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ATTO QUINTO
SCENA I.
Pianura in vicinanza di Roma.
Entra Lucio coll’esercito goto a bandiere spiegate.
Luc. Guerrieri eletti, fedeli amici, ho ricevuto lettere dalla superba Roma che mi ammoniscono dell’odio che i Romani portano al loro imperatore, e del desiderio che hanno di vederci presso alle loro mura. Nobili duci, siate quello che vi dichiarano i vostri titoli, fieri e impazienti in vendicare i vostri oltraggi, e fate scontare a Roma con usura tutti i danni ch’ella ha potuto cagionarvi.
1° Goto. Illustre rampollo venuto dal grande Andronico, il di cui nome, che ne riempieva un tempo di terrore, ci è ora di tanto conforto, tu, cui l’ingrata Roma ha sì mal compensato, confida in noi; noi ti seguiremo dovunque ci condurrai, come in un giorno ardente d’estate le api armate dei loro dardi seguono il loro re nei campi sparsi di fiori. Véndicati dell’iniqua Tamora.
Tutti i Goti. Quel ch’egli dice noi tutti ripetiamo.
Luc. Cordialmente lo ringrazio, e sono grato a voi tutti. Ma chi giunge qui condotto da quel valente soldato?
(entra un Goto che guida Aaron portante il suo fanciullo fra le braccia)
2° Goto. Gran Lucio, io mi ero discostato dall’esercito per andar a vedere le ruine di un monastero, e mentre figgevo gli occhi su quei venerabili avanzi, fui colpito dalla voce di un fanciullo, che gemeva a’ piè d’una muraglia. Mi volsi al suono, e udii qualcuno che garriva dicendo: «Taci, lurido lattante, il cui colore e i lineamenti ritraggono parte di me, e parte della madre tua: codesto non basta egli a dichiarare da chi sei nato? Se la natura ti avesse dato soltanto il viso di tua madre, tu saresti potuto divenire imperatore: ma quando il toro e la giovenca sono entrambi bianchi come il latte non mai ingenerano un vitello nero come il carbone. Taci, taci, sciagurato». Questo veniva detto al fanciullo, e si aggiungevano poscia queste parole: «Forz’è ch’io t’affidi ad un Goto che, quando saprà che figlio sei dell’imperatrice, prenderà tenera cura della tua fanciullezza in contemplazione di tua madre». Ciò udito, io sguainai la spada, e mi avventai su questo moro che sorpresi all’improvviso, e che qui vi conduco: comandate intorno a lui quello che giudicherete dicevole.
Luc. Oh prode soldato! Questi è il demone infernale che privò il buon Andronico della sua mano gloriosa; questi è il gioiello, delizia della nostra imperatrice, e questo il vil frutto de’ suoi lascivi amori. — Rispondi, schiavo dall’occhio bianco, dove volevi tu portare quest’effigie del tuo viso d’abisso? Perchè non parli? Assordasti forse? Non pure una parola? Recate una corda, soldati, e appendetelo a quell’albero; al fianco suo si sospenda ancora l’odioso frutto delle sue libidini.
Aar. Non toccar questo fanciullo; è di sangue reale.
Luc. Troppo rassomiglia al padre per poter divenir mai uomo onesto. Si cominci dall’appiccare il fanciullo, e il padre sia testimonio della sua morte, onde ne abbia il cuor cruciato. Recate una scala. (vien portata una scala che Aaron è costretto ad ascendere)
Aar. Lucio, salva il fanciullo, e mandalo per me all’imperatrice. Se questo fai ti rivelerò importanti segreti, che è del tuo maggior bene il conoscere; se il rifiuti, avvenga che vuole, non parlerò, e la vendetta vi colpisca tutti.
Luc. Continua; e se quello che hai a dirmi mi appaga, il tuo fanciullo vivrà, ed io penserò a farlo educare.
Aar. Se ti appaga? Oh! sii quieto, Lucio, che quello ch’io ti dirò comporrà il tormento della tua anima, perocchè io dovrò intrattenerti d’omicidii, di stupri e di macelli, atti orridi compiuti fra le ombre della notte, abbominevoli opere di scelleratezza e di tradimento, il cui racconto ti farà rabbrividire, e che nondimeno eseguite furono per motivi di amore. Ma tali segreti tutti andran seppelliti nel mio sepolcro se tu non giuri che il mio fanciullo vivrà.
