi lumi a sospensione di falso bronzo dorato. Un odore di papier d’Arménie bruciato fluttuava nell’aria, nell’anticameretta. La signorina Concetta Guadagno era nel suo salotto, tutto mobigliato di una bourrette gialla e rossa, con fiori celesti; era distesa sovra una poltrona a sdraio e leggeva un romanzo di Montépin. Era una bella giovane, venticinquenne, bionda, bianca, rotondetta, con certi capelli biondi ricciuti che le nimbavano la fronte; portava una vestaglia di lana leggera celeste, con merletti bianchi, e certe babbucce turche, rosse, ricamate in oro. Il salotto era in penombra; le tendine bianche erano abbassate fra le tende di bourrette.
— Oh zi monaca mia, come avete fatto bene a venirmi a trovare, — disse, con una voce un po’ velata, un po’ roca, Concetta Guadagno.
E si sollevò, stese la mano per prendere la mano della monaca e baciarla. Costei, umilmente, la ritrasse.
— Sedetevi, sedetevi, zi monaca, fatemi compagnia. Io sono sempre sola, — disse la giovane donna, con un lieve sospiro.
La monaca sedette: non osava aprir bocca, stringendo la sua scatola di cartone, sotto il braccio.
— Ciccillo non ha mai ora, — disse Concetta, con una frase popolare napoletana. — Talvolta capita due, tre volte al giorno; talvolta resta due ore, talvolta un minuto.... Non si può calcolare....
— E perchè fa questo? — chiese la povera suor Giovanna della Croce, per dire qualche cosa.
— Perchè è geloso, — replicò subito la ragazza, felice di confidarsi. È tremendamente geloso. Mi crede capace di tutto, zi monaca mia, è un morire!
— Mentre voi siete così buona!
— Sono buona, adesso. Prima, non ero buona. Voi siete monaca, non potete capire. Sono brutti peccati, non ve li posso dire, vi scandalizzereste. Io vivevo nella perdizione, non per mia colpa: ero una stupida, da giovanetta, non vi posso dire tutto. Portate questa santa veste, che Dio ve la benedica! Ha ragione quando mi sospetta e mi fa le scene.... ero una perduta....
— Vi grida spesso?
— Molto spesso. Talvolta mi batte, — disse, a bassa voce, Concetta Guadagno.
— Ma voi non gliene date ragione?
— No. Sono innocente. Ma mi batte per gelosia. Io accetto tutto. Che debbo fare? Gli voglio bene, gli sono grata di quanto ha fatto e fa per me. Non vedete? Vivo come una signora: mangio, bevo, dormo, sono servita. Prima.... non mangiavo sempre e dormivo quando potevo. È cattivo, è furioso, ma io non mi difendo.
— Vi vuol bene e vi maltratta?
— Il maltrattamento è prova di bene, zi monaca, — disse filosoficamente la ragazza.
— E perchè non vi fate sposare? — disse candidamente la povera vecchia monaca.
— Sposare? Sposare? Voi che mai dite! — e rideva, rideva, di un bel riso perlato, Concetta Guadagno.
— Per togliervi dal peccato, figliuola mia, — mormorò la suora.
— E qual peccato? Io non fo male a nessuno, zi monaca. Ciccillo mi vuol bene, mi fa vivere come una signora e mi basta.
— Per assicurarvi l’avvenire, figliuola mia, — replicò suor Giovanna della Croce.
— Oh! — esclamò quella, con voce un po’ trepida. — In questo, avete ragione. Non si può mai esser certi di nulla, a questo mondo!
E malgrado la penombra, suor Giovanna della Croce vide che la povera donna era diventata pallida sotto la sua cipria.
— Sì, qualche volta penso che Ciccillo mi possa lasciare. Anzi, vi penso spesso. Quando ritarda, quando resta un giorno senza venire, quando è silenzioso, quando è di cattivo umore, vi penso e mi tormento, zi monaca!
Tutta la beltà bionda, fresca e lieta di Concetta Guadagno era conturbata, ora, da una tristezza: i suoi occhi cilestri si erano come sbiancati; la sua bocca tumida aveva il gonfiore delle lagrime imminenti.
— Non vi crucciate, figliuola mia, — disse vagamente la monaca, pentita di aver messo quel discorso.
— Sì, mi debbo crucciare. Sono così quieta, contenta, felice, in questa casa, dove non mi manca niente. Se sapeste che ho sofferto prima. Che orrore, Dio mio, che orrore! Se Ciccillo mi lasciasse, che ne avverrebbe di me?
— Se vi vuol bene....
— Mi vuol bene.... mi vuol bene.... ma vi sono tante altre donne, che egli vede e che gli piacciono certo.... ma la sua famiglia mi è contraria.... che ne so, io, se mi vuol bene?
— Bella mia, raccomandatevi a Dio, — disse la monaca, non sapendo dire altro.
— È vero, è vero! Dio mi deve aiutare. Mi debbo mettere nelle sue mani, suor Giovanna mia. Voi siete un’anima santa, assistetemi pure voi. Facciamo dire una messa, due messe, non vi pare?
— A che scopo, figlia mia? — chiese la monaca tutta stupita.
— Per raccomandarmi al Signore, che Cicillo non mi lasci. Io sono persa, capite, se mi lascia. Due messe: una allo Eterno Padre, di Santa Chiara, perchè vi andavo sempre, quando ero piccola e abitavo a San Sebastiano: una a Santa Maria Egiziaca, che ne sono tanto devota, di Santa Maria Egiziaca; è stata una peccatrice penitente, come me!
— Ma che gli dico, al parroco? Io non gli posso dire la vostra necessità.
— La sa Iddio, la mia necessità. Dite: secondo l’intenzione di una devota peccatrice. E date cinque lire di elemosina, per ogni messa. Giusto, domani è domenica. Ci dovete andare oggi.
— Come volete, come volete, — disse umilmente suor Giovanna della Croce. — Per qualunque cosa, mettiamoci nelle mani del Signore.
— Sì, sì. Esso deve inspirare a Cicillo di non lasciarmi mai. Le messe, le messe, ne farò dire anche delle altre, sorella mia!
— Recitate il rosario, ogni sera, — mormorò teneramente suor Giovanna della Croce.
— Lo recito, lo recito sempre! Me lo dicevo anche allora, figuratevi! Io ci credo tanto! Sono così buona, ora mi faccio il fatto mio, non vedo nessuno, Dio non mi deve togliere Ciccillo.
— Dio vi aiuterà, — finì per dire la monaca, trascinata da quel sentimento vero di sgomento e di tristezza.
— Io vado a prendervi le dieci lire, — disse la giovane donna, levandosi. — Ma, aspettate, voi siete venuta per qualche cosa? Che volevate? Che portate sotto il mantello?
E con la facilità, la bonomia, la semplicità di una creatura buona, Concetta Guadagno prese la scatola, la schiuse, osservò curiosamente i merletti.
— È un letto, è vero?
— Sì, è la guarnizione di un lenzuolo e di quattro foderette.
— Io non sono maritata, ma non importa; mi servirà di augurio. Non posso darvi molto, suor Giovanna, come vi meritate....
— Quel che volete, — mormorò la suora, le cui mani, adesso, tremavano, come tremava la voce.
— Una ventina di lire basteranno? È poco. Lo so. Contentatevi, se no, dovete andar girando. Contentatevi.
— Mi contento di tutto. Ve le donerei, se non avessi bisogno, poichè siete devota e buona. Ma io sono assai povera....
Già Concetta Guadagno tornava con un portafoglio di cuoio rosso, da cui cavò le trenta lire.
— Ho qualche soldo da parte, — ella parlò, come a sè stessa; — ma se Cicillo mi lascia, non potrò andare avanti che uno o due anni....
