< Timone di Atene
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William Shakespeare - Timone di Atene (1608)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1858)
Atto primo
Interlocutori Atto secondo

TIMONE DI ATENE




ATTO PRIMO




SCENA I.

Atene. — Una sala nella casa di Timone.

Entrano il Poeta, il Pittore, il Gioielliere, il Mercatante, ed altri, da varie porte.

Poet. Buon giorno, signore.

Pitt. Son lieto di vedervi in bello stato.

Poet. È da lungo tempo che non eravamo stati insieme: come va il mondo?

Pitt. Invecchia peggiorando, signore.

Poet. Oh sì, questo si sa: ma v’è nulla di particolare? nulla di strano, di cui non si abbia esempio? — Mirate, magico potere della bontà! È la sua attrattiva che ha evocati tutti quegli spiriti. — Conosco il mercatante.

Pitt. Entrambi io li conosco; l’altro è un gioielliere.

Mer. Oh è un degno signore!

Gio. Ciò è incontestabile.

Mer. Un uomo unico, i cui beneficii incessanti non finiscono mai; egli soverchia ogni altra idea di bontà.

Gio. Ho qui un gioiello.

Mer. Pregovi, vediamolo. È destinato al nobile Timone, signore?

Gio. Se vuole pagarlo al suo giusto valore; senza di che.....

Poet. (Leggendo un suo scritto) «Allorchè per la ricompensa prodighiam lodi al vile, segniamo d’onta i bei versi, in cui estolliamo l’uomo egregio».

Mer. (guardando il gioiello) La forma è nobile.

Gio. Ed è di gran prezzo: vedete che limpida acqua?

Pitt. Voi siete in estasi, signore; meditate qualche opera, qualche dedica al gran Timone?

Poet. È un’idea abbastanza bella che mi si è offerta spontanea. La nostra poesia è come la gomma che stilla dall’abero. Il fuoco nascosto in seno alla selce non si manifesta che allorchè la selce è percossa; ma il bel fuoco della poesia divampa, si accende da sè, e come torrente atterra tutte le dighe che si oppongono al suo corso. — Che avete costà?

Pitt. Un quadro. — E il vostro poema quando vedrà la luce?

Poet. Subito dopo che l’avrò presentato al valentuomo. Ma vediamo il vostro quadro.

Pitt. È un grave lavoro.

Poet. Affè; il rilievo n’è perfetto.

Pitt. Non v’è nulla di meraviglioso.

Poet. Ammirabile! Quanta nobiltà e grazia nell’attitudine di quella figura! Quale anima di fuoco scintilla in quegli occhi! Quanta verità nel movimento di quel labbro! Sebbene questa persona sia muta, se ne interpreterebbe il silenzio!

Pitt. È una imitazione abbastanza felice della verità. Che dite di questa parte? Vi sembra bella?

Poet. Oso dire che è un modello per la natura; l’arte ha scolpito in quei lineamenti maggior energia ed espressione, che non ne offra la vita reale.     (passano parecchi senatori)

Pitt. Come onorato è quest’uomo!

Poet. I senatori di Atene. Felici essi!

Pitt. Mirate di più!

Poet. Voi vedete quel concorso, quell’affluenza di visitatori. Io ho, nell’abozzata mia opera, dipinto un uomo a cui questo mondo sublunare prodiga omaggi e carezze; ma il mio libero genio non si ferma a insulsi particolari, e con audacia trascorre per un vasto mare di cera1. — Alcun tratto di malignità non avvelena un solo emistichio; la mia vena è pura nel suo corso; il mio estro, come aquila, s’avventa, vola, e s’innalza sempre senza lasciare alcuna traccia di dietro a sè.

Pitt. Come potrei io intendervi?

Poet. Ora vel dirò. — Voi vedete come tutti gli stati, tutte le condizioni, tutti gli spiriti e tutti i caratteri gravi e frivoli, duri e molli, vengano ad offrire i loro umili omaggi a Timone. La sua immensa ricchezza, che il suo cuore nato benefico comparte a tutti, attira e incatena a lui tutti i cuori; da quello del vile adulatore, il di cui viso è uno specchio che riflette le sembianze del suo signore, fino a quel di Apemanto, che nulla più ama. che di odiar se stesso, e che pur piega il ginocchio innanzi a lui, e se, ne ritorna felice e superbo d’un suo sguardo.

