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IV.
Prima di entrare nella Via Porto, la donna si fermò un poco, guardandosi innanzi, quasi esitasse a procedere. Erano le nove di sera e già la popolarissima strada appariva insolitamente deserta; i radi fanali a gas non poteano che dileguare fiocamente le tenebre; e nella grande ombra notturna si disegnavano bizzarri profili di ammassi pietrosi, biancheggiavano dei monticelli, si rizzavano dei pali di legno. L’opera di demolizione della vecchissima via, era cominciata da un pezzo, ma procedeva con lentezza; l’inverno piovoso ne impediva i costanti lavori e mentre tutti gli abitanti di Via Porto si venian ritirando nelle vie adiacenti, nei vicoli, nei vicoletti, nei fondachi non ancora tocchi, la grande arteria, abbandonata quasi completamente, era un ingombro di pietre, di calce, di rottami, di travi, disselciata, coi suoi fanali strappati e lasciati a giacere, lungo distesi sugli ammassi di terra, coi suoi vecchi marciapiedi diventati dei pantani di melma, d’immondizie, sotto la pioggia. La donna che doveva percorrerla, curva, guardava per terra, innanzi a sè, temendo qualche mal passo, che la facesse urtare contro qualche cumulo di pietre e cadere in qualche fosso pieno di mota: poi, con un piccolo sospiro, sollevando la gonna, si avviò con cautela. Camminava pianissimo e molto curva; ciò non le evitò di sdrucciolare malamente, due o tre volte; ogni volta si fermava, come indecisa di continuare, piccola figura perduta, in quel deserto, in quelle ombre, in quel tragitto così periglioso. Pure lo compì. Scantonò per la terza via a mano diritta e il passo della donna parve si facesse meno incerto, meno pauroso: il corpo, però, non si raddrizzò.
La donna fece pochi passi nella via Sedile di Porto e levò gli occhi in aria: scorse un fanale rosso che pendeva da un balconcino al primo piano e su cui si leggeva, distintamente: Locanda della Villa di Parigi. Il portone, non grande, era aperto: nel fondo dell’androne, innanzi a una immagine della Immacolata Concezione, ardeva una lanternina e rischiarava stranamente la figura scolorita della Vergine, sotto cui, sovra un piccolo piano di pietra, erano collocati due vasetti mezzo rotti con fiori artificiali. La donna, passando innanzi a quella immagine pia, si arrestò, tenendovi gli occhi fissi: dopo essersi segnata, dal lieve moto delle labbra, sembrava che dicesse delle orazioni. Le quali non furono molto lunghe. Dopo un novello segno di croce, la donna si staccò dalla figura di Maria e intraprese l’ascensione di una oscurissima scala, a mano diritta. Il terreno, anche sulla scala, era umido e fangoso: la donna si reggeva al muro, strisciandovi contro, in mancanza di ogni altro appoggio. Mentre compiva questa salita, un passo si udì, alle sue spalle: qualcuno entrava nel portone, camminando presto, facendo le scale con una certa sicurezza. Era un uomo alto, giovane, a quanto si poteva distinguere. Passando presso la donna che, faticosamente, saliva, si curvò ad osservarla, curiosamente. Dovette riconoscerla subito, poichè l’uomo si rigettò indietro, come soddisfatto, e disse con una voce forte, ma roca:
— Buonanotte e salute!
— Buonanotte! — mormorò una voce bassa e affannosa femminile.
L’uomo oltrepassò la donna, lasciandosi dietro un puzzo di cattivo sigaro e sparve dentro una porta aperta, sul primo pianerottolo. La donna non vi giunse che più tardi, estenuata, forse, da un lungo cammino fatto nella giornata a cui quella traversata di Via Porto e quella scala avevano dato l’ultimo tratto. Anch’ella entrò nella porta aperta, al primo piano, e si trovò in una stanza di entrata.
Una donna sedeva presso una tavola sgangherata e al chiarore di un piccolo lume a petrolio, dalla palla di cristallo verdastro, tutto unto, lavorava macchinalmente a una lunga calza di cotone rosso. Era una donna sulla cinquantina, enormemente grassa, con una grossa testa su cui si erano già fatti radi i capelli: il suo corpo non aveva più forma precisa, umana, femminile: era una massa di grasso, spalle larghissime, petto e ventre riuniti, fianchi amplissimi, braccia corte e goffe, mani rotonde, rossastre, dalle dita fiacche che si muovevano intorno ai ferri della calza. Anche il volto della donna, grosso, gonfio, con un doppio mento, con le guancie che affogavano il naso e i già piccoli occhi, era di un brutto colore vinoso, a chiazze: una espressione dura, indifferente, si distendeva su quel viso. Quando la donna udì rumore di passi, guardò verso la porta, senza curiosità, e crollò leggermente la testa, avendo riconosciuto la donna che entrava. Costei si accostò alla tavolaccia che, insieme a due sedie zoppe, formava il solo mobilio di quella stanza di entrata, e salutò, sempre a voce bassa, dove ancora restava il fiato corto della scala fatta:
— Buonanotte! donna Carminella.
— Buonanotte a voi! — rispose il donnone, con aria indifferente, senza neppure fissare colei che la salutava.
— Mi avete conservato il letto? — richiese l’altra, con non so quale timidezza.
— Ve ne sono quanti ne volete di letti, — borbottò donna Carminella. E soggiunse, subito, aspramente:
— E voi, avete portato i cinque soldi?
— Sissignora, sissignora, li ho portati, — rispose subito la donna, mettendo la mano in tasca.
— E cavateli, — disse donna Carminella, sogguardando con aria di diffidenza.
Dalla tasca della gonna la donna cavò, ad uno ad uno, i cinque soldi e li depose, dopo averli novellamente contati, sovra un tavolino, a cui si appoggiava, sempre un po’ ansimante, la colossale padrona della locanda. Allora si vide, nel cerchio di luce del lume a petrolio, la mano della donna che deponeva i soldi: una mano lunga, scarnissima, dalla pelle indurita e grigiastra, su cui si disegnavano, molto grosse, violacee, le vene della mano dalle dita nodose, contratte, tremanti. La mano si ritirò, sparve, la donna restò in piedi, nell’ombra. Donna Carminella prese i soldi, li contò, li guardò ad uno ad uno, li fece anche saltare sulla tavola; poi, li intascò e soggiunse, quasi a dare una certa spiegazione:
— È impossibile fare credenza, capite? Qui si stenta giorno e notte, e che si ricava? Poco o niente. Se dovessimo far credenza, saremmo morti.
— Avete ragione, avete ragione, — mormorò l’altra, con un sospiro umile. — Vi è molta gente stasera?
— Così, così, — borbottò il donnone, sospirando anch’essa, cioè ansimando, ammansita un poco. — Ma siamo troppi. Vi sono troppe locande. Ve ne sono a quattro soldi, a tre soldi, proprio delle cantine, dei sotterranei, capite? Ancora un poco e vi saranno locande a due soldi, uomini e donne nella stessa stanza, e non se ne vergognano!
— Gesù! — disse l’altra, sonnolenta.
— Qui siete tutte donne, in una stanza, lo potete dire. Il timore di Dio, prima di tutto! Ci dormireste, voi, in una stanza dove si corica un uomo?
— Io preferirei dormire nella strada, sulle pietre, — soggiunse la donna, con un brivido di orrore nella voce.
— E perciò pagate cinque soldi! — esclamò trionfalmente donna Carminella. — Se volete andare, potete: sapete che è la terza stanza, la migliore.
— Chi vi è, stasera? — interrogò timidamente l’altra.
— Da voi? Vi è donna Fortunatina, sapete, la butterata, quella che sta a mezzo servizio: nel suo letto ho permesso che tenesse le sue due bambine. Che ci volete fare, un po’ di carità ci vuole! Si stringeranno. Mi son presi solo cinque soldi; il mio cuore è troppo tenerello. Nel secondo letto, vi è una nuova, una giovane. Non la conosco. Si chiama Maddalena Sgueglia. È malata, pare. Ha una tosse, una tosse! Speriamo che vi lasci dormire. Gli altri due letti sono vuoti.
— Io vado, buona nottata! — disse la donna avviandosi.
— Buona nottata! Ho da vegliare come sempre. Faccio giorno notte e notte giorno. Dormo demani, io! Quel sonno che non mi va nè per l’anima, nè per il corpo.
— Non potreste dormire? — osservò dolcemente la donna, che voleva ingraziarsela.
— Voi scherzate! È impossibile. Se non faccio la guardia io, chi la fa? Possono succedere tante cose. Dio lo sa! — disse, infine, misteriosamente, donna Carminella.
— È vero, buona nottata, buona nottata!
Ancora, se ne andava.
— Il soldo pel caffè, me lo lasciate? — chiese la grossa femmina.
La donna esitò un poco.
— Veramente.... non potrei....
— Ma che, volete crepare? Meglio il caffè che il pane. Un soldo di caffè, la mattina, vi accomoda lo stomaco.
La donna crollò il capo, come poco convinta: cercò per un certo tempo in tasca, ne tirò fuori un altro soldo e lo consegnò alla donnona. Costei, di nuovo, se lo studiò: poi se lo gettò in tasca, con soddisfazione: quella piccola industria della tazza di caffè le stava molto a cuore. E diede dei chiarimenti.
— Corrono tante monete false.... — soggiunse, — domani mattina avrete una tazza di caffè, che vi consolerà. Buona nottata!