— Poveretta, poveretta.... — disse la suora, con voce fievole.
Questa volta, Concetta Guadagno arrivò a prendere fra le sue manine bianche e molli di donna bionda, profumate di opoponax, la mano magra, rugosa, di suor Giovanna della Croce, e a baciarla.
*
La malata emise un lievissimo sospiro dal suo letto. Suor Giovanna si levò dalla sedia dove vegliava e si chinò sul letto.
— Volete qualche cosa?
— Un po’ di acqua da bere.
La monaca prese un grande bicchiere d’acqua, dove nuotava un grosso pezzo di pane abbrustolito, versò di quest’acqua in un cucchiaio da zuppa e lo intromise nelle labbra schiuse della inferma. Costei non aveva avuto la forza neanche di sollevare la testa dall’origliere.
Spossata, esausta da una spaventosa emorragia, dopo un parto travagliosissimo, giaceva lungo distesa, con un sol cuscino sotto il capo, con le ginocchia sollevate, a impedire anche meccanicamente, in quella posizione, che una novella emorragia, certamente mortale, sopravvenisse. La puerpera era la signora Maria Laterza, abitante al terzo piano di quel palazzo, nel Vico Rosario Portamedina: al secondo piano abitava sempre Concettina Guadagno e al primo donna Costanza de Dominicis con suor Giovanna della Croce. Era una donnina magra e fine, Maria Laterza; con un gran mucchio di capelli castani che pareva le tirassero la pelle dal volto e la estenuassero, una donnina di trentaquattro anni, moglie di un impiegato al Banco di Napoli, non poveri, quei due, non ricchi, ma che si sapevano regolar bene sulle duecentottanta lire che riunivano, da un po’ di dote della moglie e dallo stipendio del marito. Fortunatamente, per dieci anni di matrimonio, non avevano avuto figliuoli, e con la gracilità della salute di Maria Laterza, con i loro modici mezzi, avevano finito per esser contenti di questa mancanza di prole. Anzi, facevano anche qualche piccola economia, essendo in due, con una servetta che aiutava alla cucina la signora. A un tratto, Maria Laterza, in preda a uno sgomento invincibile, si era accorta di essere incinta: e tutto il tempo della gravidanza era passato fra atroci sofferenze fisiche, per tutte le paure della morte che colpiscono le gestanti, per le paure di tutte le complicazioni finanziarie che sarebbero derivate dalla nascita di questo figlio non invocato, non aspettato. La tenue creatura aveva sofferto due giorni interi nel parto di un piccolo neonato, gracile, fine, con una finissima e abbondante capellatura castana, come quella della madre: nelle ultime ore, ella pareva che morisse. E una perdita di sangue enorme era succeduta al parto. Maria Laterza non era stata salvata che dal coraggio e dalla freddezza d’animo del chirurgo che l’assisteva, mentre il povero marito, in piedi da due giorni, disfatto, stralunato, batteva i denti dal terrore ed era inetto a qualunque aiuto. Nel frattempo era giunta una balia, poichè mai Maria Laterza avrebbe potuto nutrire la sua creatura, anche se avesse avuto un parto felice: e si era installata nella stanza seguente, facendosi servire a bacchetta dalla piccola serva sbalordita. Il chirurgo aveva dichiarato che per tutto il puerperio, almeno per venti giorni, la malata aveva bisogno di una infermiera, di una monaca, ogni atto dell’inferma doveva esser sorvegliato, un nulla la poteva gittare di nuovo alla morte, il pericolo di una novella emoraggia non era escluso. Il povero marito che vedeva già tutto il disastro finanziario di quella malattia, aveva subito pensato, poichè vi era una monaca nel palazzo e poichè si sapeva che era poverissima, che costei, che suor Giovanna della Croce si sarebbe contentata di un paio di lire al giorno, anche vegliando la notte: le avrebbero dato anche il pranzo. Le altre monache, le vere infermiere, chiedono cinque, sei, e persino otto lire al giorno. La vecchia monaca, a quella chiamata, restò confusa, incerta: non aveva mai assistito malati, non avrebbe resistito a non dormire, la notte, forse: e poi, una puerpera, ciò la metteva in imbarazzo, le dava un senso di pudore offeso, tutto il vecchio pudore di chi ha tolto, dalla sua vita, il sentimento dell’amore, l’idea del matrimonio, l’istinto della procreazione. Bisognò che, al solito, donna Costanza de Dominicis la sermoneggiasse, le dicesse che, fra gli obblighi di carità cristiana e di consolazione temporale, vi era pur quello di visitare e assistere gli infermi: che essa era da vario tempo nel mondo e che queste fisime di monaca se le doveva levare di testa, se voleva riunir qualche soldo, per farsi una tunica nera, un mantello nero, due bende bianche, due goletti bianchi. Senza volontà, abituata all’obbedienza, vinta oramai dal bisogno, piegata, oramai, malgrado la grande età, al lavoro servile, suor Giovanna della Croce andò rassegnatamente ad assistere Maria Laterza, al suo quarto giorno di puerperio. E quel povero volto magro di donnina minuta, leggiadra, estenuato dall’anemia, cereo sul guanciale, quel corpo immobile e costretto alla immobilità, ma così sottile come se non esistesse, sotto le coltri, quelle due mani più bianche del lenzuolo su cui si appoggiavano, inerti, con le dita allargate, con le unghie leggermente violette, tutto ciò commosse talmente il povero vecchio cuore pietoso della monaca, che ella si diede tutta quanta a quel dovere di carità, che non aveva mai compito.
— Come è disgustosa, quest’acqua, — mormorò la voce fiochissima di Maria Laterza.
— Il chirurgo ha detto che non potete bere acqua cruda, — rispose la monaca, china sul letto. — Volete qualche altra cosa?
— Sì, voglio che vi sediate più vicino a me.
Suor Giovanna della Croce trasportò il suo seggiolone proprio accanto al letto, presso al capezzale dell’inferma. Quella fece un piccolissimo atto della testa, per dire che andava bene. Un lungo periodo di silenzio susseguì. Un orologio sovra una tavoletta fece udire un ronzìo, poi scoccò cristallinamente le nove.
— Che fa il mio piccino? — chiese la malata riaprendo gli occhi, fissando la lampada da notte che ardeva innanzi a una immagine della Madonna di Pompei.
— Poc’anzi dormiva nella culla. Debbo andare a vedere? — chiese premurosamente la monaca.
La puerpera annuì con un abbassamento di palpebre. Era così stremata di forze, che pronunziava il minor numero di parole possibili. Dopo pochi minuti la vecchia suora ritornò, si appressò al letto.
— Si è svegliato or ora: succhia.
— Succhia bene? — chiese con un po’ d’autorità la madre.
— Pian piano, succhia, — mormorò suor Giovanna della Croce, con un tremito di emozione nella voce.
— È debole, poverino.
— Non pare, debole.
— Che ne sapete voi, sorella mia? Voi siete monaca.
Seguì un silenzio.
— E Gaetano che fa? — riprese la malata, sempre un po’ inquieta.
— Vostro marito ha trasportato le sue carte di ufficio nella stanza da pranzo.
— Poveretto, poveretto! — mormorò Maria Laterza, agitandosi.
— Calmatevi, calmatevi, sorella mia: non dovete parlare tanto, non dovete muovervi tanto.
La malata s’immobilizzò, chiuse gli occhi: ma la sua fine e gentile fisonomia restò turbata da un’espressione penosa. Parve che si addormentasse, giacchè non si mosse per un’ora, con un respiro leggerissimo, ma regolare.