Pitt. Li ho veduti parlar insieme.

Poet. Io ho immaginato un trono eretto sulla cima di un’alta collina, e su di esso ho finto la Fortuna seduta. Il dosso del monte è coperto d’uomini d’ogni specie che intendono a superarlo, e si commuovono per ammigliorare la loro condizione. In mezzo a quell’immensa folla, i di cui occhi s’affiggono nella regina del monte, rappresento un personaggio sotto le sembianze di Timone, a cui la Dea, colla sua mano di alabastro, accenna di avanzarsi. Ei sale verso il di lei trono, ed essa lo fa ricco de’ suoi doni, e cangia tosto tutti i suoi emuli in servi sommessi, in ischiavi che si curvano dinanzi a lui.

Pitt. Parmi che un tal quadro lo potesse rendere assai bene anche la nostra arte.

Poet. Sia; ma lasciatemi proseguire. Quegli uomini prima suoi eguali, o anche suoi superiori, seguono ora i suoi passi trionfanti, empiono i suoi portici con corte numerosa, susurrano al suo orecchio le loro parole adulatrici, con lingua omicida calunniano l’onore de’ suoi avversarii, baciano le staffe che preme il fortunato suo piede, e non vivono che per lui.

Pitt. Questo è appunto: or che ne segue?

Poet. La Fortuna cangiando repentinamente d’umore, presa da novella fisima precipita dall’alto della montagna il favorito, poco prima a lei sì diletto, e tutti i suoi vasalli, che carpone sforzavansi di arrivare alla vetta dietro di lui, lo lasciano piombare di roccia in roccia senza che alcuno lo accompagni o lo arresti nella caduta.

Pitt. È quel che avviene. Potrei farvi vedere cento quadri che mostrano siffatte vicende con espressione ben più efficace delle parole. Nondimeno adoprate con senno e prudenza, facendo conoscere al nobile Timone come il povero, collocato alle falde del monte, abbia veduto mille volte precipitarne il potente colla testa all’ingiù e i piedi all’aria, (squillo di trombe; entra Timone con seguito; un servo di Ventidio parla con lui).

Tim. È imprigionato, voi dite?

Ser. Sì mio buon signore. Cinque talenti sono tutto il suo debito; ma or è privo di pecunia, e i suoi creditori sono inflessibili. Chiede una lettera da Vostra Grandezza diretta a coloro che lo han fatto imprigionare; se questa gli è ricusata, ei non ha più speranze.

Tim. Nobile Ventidio! Ebbene; io non son di tal tempra da restringer la mano di un amico che impetra soccorso. Lo conosco per uomo onesto che merita aiuto, e l’avrà; vuo’ pagare il suo debito, e farlo libero.

Ser. Un tale benefizio lo rende a voi devoto per sempre.

Tim. Salutatelo in mio nome; gli manderò il suo riscatto, e quando sarà fuori, ditegli che venga da me. Non basta rialzare il debole oppresso, convien dargli modo anche dopo di sostenersi: addio.

Ser. Ogni felicità vi sorrida! (esce; entra un vecchio ateniese)

Vec. Nobile Timone, ascoltami.

Tim. Parla liberamente, buon padre.

Vec. Tu hai un servo chiamato Lucilio.

Tim. È vero; che perciò?

Vec. Nobilissimo Timone, fallo venire dinanzi a te.

Tim. È egli costà? Lucilio?     (entra Lucilio)

Luc. Eccomi ai servigi di vossignoria.

Vec. Quest’uomo, nobile Timone, quest’uomo che vive de’ tuoi stipendii, entra di notte in casa mia. Io son un uomo che, dedicatomi dalla giovinezza in poi ai negozi, merito un erede più ricco che non lo è un tuo famiglio.

Tim. Ebbene; a che riesci?

Vec. Non ho che una figliuola, un’unica figliuola, a cui posso lasciar tutto quello che ho accumulato; essa è bella, e delle più giovani che sappiano andar a marito. L’ho educata con amore, e a nulla perdonai per fornirla di tutte quelle doti che in fanciulla si addicono. Questo garzone de’ tuoi osa richiederla d’amore, ond’io ti scongiuro, nobile Timone, perchè t’unisca a me in proibirgli di rivederla; a me solo non bada.

