Questo testo è completo. |
◄ | Atto primo | Atto terzo | ► |
ATTO SECONDO
SCENA I.
La stessa. — Una stanza nella casa di un senatore.
Entra un senatore con un papiro in mano.
Sen. E da ultimo cinquemila a Varrone; a Isidoro novemila; con quello che mi deve fa venticinquemila. — Nè mai gli cesserà quella manìa dello spendere? Così non può durare; nè durerà. — Se mi occorre danaro non ho che da rubare il cane dell’ultimo mendico, e mandarlo a Timone, e il cane conierà oro per me. — Se voglio vendere il mio cavallo e col prezzo acquistarne dieci altri migliori, lo darò a Timone senza chiedergliene nulla; un’alfana mi produrrà i corridori più superbi che qui si trovino. — Portieri non v’hanno da lui; ma soltanto un uomo che sorride a tutti e invita tutti quelli che passano. Così non durerà; convien necessariamente ch’ei precipiti. — Cafi, olà! Cafi, dico.
(entra Cafi)
Caf. Eccomi, signore; qual è il vostro piacere?
Sen. Mettetevi il vostro mantello e correte da Timone: pregatelo, fino anche all’importunità, onde vi dia danaro, nè un lieve rifiuto vi chiuda la bocca, nè pago mostratevi di un: salutate il vostro signore, mentre il berretto scorre da una mano all’altra. Ditegli che le mie cose non mi consentono di dargli tregua, e che sono costretto a servirmi di quello che mi è proprio. Tutti i giorni di dilazione e di grazia sono passati; ei m’ha sempre rimesso all’indimani, e per troppa confidenza nelle sue parole sempre vane, ho perduto il credito. Amo ed onoro Timone; ma non debbo annegarmi per impedirgli di inumidirsi le piante: mi occorre subito la pecunia, e convien che l’abbia subito. Io non posso più acquetarmi alle vane promesse con cui mi delude. Partite; assumete l’aspetto d’un creditore de’ più fieri; mostrategli un volto che chiegga senza che parliate: imperocchè ben temo che Timone, che ora vola sublime come una fenice, non si mostri nudo come la gazza della favola, allorchè in breve ognuno l’avrà spogliato delle penne che gli appartengono. Andatevene.
Caf. Vado, signore.
Sen. Vado, signore? E le obbligazioni non le prenderete con voi?
Caf. Così farò, signore.
Sen. Andate. (escono)
SCENA II.
La stessa. — Una sala nella casa di Timone.
Entra Flavio con molte polizze in mano.
Flav. Alcnn pensiero dell’avvenire! Alcun freno o limite! Ei non ha sentimento di sorta della sua prodigalità; talchè non potrà mai resistere all’impulso che lo spinge a dissipare. Non mai lo si vede turbato pel danaro che profonde; non pel pensiero del tempo che ciò potrà durare. La natura non aveva mai prodotto uomo così folle e in un sì buono! Or che fare? Ei non vorrà nulla udire intorno al suo stato, se gli avvenimenti non glielo chiariscono. — Convien ch’io gli parli liberamente quando tornerà dalla caccia. Oh qual vergogna, qual trista vergogna.
(entrano Capi e i domestici di Isidoro e di Varrone)
Caf. Buona sera, Varrone1. Ebbene, venite a cercar danaro?
Var. Dom. Non è la stessa bisogna che vi conduce?
Caf. È; e la vostra ancora, Isidoro?
Isid. Dom. Non v’ingannate.
Caf. Volesse il cielo che fossimo tutti pagati!
Var. Dom. Ne temo.
Caf. S’avanza il signore.
(entrano Timone, Alcibiade, e Nobili, ecc.)
Tim. Mio caro Alcibiade, appena finito il pranzo ci rimetteremo in via. — Da me? Che volete?
Caf. Signore, vi è una nota di certi debiti...
Tim. Debiti? Di dove siete voi?
Caf. Di Atene, signore.
Tim. Ite dal mio intendente.
Caf. Non vi spiaccia, signore, ei m’ha aggiornato sin qui i pagamenti: ora un bisogno pressante costringe il mio signore a chiedere il suo danaro; ei vi supplica di attendere a’ vostri sentimenti generosi, e di restituirgli quello che gli dovete.
