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Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1858)
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PREFAZIONE1
L’Europa conosce il nome di Shakspeare come quello del creatore del dramma; le opere di Shakspeare poco o male conosce. Ove si eccettuino quattro o cinque de’ suoi lavori divenuti popolari presso tutte le nazioni, degli altri quasi nulla si sa, e questo nel paese ancora che lo vide nascere. La celebrità di questo scrittore somiglia quella dell’Alighieri, col quale esso ha tante attinenze, diffusa e sentita pei versi di Ugolino e di Francesca, creduta e giurata, ma ignota per gli altri canti.
Se il dramma però è il prodotto più perfetto della poesia, come da alcuni si disse, perchè congiunge all’ardimento lirico, all’epica pompa, la parte tutta sua di analisi del cuore umano; di utilissimo studio diventano le opere di chi questa nuova maniera di composizione introdusse, e all’antica macchina sostituì la lotta delle passioni vivide sempre anche quando corrono tempi vuoti di entusiasmo e di geste eroiche.
In quella guisa che a divinare il misticismo della ode antica occorre la lettura della Bibbia da cui essa s’informa; come la lettura di Omero è necessaria per comprendere i poemi venuti dopo, così è con Shakspeare soltanto che s’inizia lo studio della nuova poesia, che tiene ora il posto dell’epica e della lirica, nè sconoscendo le fonti da cui essa si originò se ne potrebbe seguire il movimento. Agli antichi che adoravano la natura e davano corpo alle idee, succede una religione che sbandì il culto della natura e spiritualizzò fino la materia; la poesia, che alla fede si lega come sorella, ripudiò allora le forme esteriori, e non attese più che alla dipintura dei sentimenti; la dualità arcana, che il cristianesimo avea rivelata, il contrasto eterno dei due principii, che si era prima intravveduto appena, fu da essa sottoposto a profonda analisi e il dramma nacque. Esso apparve da principio colla splendida forma della Divina Commedia che Dante gli diede; si mostrò sulle scene col genio di Shakspeare.
Meditando su questo gran rivolgimento e sul campo tanto più vasto che erasi dischiuso all’arte, io m’invogliai di tradurre nel nostro idioma le opere dello scrittore che tanta meraviglia avea operata, e presi a farlo seguitando la via che additata mi aveano i suoi chiosatori, fra’ quali parvemi dovesse assegnarsi il primo posto a Johnson, Warburton, Stevens e Bolingbroke. Le gravissime difficoltà che presenta l’autore, l’uso frequente di voci che ora non sono più in corso, mi rendevano indispensabili quelle guide, come lo sarebbero, credo, ad un forestiero i commenti all’Alighieri, senza dei quali mal potrebbe apprezzare le bellezze del divino poema.
Ma sebbene a quegli scrittori io ricorressi con venerazione e dovessi ammirare ad ogn’istante la perspicacia colla quale aveano esplicati certi passi dell’autore che riterrebbersi di quasi impossibile intelligenza, alcuni altri di quelli pure mi sembravano rimasti in ombra o il senso me ne pareva travolto, e questi feci opera d’illustrare, sostituendo forse spesso errore ad errore, ma non senza esservi almeno determinato da qualche plausibile argomento; così ebbi ad abbattermi in iscene che i critici denunziavano intruse nei drammi da coloro che avean creduto veder lacune dove non erano per lo più che belle e artificiose sospensioni di affetti, e le tolsi riputandole non che altro un sacrilegio. La versione condussi in prosa, come in prosa era gran parte del testo; perchè impotente io a rendere le bellezze di armonia dolce o terribile che il verso presenta tutte le volte che la scena s’innalza a colloqui d’amore o trascorre in ire feroci, parvemi che nobilitando o lasciando umile l’altra, secondo che il metro e il tema portavano, io raggiungessi meglio il mio intento, e che in una traduzione (sopratutto da due lingue si disparate quali sono l’inglese e l’italiana) non siano le bellezze di suono e di ritmo che debbono rendersi, ciò che è impossibile, bensì le idee coi veri elementi di cui sono composte.
Espresso così brevemente al lettore in che modo m’invogliassi di questo lavoro e come lo conducessi, mi resta a dire che in questa edizione rifeci e ammendai molti errori corsi nella prima; e mi adoprai quanto più seppi affinchè ne rimanesse il minor numero possibile. Se troppo al disotto del concepimento sia restata l’opera, alla quale parecchi anni consacrai e in cui posi il mio miglior volere, è quello che il pubblico giudicherà; per me mi terrò pago se, risguardato alla grandezza del lavoro, me ne verrà parola di conforto almeno da quelli che, dotti dell’inglese idioma, conoscono tutti gli scogli di Shakspeare, e sanno quanto diversa sia l’indole della lingua di questo illustre da quella del paese a cui ci è dolce di appartenere.
- ↑ Questa Prefazione si trova nella seconda edizione.