Luc. Aprimi il tuo pensiero, e ti dico questo che brami.
Aar. Giuralo, e comincierò.
Luc. Per chi giurerò io? Tu non credi negli Dei, e come crederai ad un giuramento?
Aar. Che vale s’io non credo, come vero è che non credo: io ben so che tu sei pio, e che senti in te una voce interna che chiami coscienza, e che hai mille altre follie alle quali aderisci. Richieggo quindi il tuo giuramento; perocchè m’è noto che lo stolto si crea un Dio in un balocco da lattante, e osserva quello che ad un tal Nume ha giurato. Un tale giuramento io voglio da te. Giura, per quel qualunque Dio che adori, di conservare la vita al mio fanciullo, di alimentarlo e di educarlo, o nulla ti rivelerò.
Luc. Ebbene, pel mio Dio, ti giuro che farò quanto desideri.
Aar. Sappi dunque anzitutto ch’io m’ebbi questo fanciullo dall’imperatrice.
Luc. Oh donna impura, e d’insaziabile libidine!
Aar. Attendi, Lucio; questa non fu che un’azione pia in paragone di quelle che udirai. Furono i suoi due figli che trucidarono Bassanio; furono essi che tagliarono la lingua a tua sorella, che le fecer violenza e la disonorarono, mutilandola quindi come la vedesti.
Luc. Oh scellerati! Barbari inconcepibilmente nefandi! Simili ei sono a te.
Aar. Io fui infatti il loro maestro, e gl’istruii. È dalla loro madre che ebbero in retaggio la lascivia, e quanto alla loro anima sanguinaria credo che modellata l’abbiano sopra la mia. Le mie opere parlino per me, e attestino quello che valgo; io additai a’ tuoi fratelli quella fossa insidiosa dove giaceva il corpo di Bassanio; io scrissi quella lettera che tuo padre trovò, ed io nascosi l’oro e la lettera coll’assentimento della regina e de’ figli suoi. E che si è egli fatto, di cui tu abbia gemuto, in cui io non ponessi la parte mia di malvagità? Ho deluso tuo padre per privarlo di una mano, e dopo ciò son dipartito per prorompere in risa che non potevano cessare. Io l’ho mirato non visto allorchè in ricompensa della sua mano, ha ricevute le teste de’ suoi figli; ed ho contemplate le sue lagrime con tanta serenità, che i miei occhi pure ne han versate per diletto. Quando poscia ho narrato tutto ciò all’imperatrice, ell’è quasi svenuta di piacere, e mi ha compensato delle mie novelle con venti baci.
1° Goto. Come puoi tu ripetere tali opere atroci senza arrossire?
Aar. Arrossisco come un mastin nero, come suol dirsi.
Luc. Non hai tu rimorso di sì odiose azioni?
Aar. Sì, ma è di non averne commesse mille di più. Ed anche in questo momento io maledico i giorni (e credo siano pochi) in cui nella mia vita non ho fatto qualche gran male; in cui non ho ucciso un uomo, o non ne ho tramata la morte; in cui non ho violata una fanciulla o non ho accusato un innocente; nel quale non ho sparso un odio mortale fra due amici, o non ho spinto a deviare l’armento di un povero pastore, per farlo quindi cadere lui stesso in qualche precipizio; nel quale non ho incendiato una capanna per dir poscia al proprietario di estinguerne il fuoco col pianto, e non ho dissotterrati i morti per portarli vicino alle case dei loro amici più teneri, quando il loro dolore era quasi passato, incidendo sui cadaveri col mio coltello in lettere romane, come sulla scorza degli alberi; «non muoia il vostro dolore sebbene io sia morto». Io ho compiuto mille delitti colla lietezza con cui ogni altro ucciderebbe un insetto; e nulla più contrista il mio cuore, che il pensare che non ne potrò altri commettere.
Luc. Fate discendere questo demonio; l’appenderlo sarebbe pena troppo dolce.
Aar. Se esistono demonii, vorrei esserne uno per vivere e bruciare fra eterne fiamme, purchè soltanto avessi la tua compagnia all’inferno e potessi cruciarti a mio libito colle mie imprecazioni.
