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William Shakespeare - Tito Andronico (1593)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1859)
Atto quarto
Atto terzo Atto quinto

ATTO QUARTO



SCENA I.

La stessa. — Dinanzi alla casa di Tito.

Entrano Tito e Marco; quindi il fanciullo Lucio e Lavinia che gli corre dietro.

Il fanciullo. Aiuto, uomo, aiuto! la mia zia Lavinia mi segue dapertutto, e non so perchè. Buon parente Marco, mirate come ella mi vien dietro! Oimè! cara zia, io non so quello che vogliate.

Mar. Sta vicino a me, Lucio; e non temere di tua zia.

Tit. Ella ti ama troppo, fanciullo, per poter farti alcun male.

Il fanciullo. Sì, quando mio padre era in Roma, essa m’amava.

Mar. Che vuol dir mia nipote Lavinia con quei cenni?

Tit. Non temere di lei, Lucio; ella vuol significarmi qualche cosa. — Vedi, Lucio, vedi come ti invita ad andare in qualche luogo con lei. Oh! fanciullo, non mai Cornelia si mostrò più assidua nel ripetere ai suoi figli amabili poesie, com’essa lo fu nell’intrattenerti con dolci letture. Non puoi tu indovinare perchè ella ti solleciti con tanto ardore?

Il fanciullo. Signore, nol so, nè posso indovinarlo, a meno che non sia qualche accesso di demenza che l’agiti; perocchè ho spesso udito dire al mio avolo che il troppo dolore rende insensato, ed ho letto che Ecuba da Troia divenne pazza per angoscia. È ciò che mi ha atterrito, sebbene sappia che la mia nobile zia mi ama teneramente al pari d’ogni madre, e che ella non vorrebbe spaventare la mia fanciullezza, a meno che non fosse in delirio. È per tale sospetto che ho gettato i miei libri e son fuggito forse senza ragione: ma perdonatemi, cara zia, e se il buon Marco vuol venirne con noi, io vi accompagnerò dove vorrete.

Mar. Così farò, Lucio.     (Lavinia svolge coi piedi i libri che Lucio ha lasciato cadere)

Tit. Che accenna ciò, Lavinia? Marco, che vuol ella dire? Ella chiede di vedere un libro: ma quale sarà? Aprili, fanciullo. — Tu però sei più istruita, mia figlia, e puoi scegliere meglio nella mia biblioteca: vieni e inganna il tuo dolore, fino a che il Cielo abbia rivelato l’iniquo autore di questa atrocità. — Perchè alza ella così le braccia l’un dopo l’altro?

Mar. Credo voglia dire che vi fu più d’un scellerato. — Sì, fa più d’uno; o altrimenti ella implora vendetta dal Cielo.

Tit. Lucio, che libro è quello ch’essa svolge così?

Il fanciullo. Le Metamorfosi di Ovidio, datemi da mia madre.

Mar. È forse per tenerezza verso quella madre estinta ch’ella ha scelto quel libro fra tutti gli altri.

Tit. Aspettate, e guardate com’ella ne apre i fogli! Aiutatela: che vi cerca essa? Debbo io leggere, Lavinia? Qui è esposta la tragica storia di Filomela e il tradimento di Tereo, a cui credo che la storia delle tue sventure molto rassomigli.