Anche suor Giovanna della Croce aveva un po’ di sonno, malgrado avesse preso una forte tazza di caffè per tenersi sveglia. Per non lasciarsi vincere dalla stanchezza e da quel torpore, cercava di rammentarsi tutte le orazioni che conosceva, specie quelle alle anime del Purgatorio, che sono proteggitrici tenere di tutte le persone malate. Sonnecchiava, quando la malata la chiamò sottovoce: suor Giovanna si riscosse subito, già avvezza, da due notti, a quel dormiveglia, in cui il pensiero della vigilanza non lascia mai addormentare completamente.
— Sorella mia?
— Che volete?
— Toccatemi le mani e la fronte.
Suor Giovanna le toccò la fronte: era fredda, con lievissime pulsazioni alle tempia. Le mani erano freddissime, ghiacciate. Glielo disse.
— Volevo sapere se avessi la febbre, — susurrò la malata stranamente.
— Impossibile, sorella mia. Temo, anzi, che siate troppo debole.
— Non ho la febbre?
— Ma che!
— Credevo di aver la febbre, — si ostinò a dire l’inferma.
Poi, tacque, chiuso gli occhi di nuovo, si riaddormentò. Il marito della malata venne più tardi, in punta di piedi, a vedere che facesse.
— Dorme? — chiese, con una voce che pareva un soffio.
— Dorme.
— Io vorrei andare a letto, muoio di stanchezza e di tristezza. Se vi è qualche novità mi chiamate subito, n’è vero, zi monaca?
— Non dubitate.
— Il bambino riposa quietamente. Dio lo benedica: e mi conservi sua madre!
— Così sia, — rispose piamente la suora.
Gaetano Laterza si allontanò. Era quasi mezzanotte. Sempre con quel respiro piccolo, breve, ma eguale, la inferma, supina, con un viso assottigliato e ancor bello, dormiva. Lentamente, suor Giovanna della Croce, dopo aver riordinato, in silenzio, a passi cautissimi, la camera, era tornata al suo seggiolone; lentamente le sue labbra e la sua mente avevano finito di ripetere le sue giaculatorie; la stanchezza grande la vinse, l’addormentò come un piombo, con un respiro un po’ pesante, un po’ ansante, di vecchia.
Uno stridìo della lampada da notte, lo stridìo particolare che, nel convento di suor Orsola Benincasa, nel tempo dei tempi, l’aveva sempre svegliata, la destò di soprassalto. Con un batticuore, ebbe un momento crudele d’illusione: si credette ancora nella sua alta cella, sul colle, dove aveva passato trentacinque anni a servire il Signore, dove aveva sperato di vivere e di morire, Iddio servendo, serbando la fede e il rito: un minuto intenso d’illusione che precipitò subito, dinanzi alla verità, in quella realtà di una stanza di malata, di puerpera esausta, che un nuovo assalto del male poteva far morire, accanto a un’altra stanza dove dormiva, nella breve culla, il piccolo, fine neonato. Con passo vacillante, caduta nella realtà della sua opera servile, in un ambiente profano, dove tutte le ragioni fisiche della vita, del sesso, della generazione trionfavano, suor Giovanna della Croce andò a versare dell’olio nella lampada languente, il cui lucignolo fumicava. Così, nella notte, lassù! Tutto era scomparso, finito per sempre, da tempo. Forse, neppure lei era più la medesima suor Giovanna della Croce, sotto il profondo mutamento delle cose. Quando ritornò accanto al letto, si accorse che erano già le tre e che Maria Laterza la guardava con un par d’occhi spalancati e vivaci, mentre tutto il giorno li aveva tenuti languidi e socchiusi, o chiusi addirittura.
— Avete dormito bene? — le domandò, china sul letto.
— Non ho dormito, — rispose con voce singolarmente forte, la malata.
Eppure, suor Giovanna della Croce l’aveva vista riposare quietamente, a lungo!
— Ho pensato, sorella mia. Ho pensato molto.
Il tono della voce era così alto, che la monaca si spaventò.
— Non parlate così. Vi stancate. Tacete. Cercate di dormire di nuovo. Il sonno vi guarisce.
— Il sonno mi uccide. Nel sonno posso morire senza che voi ve ne accorgiate, suor Giovanna della Croce. Quando dormo, ricordatevelo, voi dovete scuotermi, chiamarmi sempre, perchè io non me ne muoia.
— Sì, sì, ma tacete, — disse la monaca, cercando di tenerla ferma sul letto, ove si muoveva sempre. La fronte e le mani della inferma erano sempre più fredde.
Quella obbedì per un poco. Ma non si riaddormentò, non richiuse gli occhi.
— Ho pensato una grande cosa, suor Giovanna mia, — le disse, prendendole una mano, stringendola, obbligando la monaca a curvarsi sul letto.
— Che cosa?
— Voglio mettere il mio figliuolo in marina.
— Ah! — esclamò la monaca, trasognata.
— Sì, in marina. Il mio Vittorio, così si deve battezzare domani, col nome di Vittorio, perchè ha vinto la morte per lui e per me, — deve partire, per lunghi viaggi. Io piangerò molto quando andrà via; e sarò tutta tremante quando udrò il vento fischiare per le vie venendo dal mare e quando il mare inonderà la banchina di via Caracciolo, nei giorni di tempesta; e lo raccomanderò a Maria, stella dei naviganti, Ave Maris stella. E che gioia, zi monaca mia, quando egli ritornerà sano, salvo, bello, come un angelo, bello e forse come un eroe....
— Non parlate tanto, — mormorò la suora, tenuta ferma dalla mano della malata, immobilizzata, curva sul letto.
— Io farò altri figli, vedrete! Ora, ho cominciato, non finirò più di fare figli. Ogni volta, ogni volta tutto il mio povero sangue se ne andrà via, appresso ai figli: ma la Madonna di Pompei mi salverà, il chirurgo mi scamperà, voi mi assisterete e io guarirò. È vero, che mi assisterete? Non mi dovete abbandonare, con tutti questi altri figli che io debbo fare!
— Ma non parlate tanto, per amor di Dio!
— Perchè vi spaventate? Io sto benissimo. Non lo vedete, come sto benissimo? Andate a dirlo a Vittorio, al mio piccino.
— Dorme, il poverino: e non capirebbe ancora.
— Un ufficiale di marina capisce tutto, mia cara suor Giovanna. Voi siete monaca e non le comprendete certe cose. Del resto, sto benone. Volete andar a dirlo a mio marito Gaetano?
— Anch’esso dorme, poveretto: era così stanco!
— Lo so, lo so, lo so. Ha scritto il romanzo, tutta la sera, lo so, l’ho visto di qua. Credete che sieno conti, quelli del Banco di Napoli, quelli che fa? No. È un romanzo, un bel romanzo, triste, triste, così triste, mia sorella!
— Non parlate, non parlate, vi volete rovinare.
— Sto proprio bene, suor Giovanna, e vi debbo dire tutto. Sapete che è quel romanzo? Quella storia così triste, che scrive il mio caro Gaetano? È la storia del nostro amore, tutta la nostra storia. Ora io ve la racconto....
— No, no, non la voglio udire, dovete tacere, fatelo per amore di quella Vergine!
— Lodata sia, la Vergine! Non la volete udire, la nostra storia? Vi vergognate di ascoltare una storia di amore? Non avete mai amato, voi, sorella mia? Non rispondete? Anche voi avete amato, e la vostra storia è stata, forse, più triste della mia.
— Vi farete venire un gran male, se continuate a parlare così presto, così forte. Volete ammalarvi gravemente, di nuovo, volete morire, forse? — disse la suora, angosciosamente, non sapendo come far tacere la inferma, non potendo ritrarre la sua mano da quella gelida piccola morsa, che era una gelida piccola mano.
— Io morrò, — soggiunse quietamente l’inferma.
— Che dite?
— Dico che morrò, — replicò quella, guardando la monaca con occhi vividissimi.
— Quando Dio vorrà, non ora, speriamo, per il bimbo, per vostro marito.