No, nella locanda della Villa di Parigi gli uomini non dormivano nelle stesse stanze delle donne, come in quasi tutte le locande, a tre e a quattro soldi la notte, del quartiere Porto: la Villa di Parigi conservava quest’ultimo lembo di decenza. Ma per raggiungere le stanze ove le povere donne che non avevano casa e, sopratutto, non avevano otto, dieci lire mai tutte insieme, per affittare un basso e sovra tutto, sovra tutto, non avevano ne uno stramazzo nè una sedia da mettere in questo basso, dovevano ricorrere a questa miserabile, sudicia, immonda e talvolta infame ospitalità notturna. Per raggiungere queste stanze, le donne vecchie e giovani, zitelle e maritate, note ed ignote, bisognava che attraversassero due stanze ove dormivano uomini. Le due grandi stanze dei maschi possedevano solo quattro letti ognuna e una sedia, accanto al letto, non altro mobilio: delle funi circondavano, in alto, questi letti, delle funi a cui erano sospesi dei lenzuoli di tela grezza che formavano tenda e dividevano, sempre per la decenza, un letto dall’altro. Ma non tutte queste tele giungevano a separare completamente i letti, troppo corte, troppo strette: altre erano mezze sollevate, rigettate indietro, non curandosi quegli uomini di celarsi agli altri ospiti notturni. Un lumicino fioco ardeva nella prima stanza della locanda; un altro ne ardeva nella seconda: e s’intravvedeva, al loro piccolo chiarore, l’abbandono, simile alla morte, di coloro che erano venuti a cadere là, immersi in un sonno di piombo, dopo una giornata di vagabondaggio di lavoro, di fame, di stenti, forse dopo una giornata di vizio. Come cadaveri giacevano su quei sozzi e duri letti, ravvolti nelle coperte grigiastre e sporche che migliaia di corpi avevano coperto, ravvolti nelle aspre e male odoranti lenzuola, col capo immerso nel magro guanciale, come cadaveri, buttati lì, in un torpore, donde solo il respiro affannoso di qualcuno, il russar grave di qualche altro, il russare stridulo di un terzo, dava segno di vita, rompendo il silenzio. Vi era, nell’aria, un cattivo odore umano di corpi sporchi, di fiati graveolenti, di fiati malati, di tabacco fetido, fumato nelle pipe di creta e, malgrado il freddo di quella notte d’inverno, un tepore malsano, era nelle due camere, ove otto uomini dormivano.
La donna, per attraversare quelle due stanze, per recarsi alla terza ove si trovava il letto che le era destinato, insieme a due altri ospiti femminili, parve che avesse ritrovato un vigore che le mancava. Mentre per Via Porto, per le scale, aveva un’andatura lentissima, fermandosi a ogni passo, invece passando per quelle due stanze abitate da otto uomini dormienti, ella quasi quasi corse, rigida, fra le due file di letti, senza voltare la testa nè a dritta nè a sinistra. E malgrado che ella tentasse camminare leggermente, per non fare accorgere nessuno del suo passaggio, qualcuno si svegliò, si udirono scricchiolare gli assi di uno o due letti, sotto i pesanti corpi che si rivoltavano; uno di questi uomini, forse quello giovane, che aveva salutato la donna nella scala e che essendo giunto da poco, coricato da poco, non aveva ancora preso sonno, si levò in mezzo al letto.
La donna si precipitò sulla porta della terza stanza che era chiusa con la sola maniglia e sparve lì dentro, affannando pel cammino fatto, o, forse, per altro.
Nulla di diverso aveva questa terza stanza, ove entravano e dimoravano solo donne, dalle altre due ove dormivano gli uomini. Vi erano i soliti quattro letti, con le sedie accanto, ove erano deposte le povere vesti delle dormienti: lo stesso lumicino vi dava un po’ di luce. Donna Carminella non avrebbe, certo, fatto questo consumo inutile di olio puzzolente, se la Questura non l’avesse obbligata, con continue minaccie, a tenere dei lumi nelle diverse camere. Solamente, sui quattro letti, vi erano delle immagini sacre, di carta, attaccate con la colla al muro, una Madonna Addolorata, un Sant’Antonio, un San Gaetano: una immaginetta delle anime del Purgatorio era fermata a mala pena, con gli spilli, sul muro. In un letto dormiva Fortunata, detta la butterata, la serva, il cui marito era andato all’ospedale ed ella non aveva più potuto pagare la pigione di un basso. Fortunatina teneva abbracciata, nel letto, per stare meglio, la sua figliuola più piccola, una bimba di tre anni, e la più grande, di cinque anni; dormiva in contrario, con la testa verso i piedi del letto. Raggricchiate, strettissime, esse non potevano muovere un piede nè una mano, senza far cadere una delle altre persone, o senza pericolo di cadere esse stesse. Ogni tanto, da quel giaciglio un sospiro di donna veniva fuori: era la povera madre che non poteva distendere le sue membra, abbattute dal diurno lavoro servile; e un balbettìo lamentoso infantile: era una delle due figliuolette che chiedeva qualche cosa, nel sonno, nel dormiveglia, che si lagnava, sovra tutto, di non potersi muovere. Nel secondo letto occupato, un’altra forma umana femminile si distendeva, ma non giaceva come le altre. Al chiarore incerto si vedeva che l’abitatrice di quel letto aveva sollevato contro il muro il suo origliere e vi aveva appoggiate le spalle e la testa. Guardando bene, fra la penombra, abituandosi a quella poca luce, si scorgeva che la giovane di cui aveva parlato donna Carminella, stava su e non dormiva, con un paio di occhi spalancati.
Rincantucciandosi dietro il terzo letto, che era vuoto, la donna cominciò a spogliarsi, senza fare alcun rumore. Fra i letti delle donne non era distesa nessuna tela, per separarli, come se il pudore, fra donna e donna, non esistesse. La donna deponeva i panni, man mano, sulla unica sedia, presso il letto: e infine vi si appoggiò un poco, come se pregasse. E, in quel momento, dal letto ove stava colei che aveva dichiarato chiamarsi Maddalena Sgueglia alla padrona della locanda, venne un secco, continuo, crescente rumore di tosse. Fra un urto e l’altro, si udiva un sospiro fischiante di colei che tossiva e, in un più lungo intervallo, un gemito:
— Oh Madonna mia!
A quel rumore fastidioso e continuato, la serva Fortunata si mosse nel suo letto, le due bimbe si svegliarono anch’esse, spingendosi, dandosi dei calci, disputandosi, infine, quel pochissimo posto che avevano.
— Zitto, zitto, — mormorava la madre, fra il sonno, stringendosene una al petto, cercando l’altra, con la mano, per farla quietare.
La giovane, più lentamente, più straccamente, seguitava a tossire, con la voce roca e bassa, con uno stridìo del fiato fra i denti: e qualche lamento, ancora, le usciva dal petto, insieme con la invocazione alla Vergine. Poi, quando l’accesso fu calmato, ella dette proprio in un grido di dolore.
— Che avete? Che vi sentite? — chiese, dal suo letto, ove si era messa sotto le pesanti coltri, la donna giunta l’ultima.
— Ah, io sono malata! sono malata! — gemette la giovane, battendo la testa sull’origliere, convulsamente.
— E statevi tranquilla, allora: se no, è peggio, — soggiunse la donna, vedendo che quella continuava ad agitarsi nel suo letto.
— A che serve? A che serve? Tanto, non dormo più la notte. Mi corico per coricarmi. Appena sento il calore del letto, mi viene la tosse, questa brutta tosse e non dormo, non dormo più.
Parlava piano, Maddalena Sgueglia, perchè le mancava il fiato e perchè temeva di risvegliare la povera serva che si ravvoltolava nel letto, con le due figliuolette: e molto piano le rispondeva la donna, venuta in ultimo.
— L’avete da molto tempo, questa tosse? — chiese alla giovane, con un senso di pietà.
— Da sei mesi e più. Non mi dà pace. Con questa tosse, io me ne moro.
— Speriamo di no, speriamo di no, — soggiunse pietosamente l’ignota.
— E non è meglio? Non è meglio che io muoia? Che ci campo, io, su questo mondo? Che ci resto a fare, io?
— La volontà di Dio, la volontà di Dio!
Maddalena Sgueglia si chinò a guardare bene colei che le consigliava l’obbedienza. Ma non arrivò a scorgere che un poco del viso, la parte alta, di colei che le parlava: non vide che delle rughe profonde, scavate in una pelle giallastra: il resto della testa scompariva in qualche cosa di nero, un fazzoletto, forse, che la ignota aveva tenuto sul capo, per ripararsi dal freddo.
— Eh, proprio di me, si deve occupare il Padre Eterno? Io sono una miserabile, che campo di nascosto dalla sua volontà!
Qui un altro accesso di tosse secca, irritata, irritante, scosse il petto della giovane; e fu più lungo dell’altro. La ignota guardava, ascoltava, senza dir nulla.
— Mammà, mammà, la tosse di questa giovane non mi fa dormire, — si mise a singhiozzare una delle bimbe di Fortunatina.
— Ficcati sotto le lenzuola, turati le orecchie, dormirai, — borbottò, sempre piena di sonno, la madre.
— La sento, la sento sempre. Dille che si stia zitta, dille che lasci dormire la gente, — gridò la bimba.
— Hai ragione, hai ragione, creatura mia, — rispose la malata. — Pure il sonno a quest’anima di Dio, mi toccava di togliere! Ah che castigo, che castigo!
E un sospiro straziante le uscì dal petto.
— Non ti puoi stare zitta? — domandò la bimba dal letto, donde levava la piccola testa, con gli occhioni spalancati. — Perchè non vai da un medico? Quello ti ordina una cartina e tu ti guarisci.
— Sono andata dal medico, quando aveva denari. Mi ha ordinato la cartina: l’ho presa e non mi ha fatto niente.
— E perchè non hai preso le altre cartine?
— Perchè non avevo denari.
— Ah tu pure, tu pure, non hai denari, come noi?
— Io pure. Se no, non starei qua.