Tim. Mio onesto amico, te ne prego, torna dimani mattina.
Caf. No, mio buon signore...
Tim. Basta così, buon amico.
Var. Dom. Un domestico di Varrone, signore...
Isid. Dom. Per parte di Isidoro, che umilmente vi prega onde tosto paghiate...
Caf. Signore, se conosceste i bisogni del mio padrone.
Var. Dom. Il termine è trascorso, signore, da più di sei settimane...
Isid. Dom. Il vostro intendente mi tiene a bada, signore, e venni espressamente mandato alla Grandezza Vostra.
Tim. Lasciatemi respirare. — Miei buoni amici, vi supplico di precedermi; (escono Alcib., i Nobili, ecc.) vi raggiungerò fra un istante. — Venite qui; (a Flavio) che significa tutto ciò? Perchè mi veggo io arrestato da creditori, che vengono a fastidirmi con dimande di pagamenti, tanto differiti e sollecitati invano? Perchè tante offese al mio onore?
Flav. Piacciavi, signori; voi male scegliete il tempo pei vostri affari; non ne importunate di più; aspettate dopo il pranzo; datemi agio di potere spiegare al nobile Timone perchè non siate stati pagati.
Tim. Fate così, miei amici; voi abbiate cura che siano ben trattati. (esce; entra Apemanto, e il Pazzo)
Caf. Restate, restate, viene il pazzo con Apemanto; sollazziamoci un poco.
Var. Dom. Morte lo colga, ei ne ingranerà.
Isid. Dom. Peste al cane!
Var. Dom. Come stai, pazzo?
Apem. Favelli alla tua ombra?
Var. Dom. Non parlo con te.
Apem. No; ma con te solo. — Andiamocene. (al Pazzo)
Isid. Dom. (al Var. Dom.) Ecco il Pazzo che già s’attacca al suo dorso.
Apem. No, sei anche singolo, non vi andasti per anco sopra.
Caf. Dov’è ora dunque il Pazzo?
Apem. Ei fece dianzi tal dimanda. — Vili miserabili, mezzani d’usurai, mediatori fra l’oro e i bisogni!
Tutti i Dom. Che siam noi, Apemanto?
Apem. Asini.
Tutti i Dom. Perchè?
Apem. Perchè mi chiedete quel che siete, e non vi conoscete da voi — Parla loro, Pazzo.
Paz. Come state, gentiluomini?
Tutti i Dom. Gran mercè, buon pazzo: come sta la vostra amante?
Paz. Colle mani in acqua per iscottarvi capponi quali siete voi. — Volesse il Cielo che potessimo vedervi a Corinto2.
Apem. A meraviglia! (entra un Paggio)
Paz. Mirate, viene il paggio della mia amanza.
Pag. (al Pazzo) Ebbene, capitano? Che fate in così savia compagnia? — Come stai, Apemanto?
Apem. Vorrei avere una verga per lingua, onde risponderti a dovere.
Pag. Pregoti, Apemanto, leggimi l’indirizzo di queste lettere; io non saprei farlo.
Apem. Non sai leggere?
Pag. No.
Apem. Allora le lettere perderan poco il giorno in cui sarai appiccato. — Questa è per Timone; questa per Alcibiade. Va; fosti generato fra l’obbrobrio, e morirai sulla forca.
Pag. Tuo padre fu un cane, e tu languirai di fame come un cane. — Non rispondermi; son già partito. (esce)
Apem. Gli è renderti il maggior servigio. Pazzo, verrò con te da Timone.
Paz. Mi lascierai tu là?
Apem. Se Timone è in casa. — Voi siete tre servi di tre usurai?
Tutti i Dom. Sì, così essi ci servissero!
Apem. Io pur lo vorrei; e praticassero gli ufficii che esercita un carnefice verso un ladro.
Paz. Siete voi tutti e tre servi d’usurai?
Tutti i Dom. Sì, Pazzo.
Paz. Credo che non vi sia usuraio che non abbia un pazzo fra i suoi servi: la mia amante è una del bel numero, ed io sono il pazzo di lei. Quando qualcuno chiede danaro ai vostri padroni, ei va loro incontro tutto mesto, e se ne ritorna gaio; ma dalla mia amante si entra gai e se ne ritorna mesti. Ditemi la ragione di ciò?
