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Atto quarto

Scena terza
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Atreo di dentro, che poi esce
preceduto da Guardie con faci.

 

Atreo

Quai grida!
Esce.

Tieste

(avventandosi contro Atreo)
Mori.

Atreo

Empj! – Non io;
155Sol voi morrete. – S’incateni, o guardie,
Lo scellerato.
Le Guardie eseguiscono.
E tu,
ad Erope
non sazia ancora
Di tanti eccessi, tel richiami in Argo,
160E tal t’appresti? – Ma fallito è ’l colpo.

Erope

Son rea; tu il di’.

Atreo

Stolidamente rei
Voi foste entrambi: chè dei re sul capo
Vegliano i numi; nè uom v’ha iniquo tanto,
165Ch’Atreo deluder basti.

Tieste

E chi può forse
L’uom più iniquo fra gli uomini, il tiranno,
Deluder mai? non io: chè tuo mi festi
Con tue lontane invisibili trame,
Trame regali insomma. Or via disfoga
170L’astio ranchiuso, e solo in me rivolgi
E tue rampogne e ’l tuo furor; costei,
Innocente, risparmia. Io solo, io solo
Tue pene merto; chè sol io qui venni,
Sol io furente di pugno strappaile
175Il da lei tolto ferro, onde lanciarti
Inulto a Stige: e ormai forse il saresti,
Se in costei non avesse argin trovato
Il mio proposto.

Atreo

Or vedi eroe! ti vanta
180Di tradimento, e del tuo amor: la cara
Esca tenta scusar: così fors’io
A tant’uopo farei: così notturno
Assalitor sarei, s’io di fraterna
Fede t’amassi, qual tu m’ami. – Intanto
185Qual, ond’io deggia da te averne pena,
Qual a’ tuoi vanti contrapporre io posso
Vanto sublime? Seduttor non io
Della consorte del mio re, non io
Fratricida superbo, esule infame;
190Non io Tïeste insomma.

Tieste

Rapitore
Della promessa un dì tenera amante;
Usurpator del trono mio; feroce
Dell’oscurata mia vita raminga
195Persecutor, tiranno infine: questi
I vanti son da contrappormi. Io mai,
D’allor che mi svellesti Erope, e in bando
Tu mi cacciasti per aver mio regno,
Ti fui fratello; nè fraterno amore
200Io ti promisi: ma fratello sempre
Tu mi nomasti, e nimistà frattanto,
Odio perenne, m’apprestavi. Il lungo
Esilio mio, le mie sventure, e l’alto
Terror che ognor mi seguitò, son nulla:
205Quindi ti vanti, che ti sembran dono
Miei tristi dì, che tor tu non potevi.
Or è l’istante.

Atreo

Giovanile etade
Era la tua, nè adatta al scettro; e mente
210Quindi non dritta, e non sublime core
Male reggeano Calcide. Tu troppo
Concedevi alla plebe, e prepotente
Troppo a’ grandi toglievi. Alla ruïna
Argin por volli del fraterno regno,
215Ch’era mio pure; ed argin posi; ch’arte
Usai co’ grandi, e con la plebe scure.
Ed io fui re. Se a te in natio retaggio
Veniva il solio, sotto a te crollava.
Io sol fermo l’eressi; ed io più fermo
220Sul trono sto. – D’Erope il padre, il sommo
Sacerdote di Calcide, Clëonte
Ti diè la figlia, ed io volealo: incauto
Fosti oppressor di suo poter sublime:
E in me affidossi, e la ritolse, e diella
225A me, e possanza per regnar mi porse.

Tieste

Capo Clëonte in Calcide sorgea
Dei pochi potentissimi; calcava
Il popol denudato; e di sue spoglie
Ei più feroce divenia. Cotanta
230Autorità smodata io temprar volli,
Re cittadino, e mal mercaimi – Atreo,
Non fui tiranno.

Erope

(ad Atreo)
Ahi! di mio padre ancora
Qui fresco è il sangue; ei t’acquistò l’impero,
235Acciò con sacro giuramento in Argo
Tratto, ond’ei nullo si temea periglio,
Crudo! a’ tuoi piedi spirasse trafitto.

Atreo

Superbo ei troppo, a me volea rimpetto
Porsi laddove io sol regnava; ei cadde:
240Ch’ei non sapea che d’assoluto sire
Dono è ’l viver de’ sudditi – E mio dono,
Iniquo, era tua vita. Oh! chi mai sfugge
Di re sdegnato all’ira? A Rodi, e a Delfo,
Di là a Micene tu giugnesti, e fosti
245Securo sempre, che pietade indegna
Per te parlommi; ed io l’intesi, e troppo
L’intesi forse; nè men pento: scritta
Era vendetta; e giunse il dì; bench’io
Nol desïassi.

Tieste

250E i tuoi sicarj in Delfo,
E Pliste il sire di Micene, e ’l tuo
Agacle fido, non tramavan forse
Qui strascinarmi? Chi cacciò superbo
Me da Micene? chi mi spinse in Argo
255Con dotti inganni altri, che Atreo?

Atreo

S’addice
Al core tuo tal tracotanza. A Delfo
lo sicarj invïai? Metaco e Pleo
Ivi ne andár, non per mio cenno: incolpa
Te, se Pliste cacciotti; i re medesmi
260Non danno asilo a tai delitti: e pena
Agacle avranne, che vulgò menzogna
Onde macchiar mio nome.

Tieste

O come l’arti
Del tiranno possiedi! In cor furore,
Pace nei detti; comandar misfatti,
265E punirne il ministro: e vita e fama
Tor, per rapir sostanze: adoprar fraude,
Ove spada non val: pietà con pompa
Mostrar, e bever sangue. Oh! ben t’adatti
Il regal manto! ei ben ti copre! regna,
270Chè tiranno sei vero.

Erope

(ad Atreo)
Al fin: qual avvi
Ragion qui di garrir? Ambo siam rei,
E tuoi gastighi ambo mertiam; ma cessa
D’amareggiar nostre sventure, e omai
275Duo miseri sotterra infausti troppo
A questa reggia. Pur se gl’infelici
Mertan qualche pietà, re, il tristo figlio
(E che rileva il modo? è nostro, è nostro)
Pria di morir concedi: ei cada, e spiri
280Su noi, ten priego.

Atreo

Sì, morrà, felloni;
E pagherete quel desio di stragi,
Che sì v’accese: morirà. – Ma questo
Non è ancora l’istante.
A una Guardia
285O tu, disgiunti
Custodisci costor: d’essi sarammi
Tua vita pegno.
La Guardia eseguisce.

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