Questo testo è completo. |
Traduzione dal greco di Francesco Acri (XIX secolo)
◄ | Capitolo XXII | Capitolo XXIV | ► |
Quanto a moto e a quiete, se non consentiamo per quale via e modo siano generati, assai impedimenti avrà il ragionamento che segue. Detta è già alcuna cosa, e ora aggiungiamo questo, che moto mai non può essere nella ugualità; imperocché malagevole anzi impossibile è che ci sia cosa mossa senza alcuno movente, o alcuno movente senza alcuna cosa mossa. E da poi che, non essendo quelli, non è moto, e quelli non possono essere uguali: segue che la quiete è nella ugualità, e il moto è nella disugualità: cagione poi della disugualità è dissimiglianza, e già noi abbiamo favellato della generazione sua. Ma niente detto è ancora perché mai i corpi, dopo sceverati secondo loro generi, non cessassero di muoversi e rigirare gli uni per entro gli altri. Ciò noi chiariamo ora in questa forma. Posciaché abbracciato ebbe il cielo tutti i generi, essendo egli circulare e naturalmente voglioso di raccogliersi seco medesimo, sí li strinse e non lasciò rimanere spazio alcuno vuoto. Onde il fuoco per tutto trascorse velocissimamente; l’aria secondamente, come quella che in sottigliezza è seconda al fuoco; e cosí gli altri: imperocché lasciando i corpi fatti di grandissime parti grandissimo vacuo nella composizione loro, e piccolissimo quelli fatti di parti piccolissime, il costringimento che seguita alla pressura caccia i piccoli corpi per entro agl’intervalli dei grandi. E i piccoli, cacciati per entro ai grandi, li discernono; e questi, a loro volta, quelli adunano: onde tutti i corpi sono portati su e giú ai proprii loro luoghi; imperocché ciascuno di essi corpi muta sito con mutare grandezza. E cosí perseverando in perpetuo la generazione della disuguaglianza, ella è cagione del perpetuo moto de’ corpi; il quale è e sarà senza intermissione.