Luc. Soldati, chiudetegli la bocca, e non lo si oda più.
(entra un Goto)
Il Goto. Signore, vi è un messaggiere di Roma che desidera di venire alla vostra presenza.
Luc. Venga. — (entra Emilio) Ben giunto, Emilio; quali novelle di Roma?
Em. Lucio, e voi principi dei Goti, l’imperatore saluta colla mia voce, e avendo assaputo che incedete colle armi alla mano, chiede un colloquio con voi, nella casa di vostro padre. Potete eleggere gli ostaggi che vi saran dati tosto.
1° Goto. Che dice il nostro generale?
Luc. Emilio, l’imperatore dia gli statichi a mio padre e a mio zio Marco, e noi andremo da lui. — Innoltrate. (escono)
SCENA II.
Roma. — Dinanzi alla casa di Tito.
Entrano Tamora, Chirone e Demetrio travestiti.
Tam. È con questo strano abbigliamento ch’io mi presenterò ad Andronico, e gli dirò che sono la Vendetta mandata dal fondo degli abissi per unirmi a lui, e punire i suoi crudeli oppressori. Battete a quella stanza, in cui dicesi ch’egli si soglia chiudere per meditare le più crudeli rappresaglie. Ditegli che la Vendetta è giunta per sussidiarlo nell’esterminio de’ suoi nemici.
(battono; Tito si fa vedere al disopra)
Tit. Perchè turbate le mie meditazioni? vi fate un giuoco dei miei pensieri? Invano m’interrompeste: quello che intendo compiere sta scritto in caratteri di sangue, e si farà.
Tam. Tito, venni per parlare con te.
Tit. No, non una parola. Come potrei io dar grazia al mio discorso, sendo privo della mano che dovrebbe accompagnarlo? Tu hai in ciò l’avvantaggio sopra di me: quindi ritirati.
Tam. Se tu mi conoscessi, favelleresti con me.
Tit. Non sono insensato, e ben ti riconosco. Attesto questo braccio mutilato, e queste rughe sanguinose solcatemi dal dolore; attesto questa luce importuna del dì, e in un la fiera notte; prendo a testimone tutta la mia disperazione ch’io ti riconosco per la nostra superba imperatrice, la potente Tamora: vieni tu forse a chiedermi l’altra mia mano?
Tam. Sappi, vecchio infelice, ch’io non sono Tamora; ella è tua avversaria, ed io ti sono amica. Io sono la Vendetta, mandata dai regni infernali per scacciare l’avoltoio che ti rode il cuore, compiendo orribili rappresaglie sui tuoi nemici. Discendi, e onora il mio arrivo in questo mondo della luce; vieni a intrattenerti con me di morti e di omicidii. Non vi è antro fosco, non solitudine profonda, non vasta oscurità, non valle fangosa servente d’asilo contro i loro terrori al cruento omicidio, o allo stupro spietato, in cui io non possa discoprirli, e far rintronare nelle loro orecchie il mio terribile nome, la Vendetta, nome che fa fremere i colpevoli.
Tit. Sei tu la Vendetta? E fosti tu mandata verso di me per tormentare i miei nemici?
Tam. Sono; quindi discendi, e fammi onoranza.
Tit. Comincia dal rendermi qualche servigio prima ch’io ne venga a te. Ai tuoi fianchi stanno lo stupro e l’omicidio; dammi qualche assicurazione che la Vendetta sei; trafiggili, e schiaccia le loro membra sotto le ruote del tuo carro; allora verrò da te, e condurrò i tuoi cavalli, e insieme andaremo pel mondo. Abbi a’ tuoi comandi due ardenti corridori neri come l’ebano, per trasportare con rapidità il tuo cocchio vendicatore, e disotterrare i micidiali nei loro colpevoli covi. Allorchè il carro tuo sarà gremito di teste, io ne scenderò, e correrò a piedi dietro a te tutto il giorno come uno schiavo, dall’alzarsi del sole in oriente fino a che ei si precipita nell’Oceano; e tutti i giorni riprenderò ufficio sì penoso, purchè tu distrugga lo stupro e l’omicidio sopra la terra.