Tim. È un giovine onesto.

Vec. Lo sia dunque anche per me. La sua onestà gli serva di ricompensa, e non cerchi di rapirmi la figlia.

Tim. Ne è essa innamorata?

Vec. Giovine, e credula, come nol sarebbe? Le passioni che un tempo provammo noi stessi, ci ammoniscono quanto la giovinezza sia leggiera.

Tim. E tu, ami tu quella fanciulla?

Luc. Sì, mio buon signore, e ne son corrisposto.

Vec. Se dovesse maritarsi senza il mio consentimento, attesto qui gli Dei che andrei a scegliere un erede fra la folla de’ mendichi, e che le vorrei togliere ogni mio bene.

Tim. E quale sarà la sua dote, sposando un marito che vi piaccia?

Vec. Tre talenti subito; e tutto il resto, poscia.

Tim. Quest’onesto giovine da lungo tempo mi serve, e vuo’ fare uno sforzo per costituire la sua fortuna: avvegnachè tale sia il dovere dell’umanità. Dategli vostra figlia; quello che le concederete in dote sarà misura dei miei doni pel suo sposo, e renderò eguale fra di loro la bilancia.

Vec. Magnanimo signore, impegnatene il vostro onore, e mia figlia è sua.

Tim. Eccoti la mia mano; l’onor mio ne sia garante.

Luc. Ringrazio umilmente Vostra Signoria; di tutte le ricchezze e beni, di cui potessi godere, rammenterò sempre che a voi ne vo debitore.     (esce col vecchio)

Poet. Degnatevi gradir la mia opera, e una lunga vita vi consoli.

Tim. Vi ringrazio; saprete di me qualcosa fra poco: non vi allontanate. — Che avete voi costà, mio amico?

Pitt. Un quadro che scongiuro Vostra Grandezza di accettare.

Tim. La pittura mi alletta; l’uomo non è che un ritratto: dacchè il disonore traffica dell’anima e dei sentimenti, l’uomo è rimasto solo un volto, mentre le figure che delinea il pennello sono almeno quello che rassembrano. Molto mi piace il vostro lavoro, e ne avrete in breve la prova: aspettate frattanto finchè vi faccia avvertire.

Pitt. Gli Dei vi preservino!

Tim. Buon giorno, onest’uomo: datemi la vostra mano, dobbiamo desinare insieme; il vostro gioiello è calato di prezzo.

Gio. In qual modo, signore?

Tim. Per esser troppo lodato. S’io vel pagassi tutto quello che lo stimano, sarei mendico.

Gio. Signore, è stimato al prezzo che ne darebbero quei medesimi che lo vendono; ma ben sapete che gioielli di egual valore mutano costo fra le mani del proprietario, e sono giudicati in ragione del costo di quello che li possiede. Degno signore, degnatevi di credermi: il valore di quel gioiello aumenta fra le vostre mani.

Tim. Lo scherzo è cortese.

Mer. No, mio buon signore, quel ch’ei dice tutti gli altri lo ripetono con lui.

Tim. Mirate, chi si avanza. Volete essere garriti?

(entra Apemanto)

Gio. Lo soffriremo insieme con Vostra Signoria.

Mer. Ei non risparmia alcuno.

Tim. Buon giorno a te, gentile Apemanto!

Apem. Finchè io non sia gentile, aspetta il ricambio.

Poet. E quando lo sarai?

Apem. Quando tu diverrai il cane di Timone, e questi mariuoli gente onesta.

Tim. Perchè li chiami mariuoli? Tu non li conosci.

Apem. Non sono ateniesi?

Tim. Sì.

Apem. Dunque non mi pento.

Gio. Voi mi conoscete, Apemanto?

Apem. Sai bene che ti conosco, ti chiamai dianzi a nome.

Tim. Sei superbo, filosofo.

Apem. Di nulla più che di non somigliare a Timone.

Tim. Dove andavi?

Apem. A trarre in luce un onesto cervello ateniese.

Tim. È tale opera che ti farà morire.

Apem. Sì, se il far nulla è dannato di morte dalla legge.

Tim. Come ti piace questo quadro, Apemanto?

Apem. Molto, perchè non ha fatto male.

Tim. Non operò bene quegli che lo dipinse?

Apem. Colui che fece il pittore, adoperò anche meglio; e nondimeno fu una miserabile opera.

