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Josè Blancos
Tay-See La fuga

JOSÈ BLANCOS


La povera Tay-See, il delicato fiorellino del Dong-Giang, abbattuto dall'uragano, ma irradiato dal tiepido sole tropicale, inumidito fra la siccità, che dovea ridonargli la semispenta vita, era stata portata quasi moribonda all'abitazione.

La giovinetta adagiata sul lettuccio dalle coltri di seta, fiaccata dalla gioia di aver riveduto colui che da tanto tempo languendo aspettava e fiaccata contemporaneamente dalla disperazione e dallo spavento di averlo riveduto di fronte alla morte, era caduta in uno svenimento che potevasi dire una mezza sincope.

Da tre ore non dava quasi più segno di vita. Se ne stava abbandonata, inerte sul lettuccio, più pallida di un cencio lavato, più fredda di una morta.

Si avrebbe potuto crederla morta davvero, se un affannoso respiro non sollevasse tratto tratto il seno e un gemito, uno straziante gemito, un singulto, non uscisse dalle inaridite labbra.

Ma la rosa, pur al momento curvata sull'esile gambo fino a terra, semifalciata, non doveva morire ancora, e il medico[1] ne lo aveva assicurato.

Il succo vitale non era del tutto spento, e doveva ritornarle più abbondante; quella terribile scossa, doveva essere la sua salvezza: doveva, più rigogliosa, tornare a rifiorire.

Tay-Shung, dopo di aver dovuto assistere alla fine dello spettacolo in ansie senza nome, era volato al letto della giovinetta.

Il terribile guerriero, tornato l'amante, sembrava pazzo, credendo che tutto fosse finito, che le nere ali della morte, che andavano sfiorandola sempre, l'avessero alfine toccata. Si dava pugni alla testa, stringeva delirante il corpicino dell'ammalata, copriva quel freddo e sempre più seducente visino d'infuocati baci, come volesse svegliarla sotto le carezze, come volesse trasfonderle il fuoco che lo divorava e lui, l'uomo dal terribile nomignolo, piangeva come un fanciullo.

— Ah! — esclamava egli con voce tremula come chi si tenga per non dar fuori e con accento disperato. — La è finita, il fiore inaridisce, morrà! Maledetto vento dei bianchi, le fu sempre fatale! L'hanno ammaliata, l'hanno stregata. I bianchi sono la mia sventura. Non può essere stato che quel bianco che le gettò un malefizio. Tutte le volte che uno di quegli stranieri fissò lo sguardo negli occhi di lei, svenne e fu sempre a un pelo di morirsene. Ma che hanno quei maledetti per struggere il povero fiore? Che hanno?... Portarono sempre sventura!...

Era due ore che si disperava, quando Tay-See rinvenne. La poveretta si alzò penosamente sui gomiti e girò uno sguardo smarrito per la stanza. Si credeva in preda a un sogno, a un terribile sogno. La voce di Tay-Shung la ricondusse alla realtà.

— Tay-See! — esclamò egli quasi fuori di sé per la gioia. — Oh! Mia bella Tay-See! Non voglio che tu muoia, mi capisci Tay-See, non voglio che tu muoia. Dimmi che posso fare per rivederti sorridere, per vederti felice. Tu hai qualche cosa, che rode il tuo piccolo cuore, tu stai male, terribilmente male. Oh! Dillo a me, e dovessi versare l'ultima stilla del mio sangue, mi sacrificherei senza un lamento. Tay-See, che hai, che ti si fece! Dillo, dillo!...

La giovinetta non rispose. Ella si chiedeva sempre se sognasse ancora, ma a poco a poco andava rannodando il fatto del mattino. Si ricordò di Josè, si rammentò di averlo veduto di fronte alla tigre e rabbrividì.

Volle parlare, volle sapere che ne fosse avvenuto, le labbra si agitarono, fremettero; volle pronunciare un nome, si tradiva. Gli occhi suoi s'incontrarono con quelli di Tay-Shung e le parve che le trafigessero il cuore. La nebbia che ancora la circondava dileguossi e vide l'abisso dove stava per precipitare. Impietrì.