Var. Dom. Potrei dirvene una.
Apem. Fallo dunque, onde possiamo riguardarti come un mezzano di infami libertinaggi, ciò che non ti farà meno stimato.
Var. Dom. Che razza di mezzano è cotesto, Pazzo?
Paz. Un pazzo in buone vesti, qualche volta simili alle tue. È uno spirito che talvolta apparisce come un signore: talvolta come un legista: talvolta come un filosofo: talvolta come un cavaliero; e generalmente sotto tutte le forme che l’uomo può vestire dai tredici agli ottant’anni.
Var. Dom. Tu non sei sempre pazzo.
Paz. Nè tu savio sempre: in quella guisa che io ho molte follie, tu difetti di molto spirito.
Apem. Una tale risposta sarebbe convenuta ad Apemanto.
Tutti i Dom. Sgombrate, sgombrate: s’avanza il nobile Timone.
(rientrano Timone e Flavio)
Apem. Vieni con me, pazzo, vieni.
Paz. Non mi garba di seguir sempre un amante, un fratello maggiore o una donna: potrei aggiungere anche un filosofo.
(esce con Apem.)
Flav. Pregovi, passeggiate qui vicino; parlerò con voi fra poco. (escono i dom.)
Tim. Voi mi fate meravigliare: perchè non mi avete prima d’ora pienamente istruito delle mie cose, ond’io avessi potuta moderare le mie spese, e ragguagliarle ai miei mezzi?
Flav. Voi non voleste udirmi molte volte che vel chiesi.
Tim. Ite: avrete forse preso il momento in citi qualche indisposizione mi costringeva a rimandarvi, e tal pretesto vi ha fornita la scusa che ora allegate.
Flav. Oh mio buon signore! Mille volte vi ho presentati i miei conti; gli ho posti dinanzi ai vostri occhi; ma voi li avete sempre rigettati, dicendo che riposavate sulla mia onestà. Allorchè, per qualche lieve presente, mi avete imposto di ricambiarlo con dieci volte di più, ho scosso il capo, ed ho gemuto: talvolta ancora ho varcato i limiti del rispetto esortandovi ad essere più parco. Quante volte non ho io sofferto per parte vostra rimproveri e ammonimenti, allorchè ho voluto farvi vedere il dissesto dei vostri affari e l’abisso in cui sprofondavate? Oh, mio caro signore, voi mi udite ora; ma è troppo tardi: tutte le vostre ricchezze non bastano per pagare la metà dei vostri debiti.
Tim. Si vendano tutte le mie terre.
Flav. Tutte sono indebitite; una parte ne è perduta: e appena abbastanza ci rimane per pagare i crediti decorsi. L’avvenire porta a gran passi le altre scadenze; e intanto chi ci soccorrerà? Chi ci metterà in istato di pagare tutto il nostro conto.
Tim. Le mie terre si estendevano fino in Lacedemonia.
Flav. Oh, mio buon signore, il mondo non è che una parola; foss’egli anche tutto vostro, quanto tempo credereste di tenerlo in possesso?
Tim. Tu dici il vero.
Flav. Se avete il minimo sospetto sulla mia amministrazione, sulla mia fedeltà, citatemi innanzi ai giudici più severi e assoggettatemi all’esame più rigoroso. Così gli Dei mi siano propizi, come essi sanno che, allorquando tutta la nostra casa era assordata da una folla di parassiti voratori, allorchè il pavimento era inondato dai flutti di vino, che in esso traboccava, allorchè ogni aula splendeva di mille torchi, e risuonava di canti e danze, io mi ritiravo nel più miserabile ridotto per spargervi torrenti di lagrime.
Tim. Cessa, te ne scongiuro.
Flav. Dei, diceva io, quanta bontà è nel nobile Timone! Quante ricchezze non furono prodigate in questa notte a vili adulatori! Chi fra di loro non si grida adesso servo officioso di Timone? Chi in questo momento non offre il suo cuore, la sua vita, la sua spada, il suo coraggio, le sue sostanze a Timone, al generoso Timone, al nobile, al degno, al sovrano Timone? Oimè! Dacchè la fortuna, con cui egli comprava queste lodi, è stata distrutta, tutte le voci che le prodigavano son rimaste mute. Addio feste e banchetti. Una nube d’inverno versa le sue pioggie, e tutti gli insetti sono scomparsi.