Tam. Essi sono i miei ministri e mi accompagnano.
Tit. Sono i tuoi ministri? Quale ne è il nome?
Tam. Lo Stupro e l’Omicidio; cotesti nomi portano perchè puniscono i colpevoli dì tali delitti.
Tit. Buoni Dei, come e’ rassomigliano ai figli dell’imperatrice! e voi all’imperatrice! Ma noi deboli uomini non abbiamo che occhi insensati che ne deludono. Oh! dolce Vendetta, io vengo a te, e se l’amplesso di un braccio solo può appagarti, ti stringerò con amore con quello che mi resta. (si ritira)
Tam. Il patto che stringo con lui si addice alla sua follia; quali che si siano le mie invenzioni per alimentare le insensatezze del suo cervello, pensate a secondarle coi vostri discorsi. A lui non rimane alcun dubbio intorno a me, e preso ei mi ha per la Vendetta. Profittando della sua credulità, io lo indurrò a far chiamare suo figlio Lucio; e allorchè mi sarò di lui assicurata ad un banchetto troverò qualche astuzia per disperdere quell’esercito di Goti incostanti, o almeno per far loro rivolgere le armi contro lui, e renderli suoi nemici. Mirate, eccolo che viene; io compierò la mia parte. (entra Tito)
Tit. Sono stato lungamente disperato per cagion tua; sii quindi la benvenuta, furia terribile nella mia misera casa! Stupro, Omicidio, siate del pari i ben giunti. Oh come rassomigliate tutti agl’imperiali! Ottima è la brigata, e solo vi manca un Moro. Forsechè tutto l’inferno non ha potuto procurarvi un demonio che ritraesse delle di lui sembianze? Io ben so che l’imperatrice non esce mai che accompagnata non sia da un nero; e per rappresentare in tutto la nostra signora converrebbe che aveste un egual demonio. Ma siate i ben giunti ad ogni modo; che farem noi?
Tam. Che vorreste che facessimo, Andronico?
Dem. Indicami un omicida, e lo punirò.
Chir. Additami uno scellerato colpevole di stupro, ed io ne trarrò vendetta.
Tam. Appalesami i mille malvagi che ti hanno oltraggiato, e di tutti ti darò ragione.
Tit. Volgi i tuoi sguardi sulle corrotte vie di Roma, e quando discernerai un uomo che ti rassomiglia, caro Omicidio, trafiggilo, perchè sarà un assassino. Tu accompagnalo, e quando vedrai un altro uomo che ha il tuo aspetto, caro Stupro, abbattilo, perchè sarà un violatore dell’onestà. Tu, va dietro ad essi, e se scorgerai nei palagi dell’imperatore una regina, seguita da un nero, che potresti da te facilmente riconoscere, perocchè in tutto ella ti rassomiglia; ad essi, te ne scongiuro, infliggi qualche morte violenta e crudele, avvegnachè crudeli essi furono verso di me.
Tam. Eccoci bene istrutti; ed obbediremo: ma se tu volessi, buon Andronico, far chiamar Lucio, il tuo prode figlio, che conduce verso Roma un esercito tremendo di Goti, e invitarlo a venire ad un banchetto nel tuo palagio, allorchè ei qui fosse, a metà della festa condurrei l’imperatrice, i suoi figli, l’imperatore e tutti i tuoi nemici, che si umilierebbero a grado tuo dinanzi a te, e tu in essi potresti disfogare il tuo cuore sdegnato. Che dice Andronico di tal proposta?
Tit. Marco, fratello! È il mesto Tito che ti chiama. (entra Marco) Va, gentil Marco, dal tuo nipote Lucio, che troverai fra i Goti, e digli di venirne da suo padre adducendo seco i principali del suo esercito; digli di far accampare i soldati dove stanno ora, e che l’imperatore e l’imperatrice verranno ad una festa in mia casa che egli dividerà con essi. Fa ciò per l’amicizia che senti di me, e tieni modo perch’egli si arrenda al mio desiderio, se vero è che abbia in cale gli ultimi giorni del canuto suo padre.
Mar. Questo farò, e ritornerò fra breve. (esce)
Tam. Ora ti lascio per attendere alle tue cose, e conduco meco i miei due ministri.