— Tay-See! — esclamò Tay-Shung con voce supplichevole. — Oh! Tu ti senti male! Ti senti male!

La giovanetta scosse la testa con suprema energia.

— No... no... — articolò con una voce fievole. — No, Tay-Shung!...

— E perché quell'urlo, perché quello svenimento! Tay-See, mi nascondi qualche cosa.

— La tigre mi fece paura... Ah! Tay-Shung... quell'uomo... quell'uomo!...

— Che cosa?... Chi era quell'uomo?... Rispondi Tay-See!

— Nol so... dimmi... è morto?... è morto forse?...

La risposta era la vita o la morte. Tay-See guardò Tay-Shung con due occhi che mettevano spavento.

— No, Tay-See, ha ucciso la tigre! — rispose il guerriero.

La vista s'intorbidì alla giovanetta e fu per impazzire dalla gioia. Soffocò un urlo e non emise che un rauco suono per non pronunciare il nome di Josè. Una vampa salì a colorire il pallido volto, e il sangue impoverito le affluì, tutto al cuore. Si sentiva rivivere, sentiva che il fiore appassito rifioriva. Ma nulla dette a conoscere a Tay-Shung, cui bastava un sospetto per generare una catastrofe.

Solo in mente le balenò l'idea di salvare Josè.

— Tay-Shung — diss'ella con voce carezzevole. — Chiamami Kia. Ho bisogno di Kia.

— Che vuoi da Kia? Non son qua io? Ordina ciò che vuoi, sono tuo schiavo.

— Bisogna che le parli, Tay-Shung, lasciami parlare a Kia. Lo voglio.

— Hai ragione, Tay-See, sono tuo schiavo — rispose Tay-Shung. — Kia è nel giardino, l'ho veduta.

Si avvicinò alla giovanetta ricaduta sul letto esausta di forze, quasi delirante, tutta cangiata.

— Ah! Tu sei incomprensibile, Tay-See. Tu mi fai paura!... Paura!

Uscì e un istante dopo entrava Kia che in un salto fu presso il letto di Tay-See.

Kia, figlia di un quan-an o capo della giustizia e direttore delle poste di Bien-hoa, era una giovanetta di diciott'anni, con due occhi grandi furbeschi e alquanto obliqui, un bel visino ovale e più allungato di quello degli uomini e di membra vigorose quanto erano delicate quelle di Tay-See. Scaltra, spiritosa, ciarliera ma nel medesimo tempo secreta, era la grande amica del povero fiorellino del Dong-Giang, e la sua confidente e consolatrice.

Non vi era che Kia che sapesse la terribile passione che divorava la bella Tay-See, non vi era che Kia che conoscesse il nome dello spagnolo Josè e non vi era che Kia che potesse aiutarla nel terribile frangente e salvare l'amante.

Le due giovanette appena si videro si gettarono le braccia al collo.

— Oh! — esclamò Kia con profondo cordoglio. — Tu sei ammalata, Tay-See. Che mai può esserti accaduto? Come mai una tigre può averti spaventata a tal segno?

Tay-See la guardò con due occhi gonfi di lagrime senz'essere capace di dire parola.

— Tu piangi! — continuò Kia teneramente. — È una nuova freccia che entra nel petto della mia Tay-See, oppure un nuovo uragano che ha piegato il gambo della Rosa del Dong-Giang? Oh! Parla, parla, mia buona amica. Tu soffri, tu devi avere qualche cosa, tu devi dirmelo. Kia, tu lo sai, è tutta tua. Farai di me ciò che vorrai e io diverrò con ve, dàn o ranhò a tuo piacimento. So essere cicala, tigre e serpente.

— Kia — mormorò con voce rotta Tay-See. — Kia, mia buona Kia...

Una vampa le salì in volto, un tremito febbrile la prese e si abbandonò fra le braccia di Kia che la strinse amorosamente al seno come una madre farebbe di una fanciulla.

— Parla, Tay-See, che abbiamo di nuovo?

— Kia... l'ho veduto! L'ho veduto!

— Chi?... Lui, lo spagnolo, il tuo amato Josè?