Tim. Non più rimostranze, te ne prego: alcun beneficio vergognoso non ha disonorato il mio cuore: io non debbo arrossir de’ miei doni, che avrò potuto prodigare con imprudenza, ma non mai prostituire con viltà. — Perchè piangi? È in te tale difetto di fiducia da credere ch’io possa mancar d’amici? Il tuo cuore si rassicuri; va; se volessi aprir i serbatoi, in cui la mia amicizia ha versato i suoi doni, e sperimentare i cuori, uomini e ricchezze s’offrirebbero a me, e ne disporrei così facilmente come comandar ti posso di parlare.
Flav. Voglia l’avvenimento rispondere ai vostri pensieri!
Tim. E il bisogno, in cui oggi mi trovo, è per me un bene che corona tutti i miei voti: ora posso far prova de’ miei amici; e in breve conoscerai quanto ti sii ingannato sullo stato di mia fortuna, possedendo, com’io fo, tanta dovizia di cuori. — Olà! qualcuno..... Flaminio! Servilio! (entrano Flaminio, Servilio, ed altri domestici)
Ser. Signore, signore.....
Tim. Ho differenti comandi da darvi. — Voi ite dal nobile Lucio, voi da Lucullo, con cui feci oggi la caccia, e voi da Sempronio. Raccomandatemi al loro amore e dite a ognuno d’essi che vo superbo di trovare infine l’occasione di valermi della loro amicizia per qualche somma che mi occorre. Chiedete loro cinquanta talenti.
Flam. Sarete obbedito, signore.
Flav. (a parte) Al nobile Lucio, e a Lucullo? Oh!
Tim. E voi (a un altro servo) ite da quei senatori alla cui riconoscenza avea diritto nei miei di di splendore. Dite ad essi di inviarmi tosto mille talenti.
Flav. Fui abbastanza ardito per presentar loro la vostra soscrizione, credendo che quello fosse il più facile espediente; ma tutti scrollarono il capo e non ne tornai più ricco.
Tim. È egli vero? Possibile!
Flav. Risposero tutti ad una voce che erano a mal partito; che non avevano denaro; che non potevano fare ciò che desideravano; che ciò loro doleva assai, avvegnachè, dicevano, siate un uomo sì rispettabile che per voi innalzavano mille voti; e convenivano, dovesse esservi stato qualche errore, imperocchè l’uomo più onesto può fare un passo falso, e riepilogavano affermando che era grave il dolore che sentivano per non potervi sollevare. — Così parlando mi lanciavano sguardi sdegnosi e con vili inchini e frasi interrotte m’agghiacciavano il cuore, e mi riducevano al silenzio.
Tim. Gli Dei li ricompensino! — Ti prego, amico, sta lieto; nei vecchi l’ingratitudine è ereditaria: il loro sangue è freddo, e lento a scorrere per le vene; non sentono riconoscenza, perchè il loro cuore non ha vita. A mano a mano che l’uomo s’avanza verso la tomba, ei perde la sua onerosità, e il suo cuore diventa torpido. — Va da Ventidio. — Ah in mercè, non ti affliggere! tu sei onesto e fido; dico quel che penso; nulla ti si può rimproverare. — Ventidio ha perduto suo padre, e una tal morte lo fa possessore di immense ricchezze. Allorchè egli era povero, prigioniero e privo di amici per soccorrerlo, io lo aiutai con cinque talenti. Vallo a salutare a mio nome; digli che l’amico suo è in grave bisogno ed esige ch’ei si ricordi di lui. Dacchè lo avrai commosso mandagli costoro; e non dir più, nè pensarlo, che la fortuna di Timone possa venir meno in mezzo ai suoi amici.
Flav. Vorrei nol poter credere mai; ma quella fiducia è nemica alla verità, che, da sè giudicando, reputa tutti gli uomini onesti. (escono)
- ↑ Il poeta dà il nome dei padroni agli schiavi, che d’ordinario solevano valersene parlando fra di loro.
- ↑ Nome generale per indicare un luogo di prostituzione. Corinto era la più dissoluta fra le città della Grecia.