Tit. No, no, fa che lo Stupro e l’Omicidio rimangano con me, o altrimenti richiamo mio fratello, e non cerco altra vendetta che colle armi di Lucio.
Tam. (a parte) Che ne dite, miei figli? Volete rimanere mentre io vado ad istruire l’imperatore del modo con cui ho ordinato il nostro disegno? Cedete alla sua bizzarrìa, piaggiatelo, carezzatelo, e restatevi con lui fin ch’io ritorni.
Tit. (a parte) Io ben li conosco tutti, quantunque mi reputino insensato, e avvolgerò nella loro stessa trama quella muta di cani infernali, e la loro detestabile madre.
Dem. Signora, partitevi a vostro senno, e lasciateci qui.
Tam. Addio, Andronico: la Vendetta va a meditare per sorprendere i tuoi nemici.
Tit. So a che cosa attenderai; dolce Vendetta, addio.
(Tam. esce)
Chir. Dinne, vecchiardo, in quale ufficio ne vuoi porre?
Tit. Di ciò non vi calga; avrete da fare assai. — Publio, Caio, Valentino, venite qui. (entrano Publio ed altri)
Pub. Che cosa volete?
Tit. Conoscete questi due?
Pub. Sono i figli dell’imperatrice, Chirone e Demetrio.
Tit. Errore, Publio, errore! stranamente t’inganni. Uno è l’Omicidio e l’altro lo Stupro; perciò incatenateli, buon Publio; Caio e Valentino, mettete sopr’essi le mani. Sovente m’avete inteso sospirare per questo momento a cui ora giungo. Incatenateli a dovere e chiudete loro la bocca se vogliono gridare.
(Publio ecc. s’impossessano di Chir. e Dem.)
Chir. Scellerati, fermatevi: siamo i figli dell’imperatrice.
Pub. E perciò eseguiamo quel che ne fu imposto. Chiudete loro la bocca, onde non profferiscano parola. Sono ben stretti? A ciò badate. (rientra Tito con Lavinia; ella con un bacino, ed egli con un coltello)
Tit. Vieni, vieni, Lavinia, mira i tuoi nemici legati. — Amici, fate che non parlino; ma odano solo le terribili parole che io loro dirò. — Demetrio e Chirone, oh! scellerati! ecco la sorgente pura che voi intorbidaste; eccovi dinanzi l’opera delle vostre mani. Voi le uccideste lo sposo, e per sì indegno misfatto due de’ suoi fratelli furono condannati; una mano io perdei con vostro diletto barbaro, ella entrambe, e con esse la lingua, e quel tesoro anche più prezioso di purezza incontaminata che le rapiste. Che rispondereste voi s’io vi lasciassi la libertà di parlare? Vili, voi avreste vergogna d’interceder grazia. Udite com’io mi propongo di cruciarvi: con questa mano che mi resta io vi sgozzerò, intantochè Lavinia sosterrà colle sue braccia mutilate il bacino che riceverà il vostro colpevole sangue. Voi sapete che la vostra madre deve prender parte al mio banchetto, che ella ha simulato il nome di Vendetta, e che mi crede insensato. Ascoltatemi or dunque, iniqui: io triturerò le vostre ossa in polvere, e ne farò una spaventosa vivanda, in cui le odiose vostre teste entreranno, e dirò a quella prostituta esecrabile di divorare, come il seno della terra, la sua prole. Tale è la festa ch’io le darò quand’ella ritornerà, e tali saranno le vivande che dovrà ingoiare. Voi avete adoperato con mia figlia più crudelmente che adoperato non fosse con Filomela; e più crudelmente di Progne vuo’ essere vendicata. Apprestate le gole; Lavinia, ricevi il loro sangue: (li sgozza) e quando saranno morti, pesterò le loro ossa, con questo sangue le bagnerò e farò cuocere in esso le loro teste. Vieni, vieni, ognuno si ammannisca, e mi aiuti ad imbandire sì nuovo banchetto; desidero ch’esso riesca più feroce e più sanguinoso che nol fu quello dei Centauri. Recateli entro la casa, ch’io ne sarò il cuoco, e li cucinerò anzichè giunga la loro madre.
(escono trasportando i cadaveri)
SCENA III.