— Morrò. Così finirà la triste istoria, quel romanzo, sapete, di Gaetano. Con la mia morte, finirà. Il pover’uomo non lo sa. Ma lo so, io. Crede di scrivere una storia assai, assai triste, ma con un lieto fine. Ma io morrò, è certo.
— Chi vi dice queste cose? Perchè le pensate? Calmatevi, tacete!
— Me le ha dette mio figlio Vittorio.
— Vostro figlio?
— Sì, mio figlio, l’ufficiale. È venuto poco fa, piccolo, piccolo, vicino al mio letto, e mi ha steso le manine, e una di esse ha toccato il mio viso. Ah, che ho sentito, quando quella mano di bimbo, di neonato, ha toccato la mia faccia! Voi non siete madre, non sarete mai madre, non potete intendere. E mi guardava, mi guardava, con certi occhi così dolenti, questo mio bambino, che io ho subito compreso che egli vedeva la sua madre morta.
— Se non tacete, vado a svegliare vostro marito, — esclamò la povera vecchia monaca, disperata.
— Non chiamate nessuno. Datemi dell’etere.... dell’etere, subito....
Emesso un profondo sospiro, Maria Laterza svenne. Albeggiava. E solo allora suor Giovanna della Croce, tremando di terrore, comprese che la malata aveva delirato tutta la notte, senza febbre, gelide le mani e la fronte.
*
Il giudice Camillo Notargiacomo, colui che occupava il quarto piano, nel palazzotto di Vico Rosario a Portamedina, proprio in alto, mentre al primo vi era donna Costanza de Dominicis e suor Giovanna della Croce, al secondo Concetta Guadagno e al terzo Maria e Gaetano Laterza, il taciturno e austero giudice di tribunale, aveva accettato di prendere al suo servizio la monaca, vivamente raccomandatagli da donna Costanza. Il puerperio di Maria Laterza era finito, da un paio di mesi; la gracile donnina si era levata, pallidissima, debolissima, con certi occhi dolci e stralunati, sempre rabbrividendo dal freddo, avvolta nei suoi scialletti di lana, facendo strillare il suo piccino, quando lo carezzava lievemente con le sue dita gelide: e suor Giovanna della Croce era stata licenziata bonariamente, con un pagamento di ventisei lire, giusto tredici giorni di assistenza. La suora non aveva potuto realizzare il suo desiderio tormentoso, cioè di avere una tonaca nuova e un mantello nuovo: anche a comperarli di una lanetta nera molto inferiore, erano così larghi, così ampi, la tonaca e il mantello, che ce ne volevano molti metri, almeno da quaranta a cinquanta lire di stoffa, più la fodera della tonaca e la manifattura. Impossibile, dunque: e il cruccio segreto più acuto lacerò l’animo pio della povera monaca, che vedeva riescire vana ogni sua servile fatica, ogni sua umiliazione morale e materiale, per poter riprendere i segni del chiostro. Potette, solo, ahimè, rifarsi la fascia pel capo e pel collo: candide, candidissime, esse facevano vieppiù risaltare la consunzione dei vecchi abiti monacali. E di nuovo ammiserita, ridotta a misurare i bocconi, con le sue trentanove lire, suor Giovanna della Croce piegò le antiche spalle e salì al servizio del giudice Notargiacomo, al quarto piano. Costui, anzi, non l’aveva presa, suor Giovanna della Croce, che dopo molte difficoltà; tre volte, la monaca era discesa dal quarto piano, lentamente, tristemente, scoraggiata dalla burbanza, dalla diffidenza, dal tono sospettoso con cui il giudice l’aveva interrogata, e anche redarguita nelle sue parole.
Questo magistrato faceva una vita molto singolare. Abitava in quel palazzotto da otto mesi, cioè dal quattro maggio dell’anno prima: viveva in quel quartino, solo, solissimo. Non riceveva là mai la visita di un parente, di un amico: il portinaio aveva severissimo ordine di rispondere, sempre, che il giudice Notargiacomo era uscito o che, stando in casa, non vedeva nessuno. A cercarlo, ogni tanto, qualcuno veniva: ma si comprendeva bene, dall’aspetto di quegli uomini, di quelle donne, dalle loro vesti, dal tono della loro voce, fra il plorante, l’insistente, il fastidioso, che erano imputati, o parenti, o amici d’imputati. Costoro erano rigorosamente cacciati dal guardaportone a cui il giudice Camillo Notargiacomo dava apposta dieci lire il mese, per tale servizio. I queruli, uomini e donne, andavano ad aspettare il giudice, poco lontano, all’angolo della via: era inutile, egli aveva un modo così glaciale e altiero di volger loro le spalle, di non rispondere nè al saluto nè alle parole, di continuare la sua strada, sino al portone dove il portinaio li fermava, che costoro restavano, per lo più, interdetti e confusi, alcuni lamentandosi, altri bestemmiando. Il giudice riceveva pochissime lettere e un paio di giornali giudiziarii: le lettere lo turbavano sempre un poco, egli ne guardava la soprascritta, sempre, con occhi smarriti. Ogni tanto il postino, sospirando e sbuffando, saliva al quarto piano, nelle ore prime della mattina; aveva una lettera, con ricevuta di ritorno, da consegnare al giudice Notargiacomo. Costui, ogni volta che questa lettera arrivava, si agitava tanto, che non ritrovava più nè la penna, nè il calamaio che aveva davanti: balbettava qualche parola, guardando con gli occhi stralunati l’indirizzo della lettera di calligrafia sempre identica e a lui nota, certo; tanto che, un giorno, il postino gli disse:
— Vostra Eccellenza ha il diritto di respingere questa lettera; mi fa una piccola dichiarazione....
— No.... no.... non posso, — aveva mormorato fiocamente il magistrato.
Il più bizzarro era che il giudice Notargiacomo aveva portato seco, nel suo quartino solingo, un mobilio di uomo ammogliato. Il suo letto di legno scolpito, lavoro pretenzioso, era coniugale: così la stanza da letto aveva due tavolini da notte, un grande armadio a tre specchi, due alti sécrétaires. Il suo salotto non era da celibe, ma da uomo che ha avuto, un tempo, in casa, una donna, moglie, amante, innamorata, serva-padrona, una donna, infine, a lui legata: salotto pieno di mobiletti capricciosi, pieno di ninnoli in chincaglieria, che contrastavano con l’aspetto triste del silenzioso magistrato. Alto, scarno, con una testa a pera, calvo, con una corona di capelli castani, che si brizzolavano, con un viso scialbo e inespressivo e un paio di mustacchi castani, anche più brizzolati dei suoi pochi capelli, sempre chiuso in un thait nero, incravattato e inguantato di nero, il giudice Camillo Notargiacomo era funebre. Era ammogliato? Vedovo? Separato da una moglie, da un’amante, da una serva-padrona? Non era, forse, quella casa di aspetto coniugale, il covo singolare di uno scapolo? Egli ci viveva solo: il grande letto coniugale serviva a lui solo: sovra un angolo della tavola da pranzo, egli divorava, in perfetto silenzio, un pranzo venuto da una trattoria poco lontana, un pasto che egli inghiottiva senza guardarlo; nel salotto, pieno di mensolette, di tavolinetti, di ritratti nelle cornici, di statuine, egli non si fermava mai. Nella sua stanza da letto vi era, anche, presso la finestra, una piccola scrivania femminile, un mobile vezzoso e, sopra, tutti i minuti oggetti da scrittoio di cui una donna si serve, pei suoi bigliettini, per le sue lettere amorose: non solo il giudice Notargiacomo non si sedeva mai a quella piccola scrivania, ma, passandovi varie volte, innanzi, nella giornata, voltava gli occhi in là!