La malata sospirò di tristezza, questa volta. Anche la donna ignota, dal suo letto, dove non dormiva, sospirò: e la bimba, dai piedi del letto ove giaceva, curva come un punto interrogativo, emise un sospiro. Tacquero. Ognuna, forse, cercava di riprendere sonno, o di addormentarsi. La bimba dovette essere la prima, poichè il suo respiro leggiero si unì a quello di sua madre, più grave, più forte, a quello leggerissimo della sua sorellina. La malata anche parve che si assopisse un poco, sempre sollevata sul suo gramo guanciale, con le coperte ammucchiate sul petto e avendo gittato sui piedi tutte le sue vesti, per avere più caldo; ma si udiva, sempre, dal suo letto, un fiato breve e fischiante. Dal letto della donna ignota non giungeva nè un forte russare, nè un grosso respiro; se ella si era addormentata, doveva avere il respiro corto e mozzo dei vecchi e dei bambini.
Il silenzio in quella terza stanza della locanda Villa di Parigi durò oltre due ore, senza che nulla venisse a turbarlo. Ogni tanto, dalle due stanze attigue veniva qualche rumore, scricchiolìo di letti su cui pesanti corpi addormentati si voltavano e si rivoltavano; qualche parola forte, detta nel sonno: una grossa scarpa cadde, da una sedia, a terra e qualche bestemmia giunse, farfugliata da coloro che erano mezzo svegli; ma la porta chiusa impediva di udir bene. Dalla via, ogni tanto, qualche rumore attenuato giungeva: era un passo grave, di qualcuno che rientrava in quegli sporchi e oscuri paraggi intorno Via Porto; era qualche passo incerto e strascinato di mendicante, di trovatore di mozziconi, di cenciaiuolo disperso in quell’intrico di straducole: era il canto balbettato di un ubbriaco che gridava raucamente il ritornello di una canzone sentimentale: ed era, più spesso, qualche fischio lungo, espressivo, a cui un altro fischio lontano, debole, rispondeva, il fischio tradizionale dei malandrini, il fischio dei ladri, che, nella notte, fa fremere di sgomento anche coloro che sono chiusi e difesi nelle loro case, al sicuro, nei loro letti. Ma tutto ciò arrivava affiochito dalla distanza. Due volte, quando si udirono dei fischi più vivaci, più lunghi, nella strada, Maddalena Sgueglia si svegliò dal suo sonno di persona infermiccia e tossicchiò un poco, sordamente: poi ricadde nel suo torpore. Così, sulle teste, sui corpi di quegli uomini sconosciuti che dormivano nelle stanze seguenti, sui corpi e sulle anime di quegli uomini certamente miseri, forse viziosi, forse criminali, si distendeva, nell’ambiente di una povertà estrema, di ospitalità duramente venale, di comunanza umiliante e repugnante, di contatti pericolosi sotto ogni rapporto, si distendeva il beneficio del sonno. E nella camera ove le tre donne e le due bimbe giacevano, sulle tre donne e sulle due creaturine venute da opposte vie, da miserie differenti e pure eguali, venute da una giornata di fatica, di delusioni e di stanchezze mortali, venute da tutte le torture umane, ignote torture, in quella camera che esse usavano insieme, non conoscendosi, nulla sapendo l’una dall’altra, costrette a quell’unione e a quel contatto, su quei letti duri, fra quelle lenzuola aspre che appena ne covrivano i corpi, sotto quelle coltri pesanti che non davano calore, in quella camera, anche, si distendeva il sonno, divino beneficio di ogni creatura umana, la più infelice, la più abbandonata, la più dispersa, nel mondo.
A un tratto, la maniglia della porta che metteva in comunicazione le due stanze, si schiuse: qualcuno comparve nel vano.
— Chi è? — chiese Maddalena, la giovane malata, che aveva un sonno leggerissimo, alzandosi sul letto.
— Zitto! sono io, donna Carminella....
E il donnone, la cui voce era molto turbata, si accostò ai letti, traballando sulle sue gambe corte e grasse.
— Che cosa è? Che cosa è? — chiese Maddalena, agitatissima.
— Non abbiate paura: è cosa da niente; — balbettò la padrona di casa, parlando più forte, quasi per risvegliare le altre persone dormienti.
— Che è successo? — domandò Fortunatina, la serva, levandosi sul letto, con la figliuola più piccola attaccata al collo. L’altra si era già levata dai piedi del letto e si guardava intorno.
— Ci vuole pazienza, ci vuole.... sono disgrazie.... — balbettò ancora donna Carminella.
— Che disgrazie? Che disgrazie? — chiese, tutta tremante, la donna, l’ultima arrivata, dal suo letto.
E quando vide che tutte erano sveglie, l’enorme donna pronunziò la frase spaventosa:
— Vi è la polizia.
Maddalena Sgueglia dette in un grido stridulo e si nascose la faccia fra le mani; Fortunata si mise a piangere, tirandosi le due figliuole accanto; l’altra donna non parlava, ma si udivano battere i suoi denti dal terrore.
— Ma perchè fate questo? — esclamò donna Carminella. — Perchè strillate? Perchè piangete? Che vi può accadere? Che vi può fare, la polizia?
— Madonna mia, Madonna mia! — seguitava a gridare Maddalena.
— Pure questo, pure questo! — esclamava, fra le lacrime, Fortunata, la povera serva.
L’altra, la terza donna, allibita, certo, non proferiva verbo, ma si comprendeva che il suo terrore doveva essere più grande di quello delle altre.
— Ma infine, se non avete fatto nulla, la polizia vi lascia in pace! — gridò donna Carminella che cercava, ella stessa di dominare la sua inquietudine.
— E che ci viene a fare, dunque, la polizia, se non abbiamo fatto nulla? — esclamò Maddalena, che non si dava pace.
— Ci viene.... ci viene.... — perchè ci deve venire, — mormorò la donnona: — queste visite si fanno sempre....
— Sì, quando si cerca qualcuno per arrestarlo! — gridò Fortunata, che era più esperta.
E Maddalena, Fortunata, le due bambine, si misero a gemere, come se fossero sul punto di essere ammanettate e condotte in carcere. La donna ignota taceva, taceva; ma, probabilmente, era irrigidita dal terrore.
— Non si arresta nessuno! — sentenziò donna Carminella. — Nessuno, capite, alla Villa di Parigi! Qui, ladri e assassini non ce ne vengono.
Ma il tono era più audace che sicuro; si scorgeva che la grossa tenitrice della locanda, non era certa di quello che dichiarava.
— E, intanto, la polizia è qua! — gridò Maddalena. — Ci possiamo alzare almeno? Ci possiamo vestire?
— Non vi è tempo: il delegato è nella prima stanza, — disse donna Carminella, a bassa voce, per rispetto.
— Pure in letto, ci dobbiamo far vedere? — strillò Fortunatina, la serva, battendosi la faccia con le mani. — Oh, che mala sorte! Che mala sorte!
— E zitto, zitto, Fortunatina! Non gridate, che è peggio! Un poco di pazienza, un poco di pazienza!
— Mammà, mammà, io ho paura della polizia, — mormorò con voce soffocata, una delle bambine a sua madre.
— E questo ci manca, che le bambine si mettano a strillare!
Intanto, dei passi si udirono nella stanza attigua. Immediatamente, vi fu un silenzio di terrore nelle stanze delle donne. Macchinalmente donna Carminella aveva acceso un piccolo lume a petrolio, che era sovra un comò e nella stanza si era diffusa una luce più viva. Le tre donne erano tutte sollevate sui letti; Maddalena Sgueglia mostrava un viso consunto, affilato, sotto una massa di capelli castani disciolti e un par d’occhi stralunati; Fortunatina aveva un volto tutto divorato dal vaiuolo, a trent’anni, mostrandone cinquanta, rotta dalle fatiche, dalla fame, dalla mancanza di riposo: e la terza donna col lenzuolo tirato sulla figura, quasi a nascondersi tutta, lasciava vedere solo la sua fronte giallastra e rugata e un par di occhi infossati sotto le orbite, occhi di umiltà, di tristezza e di spavento. Adesso, dall’altra stanza, dei rumori si udivano, un parlottar concitato, un affrettarsi di esclamazioni fra ironiche e rabbiose, un andare e venire di passi. Donna Carminella, immobile, rigida, vinta anche essa da un terrore che non giungeva più a nascondere, tendeva l’orecchio, ma non osava muoversi dal centro di quella stanza. Tutte sembravano impietrite: e le due bimbe avevano nascosto il viso sul petto della madre, chiudendo gli occhi.
Di nuovo, la porta si aprì: entrò il delegato seguìto da due guardie in divisa. Il delegato era un giovanotto trentenne, alto, con un paio di mustacchi sottili, di lineamenti non brutti, ma con un’aria così dura di sbirro, con un aspetto così seccato e irritato di quelle visite, a quell’ora, che tutto il suo viso ne diventava ripugnante. Senza salutare nessuno, si avvicinò al letto di Fortunatina, la serva: costei lo guardava, senza fiato, pallidissima.
— Che fai, qui, tu? — egli chiese con voce forte e rude.
— Dormo.... dormo.... Eccellenza....
— Non hai casa?
— Mi mancano i mezzi. Eccellenza.... non ho nulla....
— Sei vagabonda, eh? — disse il delegato, con un ghigno di disprezzo.
— Nossignore, nossignore, io lavoro, io sono serva....
— Dove servi?
— Dal cavaliere Scarano, tutti lo conoscono, a San Giacomo.... Potete domandare....
— E ti chiami?
— Fortunata Santaniello, a servirvi.
— Sono figlie tue, queste?
— Sissignore, sissignore, Eccellenza!
— Non hanno padre, eh?
— Voi che dite! — esclamò la poveretta, offesa. — Non hanno padre? È all’ospedale, povero Pasquale, all’ospedale.... mio marito....
E si stringeva convulsamente le figliuole al petto, singhiozzando. Ma il delegato, senza curarsi più di lei, aveva girato sui tacchi e interrogava metodicamente la giovane malata, guardandola con maggior curiosità, ma con maggior disdegno.