Pitt. Siete un cane.

Apem. Tua madre è della mia specie; or che sarà ella s’io sono un cane?

Tim. Vuoi desinare meco, Apemanto?

Apem. No; io non mangio i signori.

Tim. Se lo facessi, metteresti in collera le nostre donne.

Apem. Oh! ad esse sta il mangiare gli uomini: ed ecco perchè il loro corpo s’ingrossa.

Tim. È un’idea libertina.

Apem. Tu l’interpreti così: abbilo per tua ricompensa.

Tim. Come ti piace questo gioiello, Apemanto?

Apem. Non quanto la franchezza che non costa un obolo all’uomo2.

Tim. Quanto credi che valga?

Apem. Non uno de’ miei pensieri. — Ebbene, poeta?

Poet. Ebbene, filosofo?

Apem. Menti.

Poet. Non sei tale?

Apem. Sì.

Poet. Dunque non mento.

Apem. Non sei poeta?

Poet. Sì.

Apem. Allora menti: ricordati della tua ultima opera, in cui in una finzione facesti di Timone un virtuoso e degno personaggio.

Poet. Non fu mai una finzione, era verità.

Apem. Degno personaggio! Sì, degno di te, e degno di pagare le tue menzogne: quegli che ama di essere adulato, merita gli adulatori. Dei, perchè non sono io ricco!

Tim. E che faresti essendolo?

Apem. Quello che Apemanto ora fa: odierei i ricchi con tutta l’anima.

Tim. Odieresti te stesso.

Apem. Sì.

Tim. Perchè?

Apem. Per aver formato lo stolto desiderio d’esser ricco. — Non sei tu un mercante?

Mer. Sì, Apemanto.

Apem. Il traffico ti danni, se gli Dei nol vogliono.

Mer. Se lo fa il traffico, lo fanno gli Dei.

Apem. Il traffico è il tuo Dio, e il tuo Dio ti condannerà!

(squillo di trombe; entra un domestico)

Tim. Che ci annunzia questa tromba.

Dom. È Alcibiade, e venti cavalieri circa della sua brigata.

Tim. Vi prego, ite loro incontro, e fateli entrare. — (escono alcuni del seguito) Conviene assolutamente che desini con me. — Voi non vi dipartite di qui, finchè io non v’abbia ringraziato, e dopo il pranzo mostratemi il vostro quadro. — Godo, signori, di vedervi tutti. — (entra Alcibiade co’ suoi) Siate il benvenuto, amico!

Apem. Bene sta, bene sta! Oh possa la gotta intorpidirvi le membra, e disseccarvi i muscoli sì molli all’adulazione! È egli possibile che vi sia tanta poca affinità fra tutti costoro e le vane loro cerimonie! In verità tutta la razza umana non è che un esercito di bertuccie e di scimmie.

Alcib. Signore, languivo dal desiderio di rivedervi, e il mio cuore ardente tripudia della vostra vista.

Tim. Siete il benvenuto, signore: prima di separarci passeremo insieme alcuni bei momenti fra piaceri svariati. — Pregovi, entriamo. (escono tutti, fuori d’Apemanto; entrano due Nobili)

Nob. A qual’ora del giorno siam noi, Apemanto?

Apem. All’ora di essere onesti.

Nob. Una tal ora suonò dall’eterno.

Apem. Più maledetto perciò sei tu che l’obblii sempre.

Nob. Tu vai al banchetto del nobile Timone?

Apem. Sì; per vedere come le vivande satollino i furfanti, e come il vino riscaldi i pazzi.

Nob. Addio, addio.

Apem. Sei un pazzo a dirmi addio due volte.

Nob. Perchè, Apemanto?

Apem. Dovevi ritenerne uno per te, perch’io non intendo di dartene.

Nob. Appiccati.

Apem. No, non eseguirò il tuo consiglio; fanne partecipe il tuo amico.

Nob. Via di qui, cane indomabile, o te ne caccierò a calci.

Apem. Fuggirò come un cane i calcagni dell’asino.     (esce)

Nob. Colui va a rovescio del mondo. — Ebbene, entrerem noi, e prenderemo parte alle generosità di Timone? Sì, la bontà stessa non ha un cuore uguale al suo.