In complesso, il taciturno e triste magistrato menava la vita di un uomo avaro, sordido. Si conosceva bene la cifra del suo stipendio e si sapeva, anche, che aveva qualche proprietà immobiliare, dei titoli di rendita: la gente, persino, esagerava la sua agiatezza. Tra casa e vitto egli non giungeva neppure a spendere la metà del suo stipendio, in quel quartino, con quella trattoria di infimo ordine che gli mandava un cibo grossolano e disgustoso: non gli si vedeva mai un vestito nuovo, non prendeva mai una carrozza, non metteva mai piede in un teatro. Persino con la vecchia monaca, che doveva pulirgli la stanza e gli abiti, stirare la biancheria e rammendarla, fare tutto il servizio, infine, e custodire la casa nella sua assenza, persino con suor Giovanna della Croce egli aveva lesinato sul compenso. Voleva dare dodici lire, non più: a stento giunse fino a quindici lire, ma rimase inquieto ed irritato di questa concessione. Nel quartiere, si diceva che il giudice Camillo Notargiacomo aveva molti, ma molti denari da parte, lo si dichiarava il più duro fra i taccagni. Qualche parente di delinquente, anzi, aveva fatto circolare la voce che egli prestasse il denaro a usura. E nei dialoghi del vicinato, passava, ogni tanto, una di queste frasi:
— Un giorno o l’altro i ladri scassinano la porta del giudice, legano la monaca e portano via tutti i denari.
— Una notte o l’altra, i ladri scannano il giudice e si portano via tutti i denari.
Pareva, pareva che Camillo Notargiacomo temesse qualche cosa di simile! Rarissime erano le parole che scambiava con la sua persona di servizio, solo per qualche cosa di necessario; a tavola, mentre ella gli serviva il pranzo nuotante nel grasso freddo della trattoria, egli apriva un giornale forense, per non parlare. Ma ogni giorno, quando usciva per andare al Tribunale, era la stessa raccomandazione costante, insistente:
— Non aprite a nessuno.
— No, Eccellenza.
— A nessuno, avete capito? Neanche se dicesse di venire da mia parte.
— Neanche.
Talvolta giungeva sino alla minaccia:
— Poveretta voi, poveretta voi, se fate entrare qualcuno!
— Mi debbono uccidere, per entrare, — diceva con un fievole sorriso, suor Giovanna della Croce.
Ella stessa aveva finito per credere, la monaca, che il giudice temesse i ladri, fortemente: troppe erano le sue raccomandazioni e troppa era la sua inquietudine. Ogni volta che egli rientrava dal Tribunale, verso le cinque, la sua mano, toccando il campanello, rivelava la sua agitazione: ora, suonava fortemente, due o tre volte: ora, suonava a distesa: ora, suonava leggermente, debolmente e, sempre che schiudeva la porta, suor Giovanna della Croce, si vedeva innanzi un viso sconvolto e udiva una interrogazione precipitosa.
— Vi è qualcuno, è vero, vi è qualcuno?
— No, Eccellenza: non vi è nessuno.
— Proprio, non è venuto alcuno?
— Nessuno, è venuto.
— Ne siete certa?
— Ne sono certissima.
Un lieve sospiro dilatava il petto del triste magistrato ed egli entrava in casa col viso ricomposto. Doveva aver denaro, certamente, in uno dei due sécrétaires della stanza da letto: all’altro non si accostava mai, voltava gli occhi per non guardarlo, non lo apriva mai, il suo armadio, in presenza di suor Giovanna della Croce e vi teneva, in sua assenza, oltre la chiusura a chiave, un lucchetto con un segreto. Talvolta entrando in camera, la mattina, per portare i panni spazzolati e le scarpe lustrate, la vecchia suora lo trovava, il giudice, innanzi alla porta aperta di quel sécrétaire, col capo abbassato sovra uno dei cassetti e con le mani che vi frugavano dentro.
Si era sempre arrabbiato, con la sua serva, di queste sorprese, umiliandola con parole dure, come faceva spesso: e l’antica suora aveva chinato il capo, decisa a sopportare tutti quei maltrattamenti per amor di Dio. Però sempre, in queste volte, suor Giovanna della Croce aveva intravvisto il giudice a riporre del denaro nel suo portafogli, delle carte-monete rosse, da cento lire. Andava via, in queste giornate, il giudice Notargiacomo, più chiuso, più triste, più lugubre di tutte le altre volte. Ritornava più tardi, a casa. Qualche volta, don Gaetano Laterza, quello del terzo piano, diceva che aveva inteso passeggiare avanti e indietro, tutta la notte, il tetro magistrato.
Ebbene, malgrado l’età che le rendeva grave il servire, malgrado quei quattro piani di scale molto erte, che suor Giovanna della Croce doveva fare tre o quattro volte al giorno, malgrado l’asprezza continua con cui il suo padrone la trattava, malgrado che ella non avesse neppure un boccone di pane, oltre quelle quindici lire mensili, malgrado che nè i suoi occhi, più, nè le sue mani, nè le sue gambe l’aiutassero a servire bene, la monaca si contentava di quel suo stato e, quasi quasi, se ne compiaceva.
Preferiva quello che faceva, a vendere, sì e no, dei merletti a delle ragazze bizzarre, viventi nel peccato, come Concetta Guadagno, tanto più che poco le riesciva, oramai, ad avere sveltezza nel maneggio dei fuselli; preferiva quello ad assistere delle puerpere come Maria Laterza, in quell’ambiente di sgravi, di bimbi che succhiano, dove tutto odorava di mondo, di matrimonio, di procreazione, di maternità, confondendo il suo pudore di vecchia monaca che nulla sa di queste cose. Meglio servire! Quei dieci soldi al giorno ella li guadagnava a stento, specialmente nei giorni in cui doveva stirare la biancheria di liscio del magistrato: l’antica Trentatre si sentiva piegare le gambe, era troppo vecchia, oramai, per restare tanto tempo in piedi: ogni tanto si doveva buttare sovra una sedia, senza fiato, col capo abbassato sul petto. Non importa: quei dieci soldi al giorno aumentavano la sua misera pensione mensile: ella poteva mangiare un boccone di carne alla domenica: poteva accendere la lampada innanzi al Crocefisso, ogni sera, ella che aveva portato, con tanta umiltà cristiana, il nome della Croce: ella poteva fare l’elemosina, di due soldi, ogni venerdì, alle anime del Purgatorio! La casa del giudice Notargiacomo era deserta, fredda e malinconica: il giudice era triste, rude, sempre sospettoso: non mai una parola buona esciva dalla sua bocca, non mai uno sguardo dolce partiva dai suoi occhi: tutto ciò avrebbe pesato sull’anima e sul corpo di qualunque altra serva, ma non sul corpo e sull’anima della vecchia Sepolta Viva. Ah non così, non così, certo, ella aveva sognato di trascorrere la sua vecchiaia, in servitù materiale e bassa, comandata con asprezza, mal compensata, maltrattata spesso, tenuta a distanza! Ma il tempo del rimpianto era trascorso: quello della lunga rassegnazione servile era cominciato, dal giorno in cui, per la seconda volta, suor Giovanna della Croce era stata cacciata da una casa, dalla casa di sua sorella, dove, finite le sue misere mille lire, finite le speranze di riavere la dote, Grazia Bevilacqua l’aveva messa alla porta. Certo, suor Giovanna della Croce era rotolata anche più giù, caduta al grado di una serva volgare, rientrando in casa sua di sera, stanca, morta, balbettando le sue preghiere nella stanchezza, digerendo, nelle orazioni, le amarezze fisiche e morali di cui era stata piena la sua giornata: ma asservita come era, il suo giogo le era diventato meno pesante. Tante altre serve, come lei, erano più bistrattate, dovevano lavorare di più, erano meno compensate, dovevano obbedire a cinque o sei persone, esser vittime di tutti i capricci dei padroni, malate, affamate, sporche!