— Lui, proprio lui, lui!... Ah! Quanto sono infelice Kia! È l'ultimo colpo per me. Io morrò!...

Kia lanciò un rapido sguardo nella stanza.

Andò ad aprire la porta per assicurarsi che nessuno poteva udirle e la barricò con un monte di stuoie, poi tornando al letto:

— Bisogna che tu mi racconti tutto, Tay-See. Lo voglio: dove l'hai veduto? Quando?

Tay-See mandò un sordo gemito.

— Era al recinto... combatteva la tigre!...

— Oh! Lui? Il prigioniero era il tuo Josè? Buddha, proteggetelo!...

— Sì — continuò con un filo di voce rotto dai singulti Tay-See. — Era lui, Josè, il mio amato Josè; l'uomo pel quale fino ad oggi lottai colla morte. Era lui, che dopo tante lune di angosciosa aspettativa, dopo tante disperazioni rivedo prigioniero di fronte alla tigre, di fronte alla morte!... Oh! Perché, perché il mio dio mi negò anche l'ultima consolazione di vederlo libero? Ah! Mia buona Kia, tutto è finito per la Rosa del Dong-Giang!...

Kia la guardò coi lucciconi agli occhi e la baciò a più riprese.

— Non voglio che tu muoia, Tay-See — diss'ella.

— Perché non vuoi che il fiore appassisca, quando la rugiada gli viene meno e non lo bagna più? Perché vivere, mia buona Kia, quando non vi ha speranza che mi sostenga? Aveva sognato da due lunghi anni di rivederlo, aveva sognato un lampo di felicità al suo fianco, fosse pure stato un atomo, e pur questo atomo mi fu negato dall'inesorabile destino. Veniva a salvarmi, veniva per dirmi ancora una volta come me lo disse a Saigon che mi amava, che mi avrebbe fatto felice, e il cattivo genio lo guidò sui kemays e la fatalità fra le braccia di lui, di Tay-Shung, fra le braccia del nemico! Tutto crolla a me d'intorno e con esso crolla il fiore, tutto si offusca a me d'intorno, e io mi confondo fra le tenebre!...

— Oh! Non parlare così, Tay-See! — esclamò Kia piangendo. — Tay-Shung non lo conosce.

— No, non lo conosce, non lo sospetta, ma che vale? Josè è un prigioniero di guerra, è un nemico, e morrà. Gli uomini della nostra razza sono inesorabili.

— Ma ha ucciso la tigre!

— Peggio per lui, morrà calpestato dall'elefante, sarà più atroce pel mio povero cuore. Sento che la sorgente della vita inaridisce. Sarà inaridita del tutto il giorno che morrà lui. Ah! Non ho più speranza! Morire, e morire dopo averlo aspettato tanto, di aver tanto sperato e dopo averlo veduto, è ben atroce, Kia, e mostruoso!...

Tay-See emise un rauco e straziante gemito che veniva su dal più profondo del cuore.

— Tay-See, io sono tua, io sono forte, che debbo fare? — disse Kia tutta commossa.

— Non ho più speranze, Kia. Sento già la morte sfiorarmi, ma non morrò che dopo di lui. Scenderò nella tomba assieme.

— Tay-See, io non voglio che tu muoia!... Se noi lo salvassimo?

Un sorriso d'incredulità sfiorò le labbra di Tay-See.

— Non sarà possibile. Affretterai la nostra motte — mormorò ella.

— Io sono scaltra, Tay-See, e so giuocare gli uomini.

— Ah!... — esclamò la misera. — Darei la mia vita per salvarlo!

— Ma noi lo salveremo, Tay-See — disse Kia con un tale accento di fermezza che scosse la poveretta e fe' balenarle nel cuore una scintilla di speranza.

Kia pensò un momento, poi facendosi più vicina a Tay-See e sedendosi al suo fianco:

— Gli stranieri hanno preso Saigon, non è vero, Tay-See?

— Sì, i bianchi assalgono tutta la Gia-Dinh.

— Marceranno pure su Bien-hoa. Mio padre me lo disse.

— È vero, Kia, me lo disse pure Tay-Shung.