La stessa. — Una tenda con tavole, ecc.
Entrano Lucio, Marco e Goti con Aaron prigioniero.
Luc. Zio Marco; poichè tale è il volere di mio padre, entrerò in Roma.
1° Goto. E il nostro volere è il tuo, quali che ne siano le conseguenze.
Luc. Buon zio, provvedete voi a questo barbaro Moro, a questo tigre famelico, a questo empio demonio; non gli sia dato alcun alimento, e rimanga incatenato fino a che lo si conduca dinanzi all’imperatrice per rendervi testimonianza di tutti i di lei orribili misfatti. Badate ancora che i nostri amici siano forti e celati: temo che l’imperatore non mediti la nostra perdita.
Aar. Qualche demonio mormora le sue maledizioni al mio orecchio, ed eccita la mia lingua ad esalare tutto il veleno di cui il mio cuore trabocca.
Luc. Lungi di qui, mostro! scellerato inumano! Amici, aiutate mio zio a condurlo lungi. (escono alcuni Goti con Aaron. Squillo di trombe) Le trombe ci annunziano che l’imperatore è vicino.
(entrano Saturnino e Tamora con Tribuni, Senatori ed altri)
Sat. Ha dunque il firmamento più di un sole?
Luc. A che ti vale il chiamarti sole?
Mar. Imperatore di Roma, e tu, nipote, favellate insieme. Questa contesa deve essere placidamente trattata. Il banchetto che il provvido Tito ha ordinato per inaugurare la pace e impedire ogni danno a Roma è già pronto. Vogliate dunque appressarvi e prendere i vostri seggi.
Sat. Così faremo, Marco.
(squilli di cornamuse. Tutti si assidono alle varie mense; entra Tito vestito da cuoco, Lavinia velata, il fanciullo Lucio ed altri. Tito pone i piatti sopra la tavola)
Tit. Siate il ben giunto, mio grazioso signore: e voi pure temuta regina; e voi anche, guerrieri Goti; e tu così, mio Lucio: siate i benvenuti tutti. Sebbene il banchetto sia poco splendido, esso basterà a saziarvi. Incominciate.
Sat. Perchè ti sei così vestito, Andronico?
Tit. Perchè voleva assicurarmi da me che tutto fosse a dovere, per festeggiare Vostra Altezza e questa degna imperatrice.
Tam. Te ne siamo riconoscenti, buon Andronico.
Tit. Lo sareste certamente, se poteste leggere in fondo al mio cuore. Ma sovrano, degnatevi di sciogliermi un dubbio: l’impetuoso Virginio fece egli bene ad uccidere colle sue mani la figlia, perchè era stata disonorata?
Sat. Sì, Andronico.
Tit. Per qual ragione, potente signore?
Sat. Perchè la fanciulla non doveva sopravvivere alla sua vergogna, e rinnovar sempre colla sua presenza i dolori di suo padre.
Tit. Questa ragione è forte ed efficace. È un esempio appagante per me da seguirsi, per me che sono il più infelice dei padri. Muori, dunque, muori, Lavinia, e con te muoia la mia vergogna e i dolori che fin qui mi tribolarono. (uccide Lavinia)
Sat. Che hai tu fatto, snaturato e barbaro?
Tit. Ho uccisa quella che mi ha reso cieco a forza di piangere, e doloroso ne sono, come lo fu Virginio; ma io aveva mille motivi più di lui per compiere tale opera, e l’ho compiuta.
Sat. Che! Fu ella disonorata? Chi si rese di ciò colpevole?
Tit. Vorreste mangiare? Piaccia a Vostra Altezza di cibarsi.
Tam. Perchè uccidesti tu così la tua unica figliuola?
Tit. Non fui io; furono Chirone e Demetrio che la disonorarono e le reciser la lingua: furono essi e non io che le inflissero la morte.
Sat. Si vada tosto in traccia di loro.
Tit. Entrambi furono cucinati entro quella pentola, di cui la loro madre si è di già pasciuta: ella ha mangiata la carne formata da lei stessa. Per tale verità attesto la punta del mio coltello. (uccide Tamora).
Sat. Muori, insensato miserabile, per sì abbominevole fatto.