Era alla metà del quarto mese di servizio, in casa del giudice Camillo Notargiacomo, che suor Giovanna della Croce, di mattina, mentre spazzava il salotto, intese bussare alla porta. In generale, era difficilissimo che qualcuno bussasse, durante tutta la giornata: ma il ragazzo della trattoria veniva, verso quell’ora, a ritirare la stufa del pranzo, del giorno prima. Pure, non senza una certa emozione, suor Giovanna della Croce andò ad aprire la porta: in questi ultimi tempi, le raccomandazioni del suo padrone, contro coloro che avessero voluto entrare in casa, si erano fatte più pressanti. In verità, la vecchia monaca non aprì la porta completamente, ma ne schiuse una metà. E una voce sonora e dolce, insieme, una dolce e sonora voce femminile, disse:
— Vi è il giudice?
La monaca si vide innanzi un’alta e snella signora, che non poteva avere oltre i vent’otto anni, vestita con ricercatezza, con un viso bianco e fresco, dalle linee belle e non mancanti di nobiltà, con certi bei capelli castani folti e ondulati, una bella signora dalle mani guantate, dalla fine veletta abbassata sul volto.
— Non vi è, — disse la monaca, scossa, tentando di chiudere la porta.
— Benissimo. Io entro e lo aspetto, — disse nettamente e con la massima disinvoltura, la signora.
Schiuse la porta con atto tranquillo ma energico, scostò la monaca con la mano ed entrò in casa, chiudendosi la porta di entrata alle spalle. Allora la monaca, sconvolta, si pose a balbettare:
— Non dovete entrare.... non dovete.... il giudice non vuole nessuno.... avete capito?
— Io vi sono e vi resto, — disse la bella signora, avviandosi verso il salotto, sorridendo un poco.
La vecchia suora la seguì, coraggiosamente, prima che ella mettesse piede sulla soglia del salotto, l’afferrò per un braccio.
— Per amor di Dio.... andatevene.... questa non è casa vostra.... il giudice non vuole nessuno!
E tirava la signora pel braccio, la tirava verso la porta. Costei si voltò, diventata freddissima a un tratto: sciolse il suo braccio e si ravviò la manica di seta, come se suor Giovanna gliel’avesse sciupata.
— Buona donna, — disse la signora, — tu fossi impazzita?
— Io non sono pazza, signora e voi ve ne dovete andare! — gridò la vecchia suora, in preda a una grande commozione.
— Va là, va là, sta zitta, vecchia matta!
— Questa non è casa vostra. Se non ve ne andate via, io mi metto a chiamar gente dalla finestra! — strillò la monaca, esasperata.
La giovane signora, lentamente, si accostò alla suora, la fissò negli occhi, con grande freddezza e le disse:
— Ma tu chi sei?
— Sono la serva: la serva! Ma ho ordini di non far entrare nessuno. Ora mi metto a strillare, dalla finestra.
— E sai chi sono, io?
— Non lo so. Ve ne dovete andare!
Più ancora si accostò alla vecchia, la bella signora, e con voce calma ed altera, le dichiarò in viso:
— Io sono la moglie del giudice Camillo Notargiacomo. Io sono sua moglie e sto in casa mia. Esci fuori, tu.
Esterrefatta, tremante, suor Giovanna della Croce guardava la signora, muta. Costei, a sua volta, prese per il braccio la povera vecchia e, aprendo la porta di entrata, la mise fuori.
— Questa è casa mia. Vattene. Via, via!
Alle cinque del pomeriggio, suor Giovanna della Croce aspettò il giudice Camillo Notargiacomo, sul pianerottolo del primo piano, innanzi alla propria porta. Costui, a vederla colà, in quel luogo insolito, a quell’ora, si arrestò e si mise a tremare, come tremava la vecchia.
— Di’ la verità.... di’ la verità? — gridò il magistrato, dandole del tu, per la prima volta. — Vi è qualcuno, sopra?
— .... Sì, vi è qualcuno, — balbettò la infelice monaca.
— Una donna? Una signora?
— Sì, una donna, una signora, — replicò quell’altra, così smarrita, da non trovar altre parole.
— E l’hai fatta entrare! L’hai fatta entrare! — gridò lui, con tono più desolato che collerico.
— È entrata da sè. È entrata e mi ha cacciata. Ha detto che era vostra moglie.
Ed ella guardava il pover’uomo, infelice, misero, oramai, come lei; lo guardava, piena di strazio e di pietà.
— È vero, — disse il misero, il povero, l’infelicissimo uomo, a capo basso.
*
In quel pesante pomeriggio del cadente luglio, suor Giovanna della Croce tornava, lentissimamente, a piedi, dall’Ufficio dei Beneficii Vacanti, dove era stata a prendere la sua pensione mensile. La strada, non breve, doveva averla molto stancata, poichè la monaca trascinava il passo, come mai: la erta via e poi gli alti scalini della Via Settedolori le avevano tolto il fiato, completamente: ella dovette appoggiarsi al muro, per qualche minuto, prima di penetrare nel Vico Rosario Portamedina. Ordinariamente, quando camminava nella strada, non si guardava mai attorno, non dava retta alle parole dei monelli che ora la canzonavano, chiamandola zi monaca, zi monaca, che ora le chiedevano seriamente i numeri del lotto; crollando il capo a qualche esclamazione pia di femminuccia che si raccomandava alle sue preghiere; ma, in quella soffocante giornata di piena estate, suor Giovanna della Croce sembrava anche più distratta, anche più raccolta in sè: e andava curva, più dell’usato: e con gesto abituale la mano destra stringeva i grani del lungo rosario che le pendeva dalla cintura, li stringeva, con una mano quasi contratta da un’emozione interiore. Così pensosa, così assorta, suor Giovanna della Croce non si accorse di tre o quattro gruppi di persone che stazionavano innanzi al palazzotto, numero quarantadue, del Vico Rosario Portamedina: non si avvide di gente fermata, che parlottava vivamente nell’andito del palazzotto e nè di alcuni che salivano e scendevano. Veramente, a capo chino, a spalle curve, reggendosi alla ringhiera di ferro delle scale, la monaca era salita, a stento, a quel primo piano, ove ella abitava ancora, insieme con donna Costanza de Dominicis: ella dovette sostare, reggendosi allo stipite della porta, come se le mancasse ogni forza, mentre toccava lievemente il campanello.
La bruttissima faccia di donna Costanza, dove brillavano due occhi pieni di una divina bontà, quando ella venne ad aprire, era stravolta: la sua chioma stirata e lucente di contadina civilizzata, era tutt’arruffata: le sue labbra larghe e violacee erano gonfie, come di singhiozzi già scoppiati e da scoppiare: il suo fazzoletto da collo era tutto spiegazzato. E a malgrado la sua distrazione in un grande pensiero o in una grande cura, suor Giovanna della Croce si accorse di quell’aspetto nuovo e strano. Donna Costanza era una donna coraggiosa e allegra: qualche volta andava in collera, ma triste non era mai. Le due donne si guardarono in faccia, in quella nuda saletta di entrata, senza scambiare una sola parola. E mentre donna Costanza si avviava verso la stanzetta che serviva da salotto, da camera da pranzo, da dispensa, suor Giovanna della Croce, invece di ritirarsi nella sua camera, la seguì. Senza parlare, si sedettero una da un lato, l’altra dall’altro lato della tavola, su cui era disteso un vecchio tappeto di lana: senza parlare, si guardarono nuovamente in volto, e ognuna lesse nel volto dell’altra un dolore vivo e sincero, uno schietto dolore che non temeva più la folla della via, l’irrisione degli estranei, degl’indifferenti: e ognuna si sentì, per sè, per l’altra, triste sino alla morte.