— Benissimo. Noi dobbiamo adunque allontanare prima di tutto il generale.

— Tay-Shung?...

— Sicuro, Tay-See, dobbiamo allontanarlo a qualsiasi costo. È un uomo troppo pericoloso e potrebbe attraversare il mio piano e scoprire ogni cosa. Un sospetto solo basterebbe per far rotolare la testa dello spagnolo sotto la sua catana.

— Buddha, Buddha! Salvalo!

— Tu devi vedere Josè, Tay-See. Bisogna ch'egli sia libero e venga qua!

— Oh! — esclamò la giovanetta gettando le braccia al collo di Kia. — Non illudermi. Sarebbe farmi morire prima di lui.

— Non ti illudo, Tay-See, parlo seriamente. Josè verrà a trovarti in questa casa. Si trova prigioniero nella capanna di Wang, ma noi addormenteremo Wang e lui sarà libero.

— Ma come?... Tu mi fai morire, Kia.

— Ho il mio amante, l'intrepido Thay-Mit, che nulla saprebbe negare alla sua Kia. Io lo porrò al corrente d'ogni cosa, parlerò di Josè e del tuo amore.

— Kia!... Tu mi fai paura. Basterebbe una parola per affrettare la catastrofe.

— Non temere di nulla, mia buona Tay-See. Egli è secreto, non parlerà nemmeno coi morti e possiamo fidarci di lui. Odimi bene. Il nemico muove verso il basso corso del Dong-Giang, tutti lo dicono e minaccia Bien-hoa. Io manderò Mit a passeggiare nei boschi, poi tornerà di corsa, trafelato, spaventato e narrerà che i bianchi sono accampati a poche miglia dalla cittadella. Tay-Shung è il lanh-binch della città, si porrà in campagna colle sue truppe, e sarà allontanato. Via lui, liberare Josè sarà facile cosa.

— Kia!...

— Ascolta, Rosa del Dong-Giang — proseguì l'astuta Kia. — Thay-Mit è coraggioso e forte. Si recherà da Wang e per quanto sia ranhò[2] per astuzia, cadrà nella rete. Mit lo ubriacherà di ruon-manch o gli farà fumare il tiandù e tu sai che il liquore e l'oppio sono la passione di Wang. Una volta addormentata la bestia, il prigioniero sarà libero.

— Ah! Mia buona Kia! — esclamò Tay-See. — Oh! Potessi vederlo, vederlo pure un solo istante e poi morire. Il fiore si appassirebbe più felicemente!...

— Non parlare di morire, Tay-See. Io voglio vederti felice, voglio che tu ritorni ancora la bella e profumata Rosa del Dong-Giang.

— Ah! La felicità per me non tornerà mai più, Kia — mormorò amaramente la giovanetta mandando un sospiro. — L'ho conosciuta un momento, laggiù, a Saigon, quando Josè mi amava, quando mi parlava giurandomi amore eterno, una felicità che fu un lampo, una felicità spezzata in sul più bello, quando l'avvenire mi sorrideva, dal terribile Tay-Shung. Ah! Perché la fatalità guidò Tay-Shung a Saigon? Senza di lui a quest'ora sarei felice nella patria di Josè, e invece nulla, fuorché disperazione. Ho un terribile presentimento, Kia, un presentimento che fiacca le mie forze, le mie speranze, che inaridisce la mia vita, il presentimento che una catastrofe mi sta vicina, una catastrofe che spegnerà due esseri che si amano: me e lui!...

— È la paura che ti fa parlare così, Tay-See — disse Kia dolcemente. — Ti fa vedere tutto oscuro.

— No, tutto oscuro sarebbe poco, tutto sangue!

— Lascia che io ti guidi, Rosa del Dong-Giang. Tay-Shung, il maledetto Tay-Shung...

— Non maledirlo, Kia, io lo compiango.

— Tu sei troppo buona, Tay-See, fu la causa della tua sventura.

— Mi amava, mi fece infelice perché mi idolatrava. Mi sacrificò perché la follia lo rendeva cieco. Non maledirlo, Kia. La maledizione porta sventura.