(uccidendo Tito)
Luc. Può l’occhio di un figlio sostenere la vista del proprio padre agonizzante? A guiderdone, guiderdone; a morte, morte.
(uccide Saturnino. Gran tumulto. Il popolo insorge confusamente. Marco, Lucio e i loro addetti ascendono le scale che stanno dinanzi alla casa di Tito)
Mar. Romani, di cui veggo i volti costernati, e cui tanta strage atterrisce e disperde, come branco d’augelli trasportati dai venti e dal turbine della tempesta, lasciate ch’io v’insegni il modo di riunir di nuovo in un solo fascio tutte le sparse spiche, e di formare con tante membra separate un solo e medesimo corpo.
Un Senatore. Sì, per tema che Roma non divenga il flagello di Roma, e che questa città superba che vede innanzi a sè peritarsi vasti e potenti regni, fatta simile ad un proscritto errante in abbandono, non rivolga sopra se medesima una vergognosa e terribile giustizia. Ma se questi segni di vecchiezza, se queste rughe profonde, gravi testimoni della mia lunga esperienza, non possono indurvi ad ascoltarmi, parlate voi, egregio amico di Roma. (a Lucio) Come un tempo un nostro illustre avo narrò con accento pietoso all’innamorata Didone la storia di quella notte di fiamme e di sciagure, in cui gli astuti Greci sorpresero la famosa Troia; ditene così voi del pari qual perfida sirena aveva ammaliato le nostre orecchie, e qual mano introdotto avea fra le nostre mura la fatal macchina, che danneggiò tanto profondamente questa seconda Troia, questa nostra Roma. Il mio cuore non è di roccia, nè di ferro, e non potrei fare il doloroso racconto de’ nostri mali, senza che torrenti di lagrime soffocassero la mia voce, e interrompessero il mio discorso, allorchè forse eccitasse meglio la vostra attenzione, e intenerisse di più i vostri cuori. Ma ecco un guerriero illustre che supplirà al mio difetto, e cui non potrete intendere senza gravi gemiti e dolori.
Luc. Sappiate dunque, nobili amici, che gli empi Chirone e Demetrio furono quelli che uccisero il fratello del vostro imperatore, che essi furono che disonorarono la sorella nostra, e che i nostri due germani furono decapitati pei delitti atroci di cui essi soli erano colpevoli. Sappiate che le lagrime di nostro padre vennero spregiate; e ch’ei fu colla frode più vile privato di quella mano che condotte avea le guerre di Roma, e precipitatine i nemici entro il sepolcro. Vi sia noto poi che io fui ingiustamente bandito, che le porte della mia patria furon chiuse dietro a me, e che mi vidi cacciato piangente lunge da questa terra, costretto a cercare un ricovero fra i nostri nemici, a cui le mie lagrime han tolto ogni odio, e che mi apersero le braccia; perocchè io era quell’esule, che mantenuta avea la sicurezza di Roma, a prezzo del mio sangue, e che fatto avea argine a lei col mio corpo. Oimè! voi ben conoscete ch’io non ho orgoglio; le mie ferite, quantunque mute, possono attestarvi che io parlo il vero. Ma fermiamoci, perocchè mi sembra che di troppo io devii, esponendo le mie lodi. Vogliate perdonarmi; chè gli uomini si esaltano da sè quando non hanno più amici.
Mar. Tocca ora a me il dire. Mirate quel fanciullo; (indicando il fanciullo che è portato da uno del seguito) Tamora ne fu madre; padre ne fu un empio Moro, autor primiero di tutti questi delitti. Lo scellerato è vivo nella casa di Tito; ed è là per attestare la verità di quanto vi espongo. Giudicate adesso quanta ragione avesse Tito di vendicarsi di tali oltraggi al disopra di tuttociò che l’uomo può sopportare. Ora che sapete la verità, che dite voi, Romani? Commettemmo noi nulla d’ingiusto? Fateci vedere il nostro delitto, e dal posto elevato in cui stiamo entrambi uniti ci precipiteremo per distruggere tutto quello che rimane della sventurata schiatta d’Andronico, per infrangere i nostri capi sopra le selci della via ed estinguere con un colpo solo la nostra casa. Parlate, Romani, parlate, e ad un cenno vostro, colle mani allacciate insieme, Lucio ed io di qui ci avventeremo.