— E tu, che sei venuta a fare qui? — le domandò, a sopracciglia aggrottate, masticando il mozzicone di un sigaro.
— A riposarmi un poco, signor delegato, — disse a voce bassa, tremante, Maddalena.
— Non hai casa?
— Non ho casa.
— Come vivi?
— Faccio la piegatrice di giornali.
— Neh! Guarda un poco! E quanto ti danno, al giorno?
— Quindici soldi, — e sempre più le tremava la voce, alla misera.
— Come ti chiami?
— Maddalena Sgueglia, ai vostri ordini, signor delegato.
— Padrona mia! — disse l’altro, ironicamente. — A crederti, che fai la piegatrice di giornali! A me pare che tu faccia qualche altra cosa.
— Nossignore, nossignore! — gridò disperatamente la giovane. — Io non sono quel che dite! Domandate di me, domani, alla tipografia del Giornale di Napoli, Maddalena, Maddalena, la malata, tutti mi conoscono. Per amor di Dio, questo ci mancava!
— E non ti offendere! Non ti offendere! — disse brutalmente il delegato. — Qua siete tutte degli angioli, in questa locanda. A sentir voi, campate tutte onestamente, come tante Madonnelle.... già.... già....
— Signor delegato, signor delegato! — esclamarono Fortunatina e Maddalena, piangendo ambedue.
Egli aveva ancora girato sui tacchi, avendo fretta, forse, di finire quella visita, in quelle stanze puzzolenti, fra tutti quei cenci sordidi, in mezzo a quella miseria. E si trovò dinanzi donna Carminella che lo guardava, immobile, con gli occhi sbarrati, piena del più grande sgomento.
— Voi prendete sempre i nomi di chi viene, qui, la notte? — le chiese, con le mani in tasca, cercando i fiammiferi per accendere il suo mozzicone.
— Ma come, Eccellenza, ma come! Sempre voglio sapere i nomi....
— Dovreste tenere un libro.... un registro.
— Io non so nè leggere nè scrivere Vostra Eccellenza....
— Ci vuole un registro.... se no, pagate la multa.... e vi chiudo la locanda.
— Va bene, va bene.... — mormorò la grossa donna.
— E chi altro, avete, adesso? — chiese il delegato, che credeva di aver finito e faceva questa domanda per scrupolo di coscienza.
— Quest’altra donna, — disse donna Carminella, scostandosi e scovrendo il terzo letto occupato.
— Oh! E voi che fate qui? — domandò, monotonamente, il delegato alla donna.
— Sono venuta per dormire, — rispose la donna con voce fiochissima, trepida, infranta.
— Ci venite spesso?
— Da qualche tempo. Non ho casa, — replicò la donna, sempre con lo stesso tono di voce debole e rotta.
— Siete vagabonda?
— No, no.
— E come vivete?
— Ho una pensione.... — mormorò la interrogata.
— Di quanto?
— Di diciassette soldi al giorno.
— E chi ve la dà, di grazia?
— Il Governo, — disse la donna e voltò la testa in là.
Il delegato girò gli occhi verso donna Carminella, come per interrogarla. Costei, incoraggiata, si piegò verso il delegato e gli sussurrò una parola all’orecchio. La donna teneva sempre la testa rivolta dall’altra parte. Il delegato le chiese, di nuovo, ma più piano:
— E volete dirmi il vostro nome?
La donna tacque. Non aveva udito, forse?
— Vorrei sapere il vostro nome....
Ella non rispondeva. Esitava forse?
— È necessario che mi diciate il vostro nome, — ripetette, per la terza volta, il delegato, ricominciando a seccarsi.
— Io mi chiamo.... mi chiamo Luisa Bevilacqua, — fu la risposta, infine, della donna, debolissima, come un soffio.
— Non avete nessun soprannome?
— No, nessuno.
— Non avete mai portato altro nome?
Ancora, ella esitò. Poi d’un tratto, come se si fosse decisa, con un gran sospiro, disse:
— Mi chiamo Luisa Bevilacqua. E non ho mai portato altro nome.
*
Le campane della Pasqua di Risurrezione allegramente risuonavano per l’aria tiepida primaverile, in quella domenica bella di mezzo aprile. La gente entrava ed usciva dalle chiese, dove finivano i canti delle messe solenni e seguitavano le orazioni delle messe piane: alla porta delle chiese si vendevano immagini e mazzi di umili violette pasquali, da vecchi e da bimbe: agli angoli delle vie più aristocratiche i fiorai offrivano delle rose tea e dei lilla fragranti, fiori più ricchi. Il viavai era grande, dovunque, per le strade piene di sole, lungo i magazzini che ancora non si decidevano a chiudere le loro imposte, vedendo la folla che si fermava innanzi alle vetrine scintillanti. Donne giovani e giovanette andavano lente, lungo i marciapiedi, guardando innanzi coi loro begli occhi dolci e fieri, napoletani, ove si alternano, seducentemente, il languore e la vivacità; uomini e giovanotti venivano loro incontro, o le fiancheggiavano o le seguivano, in cerca di un’occhiata, di un sorriso, di un cenno tenero. Il movimento delle carrozze padronali e da nolo era continuo, crescente; fra due giorni vi erano le corse dei cavalli, il grande spettacolo a cui partecipano, animatamente, nobili e popolani, in Napoli. Tutto, intorno, aveva un’aria di gioia, che veniva dalla luce bionda del sole, dalla carezza dell’aria, dalla giornata di festa, da quel sentimento di liberazione e di giocondità onde è presa la folla, dopo le tristezze della Settimana Santa. Da ventiquattr’ore le campane che avevano taciuto, risuonavano, con toni gravi e con toni cristallini, in liete volate, ora lontane, ora vicine: e il mondo godeva quel millenario anniversario della Resurrezione del suo Redentore.
In alto della via Toledo, proprio in alto, ove essa finisce nella piazza Dante e vi perde il nome, diventando, dopo, la salita Museo, sul lato sinistro di chi ascende verso piazza Dante, è una strada che conduce al palazzo di Tarsia. Strada di transito, per andare verso le vie di Pontecorvo, di Montesanto e della Pignasecca, la via Tarsia è molto frequentata nei giorni feriali: poco, nei giorni festivi. Invece, in quella domenica di Pasqua, lungo i due suoi marciapiedi, uno che rasenta le case che sporgono, dall’altra parte, in piazzetta Latilla, l’altro che rasenta il piccolo e popolare teatro Rossini, molta gente andava in su, verso il palazzo di Tarsia. Qualche gruppetto già si vedeva dove sbocca la grande rampa di via Pontecorvo, gruppetto di gente fermata che aspettava, in silenzio: altrove, sotto il portone del palazzo dirimpetto a quello di Tarsia, altri piccoli gruppi erano fermi. È il palazzo di Tarsia, palazzo municipale, dalla architettura che vorrebbe imitare, malamente, il disegno di una delle deliziose case pompeiane, tutta la facciata di questo palazzo, a un piano, era adorna di trofei di bandiere: piccole bandiere abbastanza grame, in verità! Anche il peristilio che arieggia, come ho detto, quello della villa di Diomede a Pompei, aveva, lungo i muri bianchi, alcune piante verdi, messe colà in maniera di addobbo. Innanzi al peristilio e fra le sue bianche colonne, degli uomini andavano e venivano, dando degli ordini, parlottando fra loro: ognuno di quegli uomini portava una lunga redingote e il cappello a cilindro: più, all’occhiello della sua redingote, portava una coccarda di seta rossa e gialla, come segno di riconoscimento.
E in verità, una singolare differenza vi era fra quei signori affaccendati che entravano ed uscivano dal grande salone severo del palazzo di Tarsia, con i gruppi di uomini e di donne, gruppi sempre crescenti, che si andavano formando nella via, intorno al palazzo; folla, infine, di uomini e di donne, che tenean gli occhi fissi sulla porta del salone terreno, quasi ansiosamente. Mentre i signori erano correttamente chiusi nella redingote, alcuni, più civettuoli, mostranti dalla redingote aperta il panciotto bianco, e alcuni, persino, desiderosi di sembrare della persona elegantissimi, stringenti nel pugno un paio di guanti tortorella, non calzati, la piccola folla che attendeva, muta e pure inquieta, tranquilla e pure ansiosa, aveva tutto un altro carattere.
Era una folla di poveri, di mendichi, quella che si era già raccolta, quella che si veniva raccogliendo: e mentre, qua e là, la povertà delle vesti di qualcuno appariva decente, in generale, quelle vesti e quegli aspetti rivelavano la povertà annosa, passiva, oramai di nulla vergognosa, caduta nell’abbiezione della massima sudiceria, del massimo sbrandellamento. Non solo i vestiti erano laceri, ma nessuna mano provvida era più venuta a rammendarli, a mettervi una toppa: non solo i vestiti erano stracciati, sbrandellati, sfilacciati, ma erano scoloriti, pieni di macchie, fangosi, trascinati per le vie piene di melma, sporcati addosso di notte, su giacigli ignoti, sporcati di notte, forse, nelle notti ove quella gente dorme all’aria aperta, accoccolata sui gradini di una chiesa, accoccolata sugli spiragli di una cucina, di un sotterraneo. Alla luce del sole, alla chiarissima luce primaverile, quelle vesti che erano dei cenci, mostravano tutto l’orrore della lunga povertà, della lunga incuria, della crescente degenerazione: dicevano non solo la miseria, ma l’abbandono; dicevano non solo l’abbandono, ma l’oblio di ogni decenza e di ogni pudore; dicevano non solo tutto questo, ma dicevano il profondo cinismo del vizio, il cinismo fatale, assoluto, che viene dall’aver troppo digiunato, dall’aver troppo avuto freddo, dall’aver troppo patito, dall’aver troppo disperato della vita, degli uomini e di Dio.