Nob. La sua beneficenza inesauribile si diffonde sopra tutto ciò che l’attornia. Pluto, il Dio dell’oro, non è che suo intendente: non v’ha servigio leggiero ch’ei non paghi sette volte più che non vale: non lieve dono ch’ei non ricambi in modo che passa tutti i limiti della gratitudine.

Nob. Egli ha la più nobile anima che mai governasse un uomo.

Nob. Così possa vivere lungamente fra le ricchezze! Volete che entriamo?

Nob. Vi terrò compagnia.     (escono)

SCENA II.

La stessa. — Una magnifica sala nel Palazzo di Timone.

Si ode un concerto di cornamuse. Un gran banchetto è imbandito. Flavio ed altri vi attendono; quindi entrano Timone, Alcibiade, Lucio, Lucullo, Sempronio, e certi suonatori ateniesi, con Ventidio, e seguito. Da ultimo, con aria rabbuffata si avanza lentamente Apemanto.

Vent. Onorando Timone, piacque agli Dei di chiamare la vecchiezza del mio genitore all’eterno suo riposo. Egli abbandonò la vita senza dolore, e mi ha lasciato ricco. Vengo oggi a soddisfare verso il vostro cuor generoso il debito di un cuor grato, e a restituirvi i cinque talenti, che mi riscattarono a libertà: ricevete con essi i miei ringraziamenti e il mio affetto.

Tim. Oh, nulla riceverò, onesto Ventidio; voi fate ingiuria alla mia amicizia: liberamente vi feci quel dono, e come si direbbe che si è donato se si permettesse la restituzione? Se i nostri signori supremi giuocano ad un tal giuoco, non si addice ai deboli mortali l’imitarli esigendo riconoscenza.

Vent. Nobilissimo spirito!

(tutti guardano con ammirazione Timone)

Tim. Le cerimonie e i vani complimenti non furono inventati che per supplire all’insufficienza degli atti, per colorire le false dimostrazioni di un cuore che smentisce la propria bontà, e se ne pente prima ancora di averla esercitata: ma dove trovasi la vera amicizia, le formole riescono inutili. Vi prego, assidetevi; voi siete più preziosi alla mia fortuna ch’essa non lo è a me.

Nob. Signore, ne fummo convinti sempre.

Apem. Oh, oh, convinti? Perchè non poscia appiccati?3

Tim. Ah, Apemanto! Siete il ben venuto.

Apem. No, non dovete dirmi il ben venuto; vengo perchè mi si cacci fuori delle porte.

Tim. Vergogna, sei troppo selvaggio; hai preso modi che non si addicono all’uomo: ciò vuol biasimarsi. — Alcuni sostengono, miei signori, che ira furor brevis est: ma quest’uomo è sempre in collera. — Animo, gli s’imbandisca una mensa a parte. Ei non ama la compagnia, e non è fatto per lei.

Apem. Resterò dunque a tuo rischio, Timone; venni per osservare, te ne ammonisco.

Tim. Non ti presterò attenzione; sei ateniese e perciò ben venuto. Non debbo esser oggi il padrone di mia casa; pregoti, fa che il mio pranzo mi valga il tuo silenzio.

Apem. Disprezzo il tuo pranzo; esso mi soffocherebbe, prima che io dovessi adularti. — Oh Dei! qual folla di parassiti divora Timone senza ch’egli lo vegga! Soffro mirando tanti uomini affamati tracannarsi il sangue di un sol uomo che, al colmo della follia, vieppiù quindi gli accarezza. Stupisco che l’uomo osi fidarsi all’uomo: parmi che i mortali si dovessero festeggiare senza coltelli. Le loro messe fruttificherebbero, e le loro vite sarebbero in maggior sicurezza. Se ne son notati cento esempi: l’uomo che è ora assiso accanto a lui, che rompe con lui il pane, e beve alla sua salute la tazza che divisero insieme, sarà il primo ad assassinarlo. Ciò si è veduto anche troppo. S’io fossi un gran ricco, temerei di bere; temerei che i miei ospiti esaminassero il mio lato più mortale per tagliarmi la gola. I grandi ricchi non dovrebbero mai bere senza avere la gola coperta di ferro.

Tim. Signore, (parlando a uno dei convitati) con tutto il cuore circoli la coppa.

Nob. Fate che s’incominci di qui, mio buon signore.