— Che è stato? — fu la prima a rompere il grave e dolente silenzio, suor Giovanna della Croce.
— Oh guai, grossi guai, sorella mia! — esclamò desolatamente la salernitana, mordendosi le grasse labbra violacee, per non rompere in lacrime.
— Che guai, che guai? Voi state bene? Errico sta bene?
— Sì, sì, sta bene, povero bel figlio mio, sta bene, ma non è questo, non è questo, zi monaca mia, il guaio che ci è capitato!
— Un grande guaio? — chiese, esitando, molto pallida, suor Giovanna della Croce.
— Grande, grande! Una cosa, Signore, Signore, che non ce la meritavamo, Errico e io, poveretti, che abbiamo lavorato e stentato, per tanti anni; non ce la meritavamo, suor Giovanna, con le privazioni e le cattive giornate, per cui siamo passati! — e la salernitana, ruvida nel suo dolore, si torse le braccia come per infrangersele.
— Un po’ di pazienza, un po’ di pazienza, donna Costanza mia, — soggiunse suor Giovanna della Croce, sempre con la sua voce incerta e un po’ flebile, — e sopporterete meglio questa tristezza. Ditemi che è. Io.... io sono una povera monaca.... così povera, che nessuno più.... ma, forse, una parola, potrò dirla per consolarvi....
— Ah! che voi non potete nulla, cara zi monaca mia, nè voi nè le vostre sante parole! Dio se ne è scordato, di noi, nel cielo: dorme, dorme, il Padre Eterno!...
— Zitto, per carità! — trovò forza di gridare suor Giovanna della Croce innanzi a quella bestemmia. — Non dite questo, che è peggio! È peggio! Scampate l’anima, almeno!
— Ah, sorella mia, sorella mia! — gridò donna Costanza, dando in un impetuoso scoppio di pianto.
Era un pianto ardente, rude, che scuoteva tutta quella complessione di donna avvezza alle pesanti fatiche, ai diuturni sacrificii, alle abnegazioni fisiche e morali: erano lacrime roventi sull’orrendo viso sconvolto dallo spasimo. Suor Giovanna della Croce si era fatta anche più smorta, nello scarno volto oramai solcato da mille rughe: e lasciando piangere donna Costanza, comprendendo che quello sfogo era necessario, era salutare, aveva, due o tre volte, con fervore, baciato il Crocifisso sospeso al suo rosario.
— Ditemi che è, donna Costanza, — soggiunse, come la vide più calma.
— Una rovina, zi monaca, una vera rovina! Sapete che Errico mio si doveva laureare in medicina, questo anno, e avrebbe subito fatto un esame per medico condotto in qualche paese, qua dintorno, e ce ne saremmo andati via, insieme, col mio bel figliuolo, infine dottore, a guadagnare lui la sua vita e la mia, io a servirlo sempre....
— Ebbene?
— Errico, stamane, è stato riprovato in due materie: le due ultime, le più importanti.
— Vuol dire che non gli danno più la laurea?
— Non gliela hanno data. Lo hanno riprovato! Capite, mio figlio che studiava nove e dieci ore al giorno, poveretto, che si alzava di notte per perdere la testa sui libri, e io che mi levavo per fargli un po’ di caffè, e che mi sentivo stringere il cuore a vederlo patire: riprovato, un giovanotto simile, così bravo, così buono, capace d’insegnar la medicina a mille studenti e a mille professori: riprovato, riprovato in due materie!
— Ma come è stato? — domandò, confusa, triste, suor Giovanna della Croce.
— Ingiustizie, ingiustizie! Due assassini di professori, due bestie infami, due carnefici stupidi, zi monaca mia! Ah è una cosa da morire, da morire!
— Non vi è rimedio, è vero? — soggiunse timidamente, tristemente la monaca.
— Che rimedio! Che rimedio! La borsa finisce con questo mese di luglio e a un riprovato, come il mio povero Errico, chi darà più niente? Come aspetteremo un altro anno? Di che vivremo? Come pagheremo la casa, come mangeremo?
Convulsamente suor Giovanna della Croce strinse le mani sul petto, come se vi avesse ricevuta una ferita.
— Un anno, un anno ancora, capite, suor Giovanna, poichè a novembre è impossibile riparare! Il mio ragazzo è disperato; stamane, quando è entrato in casa, grande, forte, come è, mi è svenuto fra le braccia. O figlio mio, ti hanno ammazzato! Un anno! Che sarà di noi?
— Che sarà di noi? — mormorò macchinalmente la monaca.
— Tutte le mie speranze erano in questa laurea di questo figlio, e faticavo e mi spezzavo le gambe e le braccia, suor Giovanna, per sostenerlo, per aiutarlo, per servirlo. È stato inutile, tutto è stato inutile! Quei due boia, dell’Università, hanno ucciso me e lui.
— Non parlate così; siate buona. Dio vede e provvede, — mormorò, sempre con quella sua voce incolore, monotona, la monaca.
— Dio dice: aiutati che ti aiuterò. Che possiamo fare più, per aiutarci? Siamo morti, suor Giovanna mia!
— Beati loro, i morti in grazia di Dio! — soggiunse, con un profondo sospiro, la monaca. — E dove è, ora, vostro figlio?
— È sul suo letto, povero ragazzo mio. Ho mandato a chiamare un dottore, io, quando l’ho visto svenuto: era nel cortile, per fortuna, questo medico, venuto per le altre disgrazie del palazzo. E gli ha dato del cognac, in una tazza di camomilla. Abbiamo pianto insieme, Errico mio ed io, abbracciati. Io l’ho cullato, zi monaca, come quando era piccolo piccolo e lo tenevo, in collo, nelle fasce, e non voleva dormire, la notte. L’ho cullato un’altra volta, a ventiquattro anni, come se avesse pochi mesi, e mi si è addormentato addosso, dopo tanto spasimo, e l’ho posato piano piano sul suo guanciale, come se fosse una creaturina. Ah che pena, qui, qui, nell’anima, per questo figlio!
Tacquero. Si guardarono in viso, di nuovo, entrambe tristi sino alla morte.
— Quando cercavo il medico, dalle scale è venuta in casa Concetta Guadagno, — riprese donna Costanza de Dominicis, che aveva bisogno di espandere la sua straziante cura. — È venuta, perchè passava innanzi alla porta e voleva salutarmi così, prima di andarsene e voleva salutare anche voi....
— Salutare, perchè? — disse suor Giovanna della Croce che al nome di Concetta Guadagno, aveva abbassato gli occhi.
— Andava via.
— Via, dove?
— Non so: non lo sapeva ella stessa.
— Andava via, per ritornare? Partiva per un viaggio?
— No. Non torna più. Non la vedremo più, forse.
— Ha lasciato la casa, di estate?
— Non l’ha lasciata lei, poveretta. Gliel’hanno fatta lasciare. Sa Iddio, se se ne voleva andare! Ma ha dovuto farlo. I mobili erano già stati ritirati dal quartino ed ella doveva consegnarne la chiave a mezzogiorno.
— Ma dunque, il suo.... il suo sposo, — esclamò dopo una pausa di esitazione, la monaca, — è morto?
— No, non è morto. Sta benone. Si marita, con una ragazza onesta, a Roma. Ha abbandonato Concetta Guadagno.
— Oh disgraziata! — gridò suor Giovanna della Croce, congiungendo le mani.
— Disgraziatissima! Non era cattiva. Se l’aveste veduta, suor Giovanna, quando scendeva le scale a malincuore, voltandosi indietro: quando si è fermata innanzi alla mia porta, per dirmi addio, pareva un fantasma. Ah se non avessi avuto quel figlio, in quello stato, avrei cercato di consolarla un poco.
— Non le avete detto niente? — chiese, con voce fioca, la monaca.