— Come vorrai, Tay-See. Il gong ha suonato il mezzodì, non bisogna perdere tempo. Questa sera bisogna che Tay-Shung sia lontano e che Josè sia libero. Addio, Tay-See, ci rivedremo. Quando l'ultimo raggio di sole avrà finito d'illuminare le alte cime dei coysao e che il grido del pavone si spegnerà, guarda verso le piantagioni di cay-me[3] e vedrai giungere il tuo Josè. Il primo fischio che romperà i silenzi della notte sarà quello di lui.

Si chinò sul pallido volto di Tay-See, vi depose un lungo bacio, e si allontanò silenziosamente. Un momento dopo era sulla via e si dirigeva verso l'abitazione del quan-an.

Tay-See rimase un momento immobile, come trasognata, poi un lampo di sconfinata gioia illuminò il bel volto e le labbra si schiusero ad un melanconico sorriso.

— Oh! — esclamò ella con singhiozzo. — Potessi vederlo, potessi udirlo, fosse pure un lampo. Sentirei di essere felice per tutta l'eternità e di salire senza rimpianti nel nirvana[4] di Buddha!

La vista le si intorbidì, le palpebre si fecero grevi e senza volerlo col sorriso sulle labbra, il volto animato da un rosso colorito, il colorito della vita, si assopì cadendo nel mondo dei sogni.

Erano scorse parecchie ore, quando fu svegliata da un pesante passo che avvicinavasi al letto.

Aprendo gli occhi, vide curvo su di lei il bruno e fiero volto di Tay-Shung, che spiava i minimi suoi movimenti. Una profonda ruga segnava la fronte di lui.

— Tay-See — diss'egli senza però manifestar alcuna alterazione nella voce. — Tu ti lamentavi dormendo. Soffri? Mia cara fanciulla, tu stai male per parlare in sogno.

La giovinetta trasalì e lo guardò con ispavento.

— Mi lamentava!... Parlava!... — esclamò ella.

— Sì, Tay-See, e non so quali strane parole cadevano dalle tue labbra. Parlavi d'infelicità, di fughe e andavi ripetendo un nome, un nome straniero. Che vuol dire Josè?...

Tay-See rabbrividì e guardò fissamente Tay-Shung come volesse leggergli dentro gli occhi, ma Tay-Shung era calmo come il solito. Capì che nulla sospettava e si fe' animo per non tradirsi.

— Non so che voglia dire, Tay-Shung. I sogni sono sì bizzarri!...

— Josè, Josè — mormorò il generale. — Sai, Tay-See, che questo nome mi colpisce stranamente.

— Follie. Chi dice, Tay-Shung, che sia un nome, — balbettò la giovanetta le cui parole le uscivano a stento.

— Suppongo, e nulla di più. Hai ragione, Tay-See, i sogni degli ammalati sono sì strani!

I loro sguardi s'incontrarono e Tay-Shung si scosse.

— Tay-See, tu sei pallida come una morta. Che hai? — chiese egli.

— Zitto! Zitto! — disse improvvisamente la giovanetta che respirò.

Si udivano i tam tam dei soldati rullare nelle vie della cittadella e che andavano avvicinandosi all'abitazione. Tay-Shung alzò il capo e diventò guerriero.

— Che vuol dir ciò? — si chiese egli mentre dagli occhi schizzava un lampo feroce. — Sarebbe il nemico di già sulle rive del Dong-Giang? Guai a lui!...

Si affacciò alla finestra.

Una turba di soldati armati in fretta e in furia si dirigevano a rapidi passi verso l'abitazione. Thay-Mit, l'amante di Kia, senza cappello, tutto inzaccherato di fango e ansante, camminava alla loro testa.

— Thay-Mit! — esclamò il generale. — Che vuole mai egli?

Tay-See lo udì e si levò sulle stuoie ove erasi adagiata. Voleva essere forte e dileguare il minimo sospetto, se un sospetto balenava nella testa di Tay-Shung.

Si era appena alzata che già Thay-Mit entrava come una bomba nella stanza.

Uno sguardo e un gesto bastò per rassicurarla che ogni cosa andava bene.