Apem. Di là? Sta bene: colui è un valente ospite: conosce a meraviglia i tempi. — Timone, tutti quei brindisi faranno infermare te e la tua fortuna. Ecco un liquore, (bevendo un bicchier d’acqua) la di cui debolezza assicura l’innocenza: acqua pura e amica della virtù, tu non rovesciasti mai l’uomo nel fango. Questa bevanda è semplice come il mio alimento; e ad esso si accoppia bene; troppo orgoglio presiede ai gran banchetti perchè vi sa ricordino i ringraziamenti degli Dei.

Azione di grazia di Apemanto.

«Dei immortali, io non prego per alcuno fuorchè per me; nè oro vi dimando. Accordatemi di non divenir mai tanto pazzo da fidarmi di un uomo pel suo giuramento o per la sua sottoscrizione; da fidarmi di una cortigiana per le sue lagrime; di un cane che sembri addormentato, di un carceriere che mi prometta libertà, o dei miei amici, allorchè ne abbia bisogno. — Amen. — Orsù coraggio, i ricchi peccano ed io mi cibo di radiche». (mangia e beve) Possa il contento ricompensarti sempre del tuo buon cuore, Apemanto!

Tim. Capitano Alcibiade, i vostri pensieri sono ora al campo?

Alcib. I miei pensieri sono sempre con voi, o signore.

Tim. Meglio vi piacerebbe di aver assistito a una colazione di nemici che a un pranzo di amici.

Alcib. È vero, signore: allorchè il sangue di quelli scorre non vi hanno vivande più grate per me; augurerei al mio miglior conoscente di assistere ad un tal banchetto.

Apem. Vorrei che tutti questi adulatori fossero tuoi nemici, onde potessi sgozzarli, e invitarmi alla festa.

Nob. Se mai, signore, avremo la felicità di veder porre da voi i nostri cuori alla prova; se mai ci fornirete occasione per dimostrarvi una parte di quello zelo che ci anima, saremo giunti al colmo dei nostri voti.

Tim. Oh! non dubitate, miei buoni amici, che gli Dei stessi non m’abbiano nell’avvenire riserbato un giorno in cui avrò bisogno del vostro soccorso. Altrimenti perchè sareste divenuti così affettuosi per me? Perchè sareste scelti fra mille altri per portare questo sacro titolo di amici, se nati non foste per appartenere più da vicino al mio cuore? Io mi sono detto di voi più cose che la vostra modestia non vi permettesse di dirmene, e qui ve ne faccio la sincera confessione. Ah Dei! gridavo io fra me, che avremmo noi bisogno d’amici se la loro opera non dovesse mai occorrerci? Che sarebbero essi di più che un istrumento sospeso o racchiuso entro la sua custodia, e che, pieno di suoni melodiosi, resterebbe muto? Sì, ho desiderato spesso di divenire povero, onde ravvicinarmi vieppiù a voi: avvegnachè siamo tutti nati per fare il bene; e qual bene è più nostro delle ricchezze dei nostri amici? Qual gran fortuna è la mia di averne tanti quanti ne ho radunati qui sotto i miei occhi, tutti fratelli, e possessori delle ricchezze gli uni degli altri! Oh voluttà di cui il cuore si abbevera, prima anche che l’occasione del benefizio sia sorta! I miei occhi inteneriti non possono ritenere le lagrime4; per correggerne il fallo bevo5 alla vostra salute.

Apem. Tu piangi per farli bere, Timone.

Nob. La gioia ha operato del pari sopra i nostri occhi, che in questo istante somigliano a quelli de’ fanciulli.

Apem. Oh, oh! Rido pensando che è un fanciullo bastardo che parla.

Nob. Vi assicuro, signore, che mi avete molto commosso.

Apem. Molto!                                   (squillo di trombe)

Tim. A che allude ciò? (entra un domestico) Ebbene?

Dom. Piacciavi, signore; vi sono parecchie dame che desiderano entrare.

Tim. Dame? che chieggono?

Dom. Tenne con esse un foriere, signore, incaricato di annunziare le loro intenzioni.

Tim. Fa che siano ammesse.     (entra Cupido)

Cup. Salute a te, degno Timone, e a tutti coloro che godono qui dei tuoi beneficii! I cinque migliori sensi ti riconoscono per loro patrono, e vengono liberamente ad esaltarti pel tuo cuor generoso. L’udito, il gusto, il tatto, l’odorato, sorgono dalla tua tavola ebbri di piacere e si mostrano ora per rallegrare i tuoi occhi.