Em. Vieni, vieni, illustre cittadino di Roma, e conducine per mano il nostro imperatore Lucio, perocchè stommi certo che tale lo grideranno tutti gli amici di questa città.
Molti romani. Salute, Lucio! augusto imperatore di Roma!
(Lucio, ecc. discendono)
Mar. (ad uno del seguito) Va nella dolorosa casa dell’estinto Tito, e trascina qui l’empio Moro, onde inflitta gli sia qualche morte crudele per castigo della sua nefanda vita.
Molti Romani. Salute, Lucio! grazioso signor di Roma!
Luc. Grazie, gentili Romani, e possa io reggere l’impero in guisa da sanarne le piaghe, e da cancellarvi ogni memoria dei mali passati! Ma, buon popolo, concedetemi alcuni istanti, perocchè la natura m’impone un ufficio assai doloroso. Ritiratevi a parte: e voi, caro zio, avvicinatevi per isparger funebri lagrime su questo venerando estinto. — Ah! ricevi questo bacio ardente sulle tue labbra pallide e fredde. (baciando Tito) Ricevi questa pioggia di dolore sul tuo volto insanguinato; è il tristo ed ultimo tributo d’amore del figlio tuo!
Mar. Lagrime per lagrime e baci per baci ti dà il tuo fratello Marco e sopra le labbra. Oh! fosse infinita, innumerevole la somma di quelli ch’io avessi a pagarti, e saprei sdebitarmene.
Luc. (a suo figlio) Avvicinati, fanciullo; impara da noi come si piange. Il tuo avolo ti amava teneramente; mille volte ei ti cullò sulle sue ginocchia; e dolcemente ti fe’ addormentare sopra il suo petto; mille volte ei ti disse parole benevoli, e tali che la tua tenera infanzia potesse intenderle. Per riconoscenza, da buono e sensibile fanciullo spargi alcuni pianti per tributo alla natura che li chiede; avvegnachè gli amici si uniscono agli amici nelle pene; porgigli i tuoi ultimi addii; accompagnalo al sepolcro; compi questo pio ufficio; e accomiatati da lui.
Il fanciullo. Oh! mio avolo, mio avolo! Con tutto il cuore vorrei poter morirlo, purchè voi risuscitaste. Padre, le lagrime m’impediscono di parlare; le lagrime mi soffocano s’io tento di aprir la bocca. (entrano alcuni Romani con Aaron)
1° Rom. Alfine, sventurata famiglia d’Andronico, cesseranno i vostri dolori. Profferite la sentenza di questo demone, autore di tante colpe.
Luc. Seppellitelo fino al petto entro la terra, e lasciatelo morire di inedia; ch’ei si rimanga là colle sue grida, e colla rabbia della fame: se qualcuno gli dà soccorso, o ne mostra pietà, sia morto per tal delitto. Tale è la nostra condanna: alcuno rimanga qui perch’ella sia eseguita.
Aar. Oh! perchè la rabbia dovrebb’ella esser muta, e il furore non aver parole? Io non sono un fanciullo per interceder grazia con vili preghiere, e pentirmi del male che compii. Vorrei, se ancor fossi libero, aggiungere altri mille misfatti a quelli che ho già commessi; e mi dolgo dal profondo dell’anima delle opere buone che avessi potuto compiere nel corso di mia vita.
Luc. Qualcuno trasporti lungi il corpo dell’imperatore, e lo interri nel mausoleo di suo padre. Quello del padre mio e di Lavinia verran tosto portati al monumento della nostra famiglia. A questa sanguinosa tigre poi, a questa Tamora alcun rito funebre non verrà concesso, alcuno non vestirà per lei il bruno, niun suono annunzierà le sue esequie, e data ella sarà alle fiere e agli uccelli rapaci. Bestiale fu la sua vita; ella non mai sentì pietà, e pietà non troverà in morte. Vegliate, perchè riempita venga la giustizia verso Aaron, Moro infernale, da cui ebbero origine tutti i nostri danni. Noi ci adopreremo quindi per ristorare l’ordine e la pace nello Stato, e per adottare le disposizioni opportune onde avvenimenti tali più non si mostrino per accelerarne la ruina.
fine del dramma.