— Che le potevo dire? Per me, Errico è tutto: non capivo più nulla, in quel minuto. Mi ha fatto pietà, misera giovane, con quel suo viso bianco. Vi ha mandato a salutare....
— .... io non vi ero.
— Non vi eravate. Mi ha detto che preghiate un poco, per lei: alla Madonna dei Dolori vuole che la raccomandiate.
— La raccomanderò. Che ne sarà di lei?
— Eh! — disse donna Costanza, stringendosi nelle spalle, rudemente. — Tornerà come prima....
— Vergine Santa, scampatela! — esclamò la monaca, nascondendosi il viso fra le mani.
Donna Costanza si levò dalla sedia e andò nell’altra stanza a vedere se il suo figlio dormisse. Tornò, dopo qualche minuto.
— Dorme, ma sospira, si agita nel sonno. O che mi hanno fatto, di questo figlio, quelle due belve dell’Università! Che sarà mai di questa povera madre e del suo ragazzo, suor Giovanna? E se mi si ammala? Poco fa, nel sonno, diceva delle parole sconnesse.... mi ha fatto paura.....
— Come donna Maria Laterza, — rispose suor Giovanna della Croce. — Poi, le passò subito. Queste cose passano.
— Non le è passato, — soggiunse tetramente, donna Costanza de Dominicis. — Anzi, le è ritornato....
— Che cosa?
— Il delirio, a donna Maria Laterza.
— Se è stata bene, dopo?
— Pareva che stesse bene, pareva! Ma non l’avete mai incontrata, così pallida, così debole, con quelle mani magre magre e sempre fredde, come diceva la nutrice del suo bimbo!
— L’ho incontrata. Ma non sembrava che dovesse ricadere malata.
— Non è ricaduta: non si è guarita, mai: è stata sempre malata.
— Col delirio!
— Ogni tanto, specialmente di notte, il delirio le ritornava. Poi, le passava. Il marito, spaventato, non ne diceva nulla a nessuno. Poi, questo delirio è venuto anche di giorno....
— Oh Gesù, Gesù! — soggiunse suor Giovanna, curvando anche più la testa sul petto.
— E infine, donna Maria Laterza è impazzita, mi ha detto il medico venuto per lo svenimento di Errico.
— Impazzita?
— Sì. Alle donne che sgravano, talvolta, questo succede. Una mia amica, a Salerno, pure è impazzita così. Donna Maria Laterza pensa di esser una madre solinga e di aver suo figlio, Vittorio, per mare, in un mare in tempesta: pensa che egli chiama aiuto e che lei non può levarsi, perchè è morta....
— Come quella notte, come quella notte!
— L’hanno portata via, ieri sera, in gran segreto. Don Gaetano Laterza piangeva. Ella non è al manicomio: è in casa di pazzi, privata, ove un medico la cura, pagando bene....
— E può guarire?
— Forse, dicono. L’amica mia guarì tre volte, ma ridiventò pazza. Donna Maria era una buona signora....
— Sì: era buona.
Un lugubre silenzio regnò fra le due donne. La monaca pareva oppressa, accasciata, piegata in due, verso la tavola: la salernitana si teneva la testa fra le mani, almanaccando dolorosamente sul proprio destino.
— Ah, suora mia, non ho mai mancato di coraggio, ma ora sono per terra. Quel figlio, quel figlio! Come gli darò da mangiare, io, per un anno? E se egli volesse lavorare, dove trovar lavoro e come farlo, quando deve studiare? Sentite, sentite, sono stata troppo ambiziosa, ho peccato di superbia, dovevo rimanere con mio figlio in paese, fargli fare il contadino, con quel pochissimo di roba che avevamo! Ho voluto farne un medico, un signore, ecco quel che mi è successo, Dio mio, che faremo mai? In questo grande paese, dove non vi è lavoro per nessuno, come vivremo?
Un singulto ruppe la voce di suor Giovanna, uno di quei singulti senza lacrime, dei vecchi.
— Ah se non avessi Errico, suor Giovanna, io farei come ha fatto il giudice Notargiacomo, al quarto piano.... non ne posso più di patire, come lui.
— Che ha fatto?
— Si è ucciso. Si è buttato dal quarto piano, nel vico dello Splendore, stamattina.
— Ah! — gridò la suora, come se svenisse.
— Non ne poteva più, pare, con quella moglie. Essa era una birbante, una pessima donna, che lo copriva di vergogna, gli toglieva i denari, gli toglieva tutto, ed egli, così cattivo in Tribunale, non sapeva resistere a lei. Tre volte è fuggita; tre volte è tornata. Alla terza, il giudice non ha avuto la forza di vivere, con lei; vi è stato due mesi, soffrendo mille morti; stamane, all’alba, si è buttato dalla finestra.
— È morto?
— Sul colpo, sembra. Ma non se ne sono accorti, che due ore dopo: egli è caduto nel giardino dello Splendore. La moglie dormiva profondamente e non ha udito nulla. È ancora lì, non l’hanno tolto: ma io non ho avuto il coraggio di mettermi alla finestra.
— Non uno è scampato, non uno, in questo palazzo! — balbettò, sgomenta, suor Giovanna della Croce.
— Non uno! Ah, che il mio Errico non aveva fatto nulla di male, per essere così punito, e io, io che non ho avuto bene, per lui? Questa ragazza, di sopra, Concettina Guadagno, non voleva salvarsi, forse, non viveva del pentimento dei suoi antichi peccati? E la povera donna Maria Laterza, così tenera, così cara, che non vedrà più nè suo marito, nè il suo bimbo, che aveva fatto, se non maritarsi, se non vivere come Dio comanda? E quello sventurato che si è ucciso, al quarto piano, non era un galantuomo, un magistrato? Ah zi monaca, suor Giovanna della Croce, la religione è una bella cosa, è una grande cosa, ma il Signore ci ha troppo castigati!
— Dio sa quello che fa, — mormorò la monaca.
— Ah voi parlate così, perchè siete monaca; perchè non avete mai nè voluto bene a nessuno, nè desiderato niente; perchè non vi siete maritata e perchè non avete avuto figli; perchè non avete sofferto nella carne e nel cuore, zi monaca, perciò parlate!
— Forse, — soggiunse suor Giovanna della Croce, umilmente, — forse! Ma Dio sa!
— Dite questo, perchè il Signore vi ha risparmiata, in mezzo a tante disgrazie, — esclamò duramente la salernitana.
— No, non mi ha risparmiata, — la monaca rispose, levando la testa, mostrando un viso scialbo e triste sino alla morte. — Anche io ho portato una triste notizia a casa.
— E che notizia? — replicò l’altra, scossa, cominciando a intendere.
— Non importa, non importa, — soggiunse suor Giovanna.
— Dite che è, ditelo! Non vi ho detto tutto, io? Voglio sapere.
— Non è nè una morte, nè una malattia, nè un abbandono, nè il ritardo di un anno, donna Costanza.
— Ma dite, che è, infine!
La monaca si passò la mano sugli occhi. Poi, riprese:
— Mi hanno comunicato.... all’Ufficio della mia pensione, che essa era ridotta.... — balbettò la suora.
— Ridotta?
— Sì, ridotta, per economia, — continuò senza levare la voce, la suora.
— E a quanto?
— Da quarantuna lire a ventisette lire il mese, — disse, semplicemente, suor Giovanna della Croce.
— Ventisette lire?
— Venticinque e mezzo, con la ritenuta.
— Ma voi siete all’elemosina, suor Giovanna della Croce! — gridò la salernitana, rabbrividendo.
— Sono all’elemosina, — soggiunse la monaca, aprendo le braccia, desolatamente.
Un più profondo silenzio. Si guardarono e stette, fra loro, un dolore forte come la morte.