Tim. Son tutti i benvenuti; abbiano cortese accoglienza. Musici, fate loro onore.     (esce Cupido)

Nob. Voi vedete, signore, quanto siete amato. (musica.Rientra Cupido con una mascherata di donne vestite da amazzoni che s’avanzano cantando e danzando, con liuti fra le mani).

Apem. Oimè qual frivolo sciame è qui condotto dalla vanità! Danzano! È una schiera di insensate! Tutta la gloria di questa vita non è che follia. Un po’ d’olio e di radici, soli beni necessarii all’uomo, fan sentir tutto il nulla di questo superfluo lusso. Noi ci rendiamo stolti per trovar piaceri; prodighiam l’adulazione per divorare uomini che, fatti vecchi e indigenti, non ottengono più da noi che odio. Qual mortale respira che non corrompa o non sia corrotto? Qual uomo muore, che con sè non porti nella tomba, per solo dono dei suoi amici, il dolore di qualche crudo oltraggio? Temerei bene che coloro, i quali là danzano dinanzi a me, i primi non fossero a calcarmi un giorno sotto i piedi; è ciò che spesso si è visto, nè gli uomini mancano mai di chiudere la loro porta al sole da che ei declina e tramonta. (tutti sorgono da tavola festeggiando Timone; ognuno quindi prende un’amazzone e con essa danza al suono delle cornamuse: dopo alcun tempo il ballo cessa)

Tim. Belle signore, voi ne avete assai allietati colle vostre grazie; voi siete state il più bell’ornamento di questo banchetto; e senza la vostra presenza esso non sarebbe paruto la metà così bello. A voi dunque, che di tante imagini ridenti mi avete fecondato, siano i miei sinceri ringraziamenti.

Amaz. Signore, non ne adulate.

Apem. Affè, perchè il vero vi spaventerebbe, e vi farebbe fuggire.

Tim. Signore, una mensa, coperta di frutti ben poco degni di voi, vi aspetta nell’altra stanza; piacciavi di goderne.

Tutte le Amaz. Con mille ringraziamenti, nobile Timone.

(escono con Cupido)

Tim. Flavio...

Flav. Signore.

Tim. Recami il mio piccolo scrigno.

Flav. Sì, mio signore. — (a parte) Altri gioielli! Non convien ostare a’ suoi capricci, altrimenti gli direi... ebbene... in fede dovrei avvertirlo. Allorchè tutto sarà speso, allora vorrà che lo si fosse contradetto. È a compiangersi, che la beneficenza non abbia occhi per veder di dietro a sè; se ciò fosse, non mai uomo cadrebbe in miseria, vittima di un troppo buon cuore.

(esce e ritorna collo scrigno)

Nob. Dove sono i nostri servi?

Ser. Qui, signore, parati a ubbidire.

Nob. I nostri cavalli.

Tim. Oh! miei amici, ho anche una parola da dirvi. — Mio buon signore, ve ne scongiuro; fatemi l’onore di accettare questo gioiello; degnatevi riceverlo e portarlo, mio buon amico.

Nob. Son già tanto ricco di vostri doni...

Tutti. E tutti lo siamo.     (entra un domestico)

Dom. Signore, parecchi membri del Senato discesero alla vostra porta e vengono per visitarvi.

Tim. Siano i ben giunti.

Flav. Supplico Vostro Onore di ascoltare una parola; essa vi concerne dappresso.

Tim. Dappresso? T’udrò in altro tempo: pregoti, pensiamo a tutto apparecchiare onde far loro la più graziosa accoglienza.

Flav. (a parte) Appena so come. (entra un altro domestico)

Dom. Così piaccia a Vostro Onore, il nobile Lucio, per l’amore che vi porta, vi ha fatto presente di quattro cavalli bianchi come il latte, colle gualdrappe ricamate in argento.

Tim. Li accetto di cuore; fate che tal dono sia degnamente accolto. — (entra un terzo domestico) Ebbene, quali novelle?

Dom. Piacciavi, signore, l’onorevole gentiluomo, il nobile Lucullo vi supplica di fargli dimani compagnia alla caccia e vi manda due coppie di agili levrieri.