Le donne portavano delle gonne stinte, cariche di toppe di altri colori, che si erano consunte e lacerate alla lor volta e che non erano state rammendate; delle gonne pendenti da tutte le parti, tenute su a stento, battenti contro i piedi, a frangia di fango; portavano delle vite di altre vesti, che mostravano il luridume della fodera, sotto le braccia, ai gomiti, al collo: vite senza bottoni sul petto, con le maniche troppo corte che lasciavano vedere i polsi nodosi, rossi, nudi; vite guarnite ridicolosamente, in tanta miseria indecente, di vecchi ornamenti scolorati, provenienti, queste vite, da lontani atti di carità che non si erano più rinnovati; e portavano, le donne, al collo, sul petto, qualche straccio di fazzoletto colorato e stinto, annodato come una fune, qualche straccio di scialetto di lana, tirato invano da tutte le parti, a covrire le macchie e gli strappi del vestito. Due o tre di quelle donne erano scalze addirittura, venute dalla più nera miseria, dai sobborghi estremi della città, che confinano con la campagna; molte portavano gli zoccoli di legno, in uso ne’ quartieri popolarissimi e poverissimi napoletani; molte, i così detti pianelli, di grossolano cuoio, senza calcagno; altre avevano delle scarpe da uomo, con chiodi grossi.
In quanto agli uomini, ai poveri, ai mendicanti, la repugnanza che ispiravano le loro vesti, era anche più grande. Pantaloni macchiati orribilmente, cento volte rattoppati, tenuti su con lo spago, troppo larghi per chi li portava o troppo corti, lasciando vedere delle ignobili calzature, dei piedi calzati da scarpe rotte e senza calzette; gabbani da neri diventati verdi, da verdi diventati gialli, senza bottoni, senza mostre, senza orlature; camicie — qualcuno la mostrava, solo qualcuno — di cotone a scacchi, dove mancava il colletto, camicie di flanella, scure, grosse, che avevano l’aspetto così lurido da fare schifo, e sovra queste camicie delle cravatte che sembravano delle corde. Molti, col bavero della giacchetta, del gabbano, alzato, nascondevano ogni traccia di camicia e probabilmente non ne avevano. I covricapo più bizzarri erano sulla testa di questi poveri, di questi mendicanti: cappelli un tempo neri e ora sparenti sotto strati di polvere e di untume; berretti senza visiera; cappelli a cencio, sfondati, messi di traverso; un vecchio pezzente portava persino un cappello a cilindro, diventato marrone e tutto a pieghe.
La faccia e la persona di quelle donne erano singolari. Quasi tutte erano vecchie o sembravano tali, affrante dalla indicibile povertà, dal cibo scarso o nocivo, dai giorni senza pane, dalle stamberghe dove dormivano in quattro o cinque, in una sola camera: molte erano vecchissime con una grossa gobba, venuta dall’età e non dalla costituzione, quasi piegate in due; poche erano le giovani e queste, a occhi bassi, si erano andate a rincantucciare negli angoli, voltando la testa in là; e fra le giovani, anche, qualcuna si celava un poco con un fazzoletto annodato sotto il mento e che si abbassava sulla fronte. Molte di queste donne apparivano malate, alcune scialbe e flosce di pelle, per anemie che non si guariscono, per perdite di sangue nei miserabili parti fatti all’ospedale, donde le mandavano via dopo due giorni, per mancanza di nutrizione; altre gialle e gonfie per malattia del sangue, per malattie cardiache, per la soverchia grassezza; alcune obese, sformate. Una era ributtante, con gli occhi cerchiati di rosso, sanguinolenti; un’altra nascondeva male un enorme gozzo, sotto una sciarpa; un’altra aveva un tic nervoso, per cui, ogni tanto, il viso le si torceva ed ella dava in uno scoppio di risa frenetico; un’altra si appoggiava su due gruccie tutte scorticate. La comune espressione di queste donne era un’apatia profonda, che si stendeva sui loro visi e sui loro corpi stanchi, come rilasciati, sulle mani abbandonate in grembo, o lungo la persona; ma su questo fondo gemente, si manifestavano delle diversità. Alcune fra queste donne avevano l’aria truce e giravano intorno degli sguardi feroci; altre avevano l’aspetto timido, raccolto, quasi volessero sparire dalla bizzarra riunione; altre avevano il contegno dolente di un dolore quieto, oramai, oramai costante e inconsolabile; altre avevano l’aspetto provocante e cinico.
Quasi tutte tacevano: si appesantiva su queste pezzenti un silenzio, molte incapaci, oramai, di più lamentarsi, molte incapaci di pettegoleggiare sulla loro sventura, alcune oppresse, alcune vergognose di trovarsi colà. Erano riunite in gruppo, ma tacevano. Parecchie erano sedute sul marciapiede: una si era sdraiata lungo il muro appoggiandovisi e si era addormentata; altre portavano dei pallidi, queruli e laceri bimbi, al collo; alcune ne avevano due o tre in collo e per mano; una ne teneva cinque, attorno.
Negli uomini, le stimmate della miseria, della malattia e del vizio, erano più spiccate, massime nei vecchi, nelle loro rughe, nel colore della loro pelle, nella lacrimosità degli occhi, nei nasi adunchi, nei menti rincagnati, in quelle bocche violette, in quelle bocche livide, dalle labbra rientrate, sulle gengive senza denti; lunghe storie apparivano, di decadenze fisiche e morali, di degenerazione dei sensi e della coscienza, di traviamenti in tutte le sudicerie della persona e delle abitudini.
I più giovani — non ve n’erano di giovanissimi — erano o storpi, qualcuno zoppo, qualcuno cieco, uno col braccio rattrappito e cavato fuori dalla manica della giacchetta, o malati, con certe faccie sbiancate, con certe orecchie esangui di persone divorate da infermità fatali, con certi visi chiazzati di sangue ai pomelli, con certe guance plumbee dove la barba non rasa, metteva fuori dei peli ispidi, incolti, brizzolati, sudici anche essi. Vi era un lunatico che si riconosceva alla bocca storta, stirata verso un orecchio e agli occhi stralunati; vi era un cionco che, pure, andava e veniva, sulle sue mezze gambe, trascinandosi con le mani, e alle cui mani erano infilati degli zoccoli di ferro; uno di essi aveva il viso mangiato da un lupus, tutto fasciato con sporche bende, che si annodavano sull’alto del capo. Molti avevano il naso rosso degli ubbriaconi, con le guance rovinate dalla salsedine; qualcuno fumava un mozzicone; qualcuno fumava in una pipetta corta, di creta, da due centesimi; qualcuno ciccava. Fra gli uomini dominava, più che fra le donne, l’apparenza ignobile, quasi indegna di pietà, tanto era ributtante; quasi nessuno di quei mendichi aveva l’aspetto timido, dolente, come si riscontrava fra le donne, e in quasi nessuno vi era l’aspetto vergognoso di essere lì, innanzi al palazzo, riuniti in corporazione di pezzenti, in quell’attesa del giorno pasquale. Bensì, vari avevano l’aspetto duro e feroce, l’aspetto di coloro che, di notte, all’angolo di una strada, mettono il coltello ai petto di un viandante, per togliergli il portafogli; molti affettavano la sfrontatezza, con le mani in tasca, il labbro piegato in una linea di disprezzo, le spalle che si levavano ogni tanto, in atto di sfida. Non discorrevano fra loro, guardandosi, anche con occhi diffidenti, con sguardi obliqui, come se l’uno dovesse rapire all’altro, non so che cosa. Qualcuno si appoggiava al bastone, a capo basso, aspettando; molti si erano messi al sole, verso Pontecorvo, per riscaldarsi; qualcuno tossiva e sputava, ansimando, sotto la sorda tosse cronica dei vecchi. Taluni, fra loro, borbottavano a voce bassa, sogguardando verso il palazzo di Tarsia.
Quando tuonò il cannone di mezzogiorno, fortemente, poichè il rione di Montesanto è posto sotto la collina di San Marino, donde spara, dalla fortezza di Sant’Elmo, il regolatore, vi fu un doppio movimento. Tutti i signori in tuba e redingote si misero, in due file, sulla porta di entrata del palazzo di Tarsia, sul peristilio, persino nella via, fiancheggiati da alcune guardie di pubblica sicurezza, da qualche guardia municipale e da quattro carabinieri: dall’altra parte, i pezzenti, maschi e femmine, si avviarono verso quella porta, chi camminando presto, chi trascinandosi appena, secondo la loro età, i loro acciacchi, le loro malattie. Ognuno di essi, maschio o femmina, portava nelle mani un cartoncino bianco, su cui era stampato: pranzo per i poveri, e il posto e l’ora e lo stemma del Municipio di Napoli, che, per festeggiare la Pasqua di Risurrezione, dava pranzo a trecento mendicanti, centocinquanta uomini e centocinquanta donne. Con grande garbo, anzi con la esagerazione del garbo, quattro signori, in tuba e redingote, due da un lato, due da un altro, osservavano se le carte di ammissione erano in perfetta regola, e le ritiravano man mano. La sfilata era regolata, anche, dalle guardie e dai carabinieri che non lasciavano passare più di un mendico, o più di una mendica, alla volta; e nulla era più strano che quel passaggio di gente lacera, lurida, inferma, curva dalla vecchiaia o dagli stenti, fra quelle due file di correttissimi e persino eleganti signori, dalle tube rilucenti. Quasi tutti i mendichi e le mendiche, anche i più cinici, anche le più sfrontate, in quel momento del passaggio, abbassavano gli occhi, fra la timidità e lo scorno. Qualcuno addirittura non trovava la strada, per la soggezione e incespicava. Con le mani guantate, anzi, un bel signore dai grossi mustacchi castani, con la decorazione di cavaliere all’occhiello, raddrizzò una mendicante, che stava per cadere. Era una donna, vecchissima, magra, magrissima, che portava la testa tutta avvolta in un fazzoletto di cotone nero. Per la vergogna o per la debolezza, questa mendicante era stata lì lì per cadere.
