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TIMOSSENA.
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IDILLIO.
I.
Fra l’ombre degli eroi teco a severi
Colloquî assise e le recenti grazie
Di carissima donna aurei, Plutarco,
Correvano i tuoi dì. Nelle gioconde
5Piaggie di Cheronea teco cresciuta
La bella Timossena idalie rose
Avvolgeva al tuo crin grave di lauri
Apollinei. Ridendo il capo alzavi
Dalle pagine tue, quando furtiva,
10Il piè sospeso e l’indice sul labbro,
Quella gentil nelle tue stanze entrava.
Pari a luna nel bosco. E la tua tazza,
Traboccante di mêl, di assenzio infusa
Mai non avrebbe Amor, se di litigi
15In dolorosi labirinti avvolto
Di Timossena non t’avesse il padre,
Segreti odî spargendo e di contese
Sollevando gran fiamma. In due divisa,
Figlia ancor vereconda e sposa amante,
20Gemea la donna e paurosa il guardo
A quelle fronti ergea rannuvolate,
Qual se guizzante vi scorgesse il fulmine
Di ruine foriero. A tarda notte
Mai prima non udì rieder lo sposo,
25Che nuda il piede com’era e disciolta
Le bellissime trecce ad incontrarlo
Non accorresse e di domande e baci
L’assalisse. Tremava or del ritorno,
Come d’ospite ignoto il passo udisse
30Ascendere le scale. Invan dal core
Provossi cancellar le ricordanze
De’ suoi giorni infantili e di altro sangue
Credersi nata e d’altra casa uscita;
Che corrugata la paterna immago
35Risorgeva ne’ sogni a rinfacciarle
Il codardo pensier. Sola sedea;
E di nascoso pianto gli origlieri
Inondava del talamo. Una notte
Piangendo si addormì. Le parve in sogno
40Un gran monte veder; a’ fianchi attorta
Serpeggiava una via di lauri ombrata
E di candidi marmi. A lei del monte
Prender pareva la salita ansando
E trafelando al cominciar; ma lieve,
45Come se un’aura la levasse a volo,
Sentìa farsi il cammin, quanto dell’erta
Più guadagnava; e dileguar l’affanno
E serenarsi il cor, tosto che un’ara
Agli occhi le s’offrìa fra i mirti ascosa,
50E coll’arco alle spalle il simulacro
Dell’immortale Amor. Destossi all’alba,
E fra mesta e fidente appresentossi
Allo sposo: «Se mai stilla di dolce
Da me, Plutarco, avesti e non del core
55Tutta uscita ti son, questa preghiera
Mi adempi, gli dicea, che un Dio m’ispira,
Provvido, immenso, onnipossente Iddio,
Cui siam cari ambedue. Sull’Elicona
Non è sol delle Muse il santo albergo
60E la reggia d’Apollo: anco all’Amore
Vi sorge un’ara, a cui venir son use
Le tebane fanciulle e di colombe
Vittime offrir, se nel garzon diletto
Veggon per caso intiepidir la fiamma
65Che altra volta lo ardea. Fedele amica
Sovente mi narrò, che coll’aita
Grazïosa del nume il cor riebbe
Dell’amante; e di spose e di mariti
Dopo lunga tenzon pacificati
70Corron storie mirabili. Domani
Moviam colà: si adunino i parenti
E gli amici con noi. Voglio di Amore
Porger sull’ara anch’io mie libagioni
Per salute del cor, che sanguinente
75Porto in sen da più lune e ben tu ’l vedi.»
Della donna sull’omero la destra
Posò Plutarco intenerito, e gli occhi
Pregni di pianto in lei fissando, il giuro
Le rinnovò del non cangiato affetto
80Per cangiarsi di tempi. «E se ti amai,
Soggiungeva, dal dì che sul mio seno
Reclinasti il bel capo, e di tua vita
Mi affidasti il governo; e se potesse
Crescere l’amor mio, ben più diletta
85Or saresti al mio cor, pur come gemma
Tratta dal fondo di turbati mari,
Che più cara risplende. I dubbi acqueta,
O mia soave desolata: intero
Il tuo regno rimane. E nondimeno
90Se ti piace così; se tanto speri
Nella possa d’amor, domani all’alba
Andiam sull’Elicona; e gli aurei nodi,
Ch’ira di parti rallentar non vale,
Novamente pregato Amor confermi.»
II.
95Di mattutina nebbia ancor velate
Le falde eran del monte, e non veduto
Già le sue cime illuminava il sole.