— Tay-Shung! — esclamò l'amante di Kia tutto trafelato. — Il nemico è sulle rive del Dong-Giang!

— Possibile?... — gridò il generale. — Come lo sai tu, Thay-Mit?

— Gli ho veduti io, con questi occhi, i francesi, e sono accampati presso il dinh di Ba-hao-ting.

— Ma quando?... Come?... Tenterebbero di già un assalto su Bien-hoa?

— Ero partito sul mio cavallo ieri sera — disse Thay-Mit che ripeteva la lezione di Kia. — Voleva cacciare il rinoceronte e prima del levar del sole mi trovava a mezza via, quando vidi due uomini, due bianchi, due francesi.

— Due? Che possono fare due uomini?

— Ma questi due uomini parlavano, Tay-Shung. Io compresi ciò che dicevano. Raccontavano bravate da mettere i brividi addosso a Cò-hahn che è di pietra. Udii come cento dei loro compagni fossero accampati alla foce del Dong-Giang. Aspettano una cannoniera per salire il fiume.

— Ah! La è così! — esclamò ferocemente Tay-Shung. — Sta bene, vendicherò la rotta di Saigon a colpo di fulmine! Marceremo a loro incontro colla testa del prigioniero sulla lancia della nostra bandiera!

Tay-See emise un gemito. Non fu capace di parlare. Il sangue gli si accagliò nelle vene.

— No, per Buddha! — gridò con ispavento Thay-Mit. — No, Tay-Shung! Se tu l'ammazzi fai cadere col medesimo colpo la testa del tùan-fu di Bre-Lum.

— Chi?... La testa di mio nipote?... Del mio unico nipote! — urlò Tay-Shung.

— Sicuro, è caduto in mano dei francesi. Salgono il fiume per proporti uno scambio fra prigionieri. Ma diffida e non aspettarli. Si getteranno contemporaneamente su Bien-hoa.

— Ah! Maledetti!...

— Tay-Shung, parti, non indugiare. Raccozza i tuoi guerrieri e va'. Gli troverai al tempio di Ba-hao-ting. Proporrai lo scambio e piomberai su di loro. Io guardo il prigioniero. Bisogna lasciarlo qua. In caso di una rotta, potremo sempre scambiarlo con tuo nipote.

— È giusto, Thay-Mit. Un momento di ritardo può essere fatale. Va' a radunare i miei uomini.

Thay-Mit non se lo fece ripetere ma passando presso Tay-See gli mormorò all'orecchio:

— Tutto va bene. Tra mezz'ora Josè sarà libero!

Tay-Shung gettossi ad armacollo l'archibugio e si passò la catana nella cintola. — Tay-See, mia bella Tay-See — diss'egli con voce commossa. — Torno alla guerra perché bisogna che salvi mio nipote. Sarò di ritorno in breve, non aver paura. Nessun francese vedrà Bien-hoa.

— Addio, Tay-Shung — mormorò con voce spenta la giovanetta.

Tay-Shung la baciò in volto, la guardò un istante come ebbro, poi allontanossi rapidamente.

Dieci minuti dopo, mentre che la notte cominciava a calare, il generale e cinquanta dei più risoluti guerrieri di Bien-hoa lasciavano a cavallo la cittadella galoppando al sud.

Tay-See cadde sulle stuoie.

— Povero Tay-Shung — mormorò con tono di rimpianto — È finita!

Posò la fronte madida di sudore sulle manine e rimase lì ansante immersa in dolorosi pensieri, febbricitante, aspettando il momento in cui la felicità l'avrebbe fatta rivivere... Passò mezz'ora. D'un tratto un lungo fischio risuonò al di fuori. Un tremito la prese e s'irrigidì comprimendo con ambe le mani l'affannoso seno, poi facendo uno sforzo supremo si precipitò alla finestra più pallida di una morta, ansante, smarrita e si aggrappò al davanzale.

Era il fischio di Josè Blancos che segnalava la sua venuta.


Note

  1. I medici cocincinesi hanno fama di essere valentissimi.
  2. Ranhò è il serpente giallo delle foreste cocincinesi.
  3. Sesamo nero.
  4. Paradiso.

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