Tim. Caccierò con lui; sia ricevuto il suo dono, ma ricambiato come si conviene.

Flav. (a parte) A che riescirà tutto ciò? Ei ne comanda di far provvigioni, di largir ricchi doni mentre il suo scrigno è vuoto; nè vuol pensare allo stato di sue finanze, nè accordarmi un momento per dimostrargli a qual’estrema indigenza è ridotto il suo cuore, che più non può effettuare i suoi voti. Le sue promesse eccedono sì prodigiosamente la sua fortuna, che tutto ciò ch’ei promette è un nuovo debito che contrae; ogni parola gli fa un creditore di più, e tutte le sue terre sono già aggravatissime. Oh vorrei essere congedato prima che la necessità mi costringa ad abbandonarlo! Più fortunato è l’uomo che non ha amici, di quello che è circondato da amici, più funesti dei nemici stessi. Il cuore mi sanguina di affanno pel mio buon signore.     (esce)

Tim. Voi non mi rendete giustizia; calunniate troppo il vostro merito: accettate, signore, questa inezia come pegno del nostro amore.

Nob. La ricevo e ve ne sono riconoscentissimo.

Nob. Oh egli è l’anima della stessa bontà.

Tim. Ed ora che rimembro, signore, voi avete molto vantato l’altro di un corsiero baio ch’io cavalcavo: è vostro poichè vi piace.

Nob. Vi supplico, perdonatemi, signore, ma...

Tim. Credetemi; so per esperienza che non si loda che ciò che piace, e che si desidera: giudico dei sentimenti del mio amico dai miei; quello ch’io vi dico è vero. (a tutti) Verrò a salutarvi.

Tutti i Nob. Niuno potrà esserci più gradito.

Tim. Le vostre persone, e le vostre cortesi visite mi sono così care, che non basta il pagarle con ringraziamenti. Vorrei poter dar regni a’ miei amici, e mai non mi stancherei — Alcibiade, tu sei soldato, e i soldati di rado son ricchi: intendo soccorrerti: perocchè tutte le tue entrate le ritrai dai morti, e le terre che possiedi son coperte soltanto di cadaveri.

Alcib. Luride terre infatti, mio buon signore.

Nob. Noi vi siamo sì strettamente legati...

Tim. E così sono io pure a voi.

Nob. Tanto altamente riconoscenti...

Tim. Siate felici. — Lumi, olà! lumi!

Nob. La felicità, l’onore e le ricchezze, non v’abbandonino mai, nobile Timone!

Tim. Parato sempre a servire i miei amici.

(escono Alcibiade, i Nobili, ecc.)

Apem. Qual tumulto! Qual rumor di cerimonie, di inchini e di adulazioni! Dubito che tutte quelle gambe sì pieghevoli e sì civili valgano le somme di cui si pagano le loro profonde genuflessioni. L’amicizia di tutti quegli ospiti è intorbidata da una feccia impura. Parmi che gli uomini dal cuor bugiardo non dovessero possedere gambe sì agili e leste; dovrebbero invece averle piene di gotta. — È dunque così che onesti stolidi prodigano le loro ricchezze per inutili e perfide riverenze?

Tim. Ora, Apemanto, se tu non fossi sì burbero sperimenteresti la mia bontà.

Apem. No, non vuo’ nulla: poichè, se corrompessi me pure, nessuno rimarrebbe per ischernirti della tua follia e commetteresti anche un maggior numero di stoltezze. Tu doni tanto, Timone, che temo dovrai finir in breve per donar te stesso. A qual pro questi banchetti, queste pompe, e queste vane magnificenze?

Tim. Se intendi far onta a miei amici, giuro che non avrò più alcun ritegno per te. Addio, ritorna con musica più gaia. (esce)

Apem. Così tu non vuoi ora intendermi..... Tu non m’udrai più, io ti chiuderò la porta della tua salute. Oh! È egli possibile che l’orecchio dell’uomo sia tanto aperto all’adulazione, e sordo così ti consigli della saggezza!     (esce)





  1. Si sa che gli antichi scrivevano su tavole di cera col mezzo di uno stile di ferro.
  2. Allusione al proverbio inglese: la franchezza è un gioiello: ma coloro che ne usano muoiono di fame.
  3. Allude al rei convinti.
  4. La loro acqua.
  5. Vino.


Note

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