Qualche contrasto accadde. Un giovane idiota, dal sorriso puerile sulla faccia imberbe, zoppo, con un grosso piede voltato contro l’altro, aveva perduto il biglietto del pranzo: egli fu respinto cortesemente, ma freddamente, da un gentiluomo in redingote. L’idiota piangeva, come un bimbo, mentre la sua bocca seguitava a sorridere: e invano un altro povero testimoniò che, un quarto d’ora prima, il giovane idiota aveva il biglietto, che glielo avevano dovuto rubare, vista la sua imbecillità. Una donna voleva entrare, coi due figli: e combattette coi signori alla porta, singhiozzando, dicendo che li avrebbe tenuti sulle sue ginocchia, giurando che sarebbero stati tranquilli: fu inutile. Ella carezzò i suoi figli, promise loro che non avrebbe mangiato, che avrebbe portato loro fuori tutto; disse loro di non muoversi da vicino al cancello: ed entrò, ancora tremante di emozione. L’altra, quella che ne aveva cinque di figli, portava due biglietti: non voleva entrare, lei, voleva mandare i suoi cinque figliuoli, con quei due biglietti, si contentava di non mangiare lei, purchè le sue creature mangiassero; e parlamentava, scongiurava l’uno, scongiurava l’altro, fino a che permisero, per eccezione, che entrasse lei e i due più piccoli, con due biglietti. Ma lo permisero per impazienza, quei signori, perchè già si faceva tardi, ed essi, in redingote e tuba, con la coccarda dai colori partenopei all’occhiello, già avevano consumata una lunga pazienza e una lunga amabilità, con quella processione di mendichi, di mendiche, di poveri veri, di poveri falsi, di viziosi ipocriti, di viziosi sinceri, persino di delinquenti.
Quando tutti i trecento banchettanti furono entrati nella vastissima sala terrena di Tarsia, erano quaranta minuti dopo mezzogiorno: la lenta teoria dei miseri non era durata meno di due terzi d’ora. Le mense erano disposte in due file, sul lato destro e sul lato sinistro del salone centrale, lungo i due colonnati quasi pompeiani, che dividono il salone dalle sale adiacenti: nel mezzo, fra le due mense, intercedeva un larghissimo spazio libero, per lasciar circolare le persone. Alla lunga mensa di mano dritta dovevano sedere tutte le povere, femmine; alla mensa a mano sinistra, tutti i poveri, maschi. Le mense erano messe senz’alcun lusso, ma con decenza: tovaglia e tovagliolo bianchissimi: bicchiere di vetro, ma nitido: cucchiaio e forchetta di stagno, nuovissimi, quindi luccicanti come se fossero di argento; coltello col manico di osso nero. Una grossa fetta di pane bianco e fresco era accanto a ogni coperto: una bottiglia di vetro, di poco meno d’un litro, piena di un vinello rosso chiaro, fiancheggiava anche ogni coperto. Alle spalle delle tavole imbandite, vi erano altre tavole, semplicemente coperte di tovaglie candide, ove i camerieri doveano dividere le vivande, tagliare altre fette di pane. L’aspetto delle mense, così, era semplice, non mancante di una certa gentilezza. Ma il vasto salone aveva sempre l’aria sua solita, di deserto agghiacciante e triste, malgrado le quattrocento persone, circa, che vi si agitavano dentro.
Poichè, adesso, tutti quei signori ben vestiti erano rientrati nella sala grandissima e, unitisi ad altri che già vi erano, si occupavano, con grande premura a far sedere quei trecento poveri. Altri signori, molto ben vestiti, andavano e venivano dai colonnati, dirigendosi alle sale adiacenti o tornandone, poichè, lì dietro, pareva fossero disposte la dispensa e la cucina. Fra quei gentiluomini vi erano anche delle signore, qualcuna elegantissima, qualcuna meno elegante, ma tutte vestite con una certa ricchezza e portanti sul petto, come gli uomini, una coccardina gialla e rossa. Anch’esse avevano l’aria un po’ misteriosa e un po’ affaccendata, di chi compie una missione piena d’importanza e piena di dignità. Esse erano le patronesse, le ispettrici, le sorvegliatrici di quel banchetto dei poveri: e nel loro sentimento di sacrificio avevano, in quel giorno di Pasqua, lasciata ogni altra occupazione, ogni altro svago e avevano voluto benignamente, caritatevolmente, presenziare quel pranzo d’infelici, di mendichi. Un paio di esse, anzi, si toglievano lentamente i guanti bianchi e denudavano le mani cariche di anelli, poichè la loro ferma intenzione era di servire a tavola i poveri. Forse era un voto che avevano fatto; forse volevano imitare il Redentore, che lavò i piedi agli apostoli. Una di esse, la più elegante fra tutte, alta, sottile, con certi magnifici occhi verdi in un volto bianco, con una ricca capigliatura di un castano dai riflessi rossastri, portava alle delicate orecchie due solitari da diecimila lire, guardava tutto questo con una curiosità stupita e un certo senso di lieve paura. Questa bella giovane si tratteneva più indietro delle altre signore, come ritrosa, come schiva: e si appoggiava sull’artistico manico del suo ombrellino, un manico di oro, tutto disseminato di piccole turchesi. Essa vedeva entrare i poveri ad uno ad uno, e restare in gruppo, a mano dritta, a mano sinistra, ed inarcava le sottili, gentili sopracciglia castane, come per un crescente stupore. Due volte, ella portò la mano guantata alla bocca. Odorava una fialetta di cristallo smerigliato bianco, dal coverchio formato da una grossa opale tutta circondata di diamanti: aspirava gli effluvi sani e vivificanti dell’aceto inglese.
Del resto, altre persone vi erano nella sala. Sulle gallerie del primo piano sbucavano teste di signore, di uomini, di bimbi che guardavano giù, con una curiosità grande. Erano famiglie di consiglieri comunali, di grandi elettori, d’impiegati municipali che, non avendo nulla da fare in quella giornata di festa e avendo udito a parlare, con una certa pompa, di questo banchetto dato ai poveri, erano venuti là a passare un’oretta. Vi era anche qualche ragazzo, venuto fuori dal collegio, per le vacanze di Pasqua. Lassù, nella galleria, come nei palchetti dei teatri, vi erano delle seggiole e dei seggioloni: le signore spettatrici, nei ricchi vestiti serici della Pasqua, ma portanti già i chiari cappelli primaverili, si curvavano sul parapetto della galleria, chiacchierando fra loro, comunicandosi le loro impressioni, dando in qualche piccolo grido di sorpresa, di pietà: il piccolo grido artificiale, delle persone ben pasciute, sane, ben vestite, cui appare il fantasma del povero, mezzo morto di fame, lacero, sudicio, in tutto il suo reale orrore. I collegiali, i bimbi, gittati sullo sporto delle gallerie, s’indicavano fra loro qualche pezzente e davano in qualche risata infantile. Le giovanette stavano diritte, sulle loro sedie, con la stessa immobilità, con la stessa distinzione, come in teatro.
Dopo qualche tempo di viavai, di agitazione, di ordini dati a voce bassa, coi cenni, da vicino, da lontano, la squadra dei signori in redingote e tuba aveva, man mano, fatto sedere i trecento poveri, centocinquanta per parte, ai posti loro assegnati. La fatica non era stata poca, materialmente parlando, per collocare tanta gente diversa, impacciata, lenta, malata, trascinante i passi, che non trovava la sua sedia, che esitava, intimidita, imbrogliata, innanzi a quella funzione del pranzare, in pubblico, a una mensa pulita, servita da camerieri in marsina e da signori rispettabili in toilette irreprensibile. A un certo momento, vi fu un istante di sosta. Tutti i trecento poveri erano seduti, aspettando: i signori erano in ordine sparso, alle loro spalle, nel centro della sala, in aspettativa, anch’essi, di riprendere il loro lavoro e qualcuno di essi, più affaticato, si metteva e si toglieva la tuba, dalla testa bollente: le signore caritatevoli, pietose, erano raccolte in un gruppetto, a un angolo, pronte anch’esse a lavorare per il massimo buon ordine di quel banchetto e due di loro, anzi, interessatissime, guardavano i poveri con le lunghe lenti, essendo miopi, e una di queste lenti, era in pesante argento cesellato alla maniera antica e l’altra di queste lenti era in tartaruga biondissima con un lungo monogramma in brillanti. Le due mense erano al completo: i poveri attendevano il loro pranzo, sotto gli sguardi delle persone che si spenzolavano dalle gallerie, giunte al colmo della curiosità, sotto gli sguardi tranquilli e sorvegliatori dei signori in redingote e tuba, sotto gli sguardi fissi delle poche signore che eran venute per presenziare, per ispezionare, per sorvegliare quel banchetto, persino sotto gli sguardi indifferenti e forse sprezzanti dei camerieri che dovevano servire a tavola quei poveri.