Con lungo mormorìo di giogo in giogo,
Di vallone in vallon sciogliea le chiome
100La divina foresta a ber la pioggia
Del vitale splendor. Lenta saliva
La bella compagnia per torto calle,
Ora al sol discoverta ed or nascosa
Dietro i fianchi del monte. Il lungo velo
105Di Timossena fluttuando addietro
Si portavano l’aure. In volto impresso
Ella del core lo scompiglio avea:
Pur quella festa del creato: i fiori
Di rugiada stillanti: l’usignuolo
110Ch’impaurito abbandonava il nido
Al suo passar: di Copa il lago a manca,
Il Parnaso a diritta e trasvolante,
Con teso collo, altissima ne’ cieli
La grù smarrita che le sue compagne
115Sull’Emo iva a trovar: cotanto riso
Della terra e del ciel di muta gioia
Colpìan la pellegrina. A lei Plutarco
Di Ascra il fonte additava e sculto in bronzo
Il poeta de’ Giorni, a cui le pecchie
120Ancor sul labbro deponeano il mèle.
Poi di Lino il sembiante e di Tamiri
All’arpa infranta e alle pupille spente
Raffigurava; e proseguia narrando
Vetustissime età, come di Tracia
125Scesi i primi cantori all’Elicona
Venner raminghi, ed al virgineo coro
Il laureto sacraro e le fontane
Ignote ancora. «Di qua mosse il canto
Che simile, dicea, d’eolia lira
130A lontano concento; o come quando
A poco a poco il mar s’increspa e bolle
Con crescente romor, pe’ continenti
D’Ellade immenso si diffuse, e l’inno
Omerico destò sull’altro lato
135Dell’Ellesponto.» Tal parlava; ed ecco
Al piegar della via l’antro di Apollo,
E coll’ellera al crin Bacco e Sileno
Barcollante nel marmo. All’antro appesi
Eran timpani e trombe; e sulla soglia
140Quinci Pindaro e quindi il coronato
Di asiatiche rose Anacreonte,
A cui sull’arpa con calati vanni
Dormiva una colomba. Immoto il guardo
L’ansia donzella vi tenea; ma l’alma
145Le vagava pel bosco. E già de’ lauri
Vedea fra l’ombre biancheggiar nell’alto
Il tempio delle Dee: già d’Aganippe
L’onda diffusa udìa romoreggiante
Scendere a valle. Alla gentile un gelo
150Or le vene stringea, come al cospetto
Di paventata deità. Si avanza
Ove un boschetto di mortelle adombra,
E vede la sognata ara ed Amore
Stante coll’arco e la farètra. Il volto
155Si cangiò della donna: al piè le scese
In dilatata maestà la veste,
E parve maggior farsi e più che umano
Della sua voce il suon. Pose l’incenso
Appiè del nume: si scostâr gli astanti
160In tacita corona. Or mentre l’aura
Rapìa stridendo le odorate nubi
Che ricadean bianchissime sul bosco,
Ella infocata i rai, sparsa le chiome,
E le labbra tremanti, «O di natura
165Primo sire, sclamava, o delle cose
Possente innovator, cui l’ansie madri
Del casto bacio della figlia orbate
Adorano piangendo, odimi, Amore,
Poichè sacra ti son. Non io t’invoco
170Quale sull’are di Corinto infami
Discinta la venal sacerdotessa
Forsennata t’implora. Eterea possa
Che l’universo trasformando avvivi,
Te chiamo, inclito Dio, che l’ali d’oro
175Sovra l’orme del tempo affaticando
Le ruine fecondi, e nelle sciolte
Ceneri allumi l’immortal tua lampa.
Perocchè, quanto vive, inesorata
Discolora vecchiezza e morte atterra
180Con lenta pugna. E non pur erbe e piante,
Ma lo stesso del sol splendido cerchio
A poco a poco con assidua lima
Logora il tempo. E già vôto deserto
Forano i campi, senza frondi il bosco
185E senza canto, se le vecchie stirpi
Non ricreassi, Amor, co’ destinati
Connubî; e dopo il verno alle campagne
Non rimenassi co’ fecondi nembi
L’alba di primavera. Al moribondo
190Calice delle rose il germe involi,
Che i vedovati cespiti rinfiora;
E colla piuma, che cadea dal fianco
Dell’annosa cicogna, il chiuso nido
Al tremebondo cicognin riscaldi.
195Voli fra gli astri; e de’ pianeti estinti
Ventilando la polve a’ giovanetti
Soli prepari le purpuree cune.
Come rotante turbine procedi
Novi lacci stringendo e lacci antichi
200Rallentando; è la sera alle tue spalle;
E l’astro del mattin le chiome accende
Nella tua lampa. Ecco io ti seguo, Amore,
Alleggerita de’ vetusti nodi;
E le sante tue leggi, a cui s’inchina
205Tutto il creato, lietamente adoro.»
Tacque la donna. All’ispirato accento
Stupîr gli astanti: ma d’un vecchio lauro,
Che sull’altare protendea le fronde,
Poggiato al tronco in dolcissimo pianto
210Segretamente si sciogliea Plutarco.