Ebbene, in quel lungo istante in cui si aspettava la prima pietanza, molti di quei mendichi e di quelle mendiche avevano curvato la testa, per evitare tutti quegli occhi, curvato la testa verso il loro piatto vuoto; molti tenevano semplicemente gli occhi chini, fissi in un punto, non volendo guardare in giro; qualcuno aveva steso la mano verso il pezzo di pane bianco, ma non aveva osato di spezzarlo o di portarlo alla bocca; qualcuno vi teneva la mano sopra, come se temesse di vederselo portar via; quasi nessuno aveva preso il tovagliolo e lo aveva spiegato. Ebbene, in tutti quei poveri, a capo basso, a occhi bassi, insieme all’imbarazzo, alla confusione, di trovarsi in quell’ambiente, fra quelle persone, oggetto di curiosità e non di tutta curiosità benigna, oggetto di pietà e non di tutta pietà sincera, oggetto forse, senza forse, di ripugnanza e di ribrezzo: ebbene, in tutti quei miseri ignoti, affamati, luridi, fra tante espressioni serie, una sola risaltava, invincibile: la umiliazione, la umiliazione umana, la umiliazione dell’uomo avanti l’altro uomo, a lui simile, fatto simile da Dio e gittato all’estremo posto della vita dalla nascita, dalla fortuna, dalla sfortuna, dall’errore, dal dolore, dal vizio: la umiliazione di trecento creature umane, fatte di carne e di ossa, con cuore e con coscienza, con sensazioni, impressioni e sentimenti; la umiliazione di trecento creature umane innanzi alla fortuna altiera, alla carità altiera, alla pietà altiera, alla elemosina altiera, pomposa, inutile e sprezzante.
Ma già, sulle tavole laterali, dove erano solo le tovaglie candide, arrivavano dei piatti, in cui una larga e grossa fetta di timballo di maccheroni fumava, con una crosta di pasta ben cotta nel forno, mentre, dentro, i maccheroni erano conditi al sugo di carne, rossastri, imbottiti di mozzarelle, di formaggio, d’interiora di pollo. Il servizio cominciò, rapido, silenzioso, deponendosi la pietanza innanzi a ogni povero dai camerieri, sotto gli ordini di quattro signori, che più si affaccendavano intorno alle mense. E allora, anche due delle sette signore che erano venute a presenziare, a ispezionare, a sorvegliare il banchetto, in quella sentimentalità forse vera, forse falsa, metà vera, forse, e metà falsa, due di queste signore, molto ricche nelle vesti, se non eleganti, quelle due che si erano tolte i guanti, facendo scintillare le molte gemme sulle dita bianche, si diedero minutamente a servire, intorno, intorno, i poveri. Andavano, le due signore, dall’uno all’altro, curvandosi verso loro, spiegando loro il tovagliolo, offrendo loro il pane, mescendo il vino: quei mendichi appena levavano il capo, sempre più confusi, ancora più umiliati, non rispondendo, lasciandosi servire, sentendo perfettamente, in quell’abbassamento volontario e altiero dei signori e delle signore, l’orrore della povertà data a spettacolo, l’orrore di quel cibo offerto per la carità di un’ora soltanto, l’orrore di quel banchetto pubblico, di cui tutti s’interessavano, come di un divertimento singolare, bizzarro, ma non somigliante a nessun altro.
Adesso, tutti i pezzenti mangiavano la loro fetta di timballo di maccheroni. Alla espressione di confusione e di umiliazione, un’altra se ne sostituiva, tutta materiale, tutta fisica: quella di una lunga fame mai completamente sazia e che stava per saziarsi, almeno per un giorno: quella di un palato lungamente disabituato da cibi succosi e copiosi e che poteva, per una volta, sentire il sapore di una pietanza gustosa. L’espressione dei volti diventò anche più volgare, anche più bassa, in quel lento divoramento di cibo, fatto da mascelle di vecchi, di malati, di esseri deboli; qualcuno mangiava voracemente, senza guardarsi intorno, come una bestia affamata che trangugia il suo pasto, nel cantuccio della sua tana; qualcuno masticava rumorosamente, in fretta, facendosi rosso per inghiottire troppo presto; qualcuno, con la forchetta, golosamente ricercava l’imbottitura prima, per poi mangiare i maccheroni e infine arrivare alla crosta; qualcuno s’imbrattava la bocca, il mento, senz’asciugarsi col tovagliolo, per la urgenza grande della fame. Tutti mangiavano goffamente, mal seduti, col cappello o col berretto sugli occhi, con la testa curva, con le mani deboli, tremanti o impacciate, che non sapevano maneggiare la forchetta e il cucchiaio. Le due signore cercavano di aiutare quella goffaggine, quella debolezza, quell’impaccio: ma, ogni tanto, innanzi a un mendico più lurido, più puzzolente degli altri, innanzi a qualche vecchissima mendica, la cui bocca senza denti, non arrivando a masticare i maccheroni, li lasciava sporcamente ricadere nel piatto, essi si arretravano, scoraggiate. Qualche mendico, qualche mendica, mangiava piano e poco: erano quelli, quelle, che misuravano la loro fame, avendo fuori la porta, avendo a casa, qualcuno che aspettava la sua parte del timballo di maccheroni. Era stato detto loro che, dopo, avrebbero potuto portar via gli avanzi, anzi la pietà comunale dava loro anche il tovagliolo e la posata, qualche cosa che costava cinquanta centesimi e che si poteva rivendere per cinque o sei soldi. Nella grande sala si allargava un odore di maccheroni conditi, un rumorìo di forchette e di piatti: i trecento poveri seguitavano a mangiare, serviti benignamente dai ricchi, dai fortunati, dalle eleganti donne, dalle belle donne, mangiavano con tanta ingordigia, con tanta realità di atti goffi e sconci, con tanta ignobilità di ventricolo affamato, che lo spettacolo cresceva di tristezza, infine, e di nausea.
La signora giovane, alta e snella, vestita di uno squisito abito color grigio-tortora a gentili riflessi di argento, portante intorno al collo un lieve, vaporoso boa di piume grigie dalle punte argentee, macchinalmente, si mosse anche essa dal gruppo delle altre cinque signore, che erano ferme e si dette a girare intorno alla mensa delle donne, dalla parte esterna, fermandosi, ogni tanto, a guardare qualcuna di quelle poverette, chinandosi, un momento, e dirigendo la parola a una di esse. Chi sa, la sua inazione, in un angolo della sala Tarsia, le era parsa poco cortese, poco pietosa, mentre era venuta per fare atto di carità cristiana e tanti occhi la osservavano; forse, un desiderio di impressioni più forti, più profonde, più ignote a lei, giovane, bella, ricca, probabilmente felice, la spingeva verso quella mensa a guardare meglio, a interrogare, a conoscere; e chi sa, poichè tutto accade, un desiderio di viva e di vera carità la spingeva verso quelle donne, verso quel suo prossimo, verso quelle donne create a sua somiglianza, come lei cristiane, la spingeva verso quelle creature che mangiavano il pasto pubblico, gittato loro in elemosina.
La leggiadra e fine signora, i cui begli occhi verdi sorrideano dolcemente dietro la sua veletta bianca, si curvava un poco sulle mense delle donne, per poter loro parlare, mentre esse appena levavano la testa per risponderle, tutte intente al piacere del cibo e forse infastidite da quelle domande. La giovine signora, dal volto bianco ove un sottile colorito roseo si diffondeva teneramente, parlava con una voce bassa e toccante, ove pareva che corresse, sempre, un lieve fremito di emozione. Forse non era emozionata, forse era tutta fisica quella vibrazione della voce, che dava a ogni sua frase una portata sentimentale assai più profonda di quello che non avesse; ma niuno poteva udire quella voce, senza scuotersi. Ella si era curvata, adesso, verso una donna cinquantenne, dal viso freddo e ostile, che divorava con rapidità gli avanzi della sua grossa fetta di timballo.
— Siete contenta, è vero, buona donna, della vostra Pasqua? — chiese la giovine signora, con un tono di bontà.
La mendica levò gli occhi, li riabbassò subito e a voce bassa, breve, come mortificata di quella richiesta, rispose:
— Sì, Eccellenza.
L’altra restò alquanto interdetta da quella secchezza di povera orgogliosa. Fece qualche altro passo, sempre dalla parte esterna della mensa, da cui, ora, i camerieri andavano sparecchiando i piatti vuoti del timballo, che i poveri avevano anche ripuliti, intorno intorno, con la mollica del pane. E la signora, in questo intervallo, in cui quei miseri e quelle misere si sollevavano un po’, guardandosi intorno, in attesa della seconda pietanza, interrogò una donna già vecchia dall’aspetto, piccola, scarna, con la testa ravvolta in un fazzoletto rossastro, come una contadina.
— Voi non siete napoletana, è vero? — le mormorò, con molta dolcezza.
La povera la guardò, con due occhi tristi, timidi, di animale ferito e malato.
— No, sono di Basilicata, — disse, con un forte accento di quella regione.
— E che fate? Che fate? — replicò la giovane leggiadrissima, con voce anche più insinuante.
— Facevo.... facevo la serva.... venni con una famiglia, di là, molti anni fa....
— E ora?
— Mi hanno mandato via.... da molto tempo....
— E perchè? E perchè? — chiese la signora che pareva piena del più vivo interessamento.
— Perchè ero malata.... aveva una malattia al cuore.... e non potevo servire....
— Avete questa malattia, poveretta?
— Sì, — disse la mendica, con un lieve rossore sulla faccia scialba, senza soggiungere altro.
E allora la signora si trovò incerta, senza saper che dire di più. Forse, in un istante, comprese quanto fosse inane quel suo interessamento, innanzi a certe sventure inguaribili, poichè vengono dall’essenza della vita istessa, dalle cose, dagli uomini: comprese, forse, a volo, che quelle domande, fatte, certamente, con molta pietà, non giovassero che a rinnovare, in quelle infelici, tutti i dolori di cui era contristata la loro esistenza. E restò muta, qualche tempo, pensosa, come preoccupata, ferma presso la mensa, con le mani appoggiate sull’elegantissimo manico del suo ombrellino.
La seconda pietanza appariva sulle tavole posteriori ed era distribuita nei piatti, rapidamente, per essere messa innanzi ai trecento poveri. Si trattava di una larga porzione di carne, cucinata napoletanamente a ragù, cioè nuotante in un sugo scuriccio e denso, dove son mescolati lo strutto, la cipolla e la conserva di pomodoro: intorno a questa porzione di ragù, per ogni piatto, vi erano tre o quattro patate, cotte nel medesimo brodo di ragù. E la voracità suscitata dalla lunga astinenza, la gelosità di chi, da anni, non ha mangiato carne, fece ridiventare animalesche, novellamente, quelle faccie di banchettanti. Moltissimi inghiottivano la carne, senza tagliarla, lacerandola coi denti, mentre il restante del pezzo si abbandonava sulla bocca o rimaneva sospeso alla forchetta; moltissimi non sapevano adoperare il coltello e si vedevano confusi e taciturni, guardanti silenziosamente il loro pezzo di carne; altri ne avevano tagliato un frammento e dopo averlo lungamente assaporato, riponevano il rimanente, per conservarlo a qualcun altro, per mangiarlo, loro, chi sa, l’indomani. Adesso, all’odor del timballo che ancora fluttuava nell’aria, si univa quello del ragù, insieme ai poco buoni odori di tutta quella umanità povera e sudicia; ma gli uomini in redingote e tuba seguitavano, imperturbabili, il loro affaccendarsi, ma le signore continuavano il loro giro, prendendo i piatti con le loro mani gemmate, a forza, da quelle di camerieri, perchè i poveri fossero serviti più presto.
La signora snella e fine, dalla voce che esprimeva una costante commozione di bontà e di dolcezza, si era fermata, in quel momento, di fronte a una povera, che stava aspettando la sua seconda pietanza, a testa china. Era una donna dall’apparenza vecchissima; la sua pelle del volto, fra giallastra e brunastra, aveva i solchi che vi possono mettere, forse, settantacinque e più anni di vita, ma di vita tormentata, torturata, fra tutti gli stenti. Cento storie di tristezza si leggevano in quel volto di decrepita, attraversato da tutte le tracce che lo sconvolsero. L’antichissima mendica era molto curva, con le spalle ad arco e col mento aguzzo, che quasi le batteva il petto: non doveva avere quasi nessun dente, poichè le labbra erano rientrate completamente sulle gengive e la bocca era rincagnata, il naso scarno dei decrepiti piegandovisi sopra. Portava, indosso, questa vecchissima mendica, uno straccio incolore di veste nera, dalle maniche troppo corte, che lasciavano vedere due mani cadaveriche: al collo aveva un cencio di scialletto di lana bianca, ma non annodato, sibbene bizzarramente tenuto fermo con uno spillo sotto il mento quasi con un singolare criterio di castità, ridicola a quell’età e in quella condizione: sulla testa che doveva esser canuta e forse rasa di capelli recenti era curiosamente annodato un fazzoletto di cotone nero, messo in tale foggia che pareva ella si fosse voluta bendare, poichè il fazzoletto le nascondeva anche le orecchie, annodandosi sotto il mento. Era collocata, questa vecchissima donna, quasi in fine della mensa dei poveri, verso l’alto della sala Tarsia, verso l’emiciclo: e colà, lontano, il movimento era molto meno vivo, la gente vi accorreva con minor premura. Essa stessa, la mendica, si era messa in un posto dimesso e non moveva le braccia per paura di urtare i suoi vicini, e non si voltava nè a dritta nè a sinistra, come raccolta nell’aspettativa.
In verità, adesso, il viso candido dai fugaci chiarori rosei della giovane signora, si era trascolorato sotto una espressione di malinconia: come un velo torbido ne aveva leggermente appannato lo scintillìo glauco degli occhi verdi grandi. Quello spettacolo di miseria, di sporcizia, di sventura, di vizio, di abbandono, aveva finito per turbare la sua secura coscienza di donna bella, amata, felice, inebbriata di vita. Forse, ella era già pentita di esser venuta, in uno slancio spontaneo e ingenuo, ad assistere a quel banchetto di povertà e di dolore; forse, già affrettava col desiderio il momento di andarsene. E prendendo il suo piccolo coraggio a due mani, si piegò verso l’antichissima donna, dal corpo curvato in due, dalla testa bendata di nero e china sul petto; tentò l’ultima interrogazione a quella povera più solinga, più taciturna e più abbandonata delle altre.
— Avete fatto una buona Pasqua, è vero? — le chiese, non sapendo trovare nulla di nuovo, nulla di meglio.
La vecchissima mendicante levò il viso tutto tagliato dalle rughe, dalle pieghe, dalle deformazioni dell’età, fissò sulla signora un paio di occhi castani, velati dall’umido e della vecchiaia, dalle ciglia arse, ma conservanti, questi occhi, una dolcezza triste e umile. Pure, non rispose.
— Non vi è piaciuto, di aver questo pranzo? — insistette la signora, con uno sforzo, sentendo che doveva strappare una qualche parola alla poverella.
— Sì, Eccellenza, — mormorò la vecchia, dalla benda nera che le fasciava la fronte e il collo.
— Sono molto buoni.... tutti quanti.... molto buoni, — soggiunse la signora, con un intenerimento nella voce, per sè, per le altre signore, per i gentiluomini.
— Sì, Eccellenza, — rispose, ancora, fiocamente la vecchia dal fazzoletto fermato sotto la gola con uno spillo, in intenzione singolare di castità.
E tacquero. Pareva che nulla più si dovessero dire, che nulla vi potesse essere di comune, fra quella vivente immagine di grazia, di eleganza e di ricchezza, e quell’emblema di ogni decadimento; fra la giovane signora e la misera che aspettava il suo pezzo di carne.
— Ora avrete la carne. Vi piace? — le domandò, con un tremolìo d’interesse.
— Sì, Eccellenza: mi piace.
— Sarà molto tempo, è vero, che non ne mangiate più, povera donna?
— Molto.... molto tempo.... — balbettò la infelice.
— Siete senza famiglia, è vero, povera donna?
— Io non ho nessuno.... nessuno, — replicò la vecchia, con voce smarrita.
— E che ne è, della vostra famiglia? Che ne è?
— Saranno morti.... — disse la vecchia, a occhi bassi, — saranno partiti.... non lo so....
— E siete così, abbandonata, povera donna? — disse la voce, un po’ emozionata, della signora.
— Sì, abbandonata, — disse, sottovoce, l’altra, a capo basso.
— Come vivete, allora, povera donna? Come vivete?
— Mi dànno.... mi dànno diciassette soldi al giorno, — e parve che un ultimo bagliore di rosso, salisse a quel viso consunto.
— Chi? Chi ve li dà? — chiese la donna bella, chinandosi ancora, in preda a una curiosità più forte.
— Il Governo, Eccellenza.
— Ah sì! E perchè?
— Perchè.... perchè ero monaca, — e la confessione fu fatta tremando.
— Monaca? Monaca? Eravate monaca! — gridò la signora, in preda a uno stupore doloroso.
Ora mettevano innanzi alla vecchissima donna che era stata monaca, tanti anni prima, mettevano il piatto della carne, ove il pezzo rossastro, brunastro del ragù era circondato da quattro o cinque patate rossastre anche esse, perchè cotte nel sugo del ragù. Ma la poverella non lo guardò neppure, il piatto: teneva le due mani scarne, gialle, cadaveriche, dalle vene gonfie e violacee, collocate ai due lati del piatto e non si muoveva. Sì, un rossore estremo le bruciava i pomelli.
— E dove, dove eravate monaca? — chiese la signora, con una pietà grande nelle sue parole.
— Nel monastero delle Sepolte Vive, — rispose la vecchia.
— Me ne ricordo, me ne ricordo, io era piccina! Molti anni fa, è vero?
— Sì, molti anni.... molti anni, — disse la vecchia, vagamente, dolentemente.
— Quanti anni? Quanti?
— Forse venti anni. Forse: non mi ricordo bene.
— Vi danno diciassette soldi al giorno, è vero? Che potete fare, con diciassette soldi? Cercare l’elemosina, è vero? — e la tenerezza triste, metteva quasi delle lacrime nella voce della signora.
— No, — mormorò, subito, la vecchia. — Io non cerco l’elemosina.
— E perchè? — chiese candidamente la giovane.
— Perchè mi vergogno.
— Ah! — esclamò l’altra. — Qualcuno vi aiuta, allora?
— No, Eccellenza; nessuno mi aiuta.
— Nessuno? Nessuno?
— Dicono che ho la pensione dal Governo: e nessuno mi aiuta.
— Oh, povera donna! Voi, forse, eravate una signora?
La vecchia donna crollò il capo, come se si trattasse di una cosa assai lontana:
— Sì.... sì.... ero una signora.
— E come vi chiamate? Come vi chiamate? — soggiunse la bella giovane, con una grande dolcezza.
— Io mi chiamo Luisa Bevilacqua.
Un silenzio.
— Mangiate la vostra carne, — disse la giovane.
Con mani tremolanti, la vecchia afferrò il coltello e la forchetta e si diede a tagliare la sua carne: la giovane la guardava, commossa, con l’interesse vano e inane che si prova innanzi a un caso straziante e sorprendente, ma a cui nulla si può fare. Poi, una novella curiosità la punse, mentre la vecchia sminuzzava il suo pezzo di carne.
— Ditemi: non avevate un altro nome, in convento?
L’altra si fermò dal tagliare e stette pensosa.
— Non portavate un altro nome? Un nome di religione?
La vecchia taceva. Non, forse, il viso si era cosparso del pallor plumbeo delle creature vecchissime?
— Ve lo siete dimenticato, forse, il vostro nome di religione, dopo tanti anni?
Ella non rispondeva, a occhi bassi, immobile.
— Possibile? Possibile che abbiate scordato il vostro nome di religione?
La bocca della vecchia, infine, si schiuse, a stento e disse:
— Mi chiamavo.... mi chiamavo suor Giovanna della Croce....
E col suo antico nome, uscito quasi per forza dalle sue labbra, dagli occhi velati della vecchiaia, sul volto consunto, due lacrime lente scesero, caddero nel piatto della carne. Col capo sul petto, invece di mangiare, la vecchia lasciava scorrere le più amare lacrime della sua vita, col suo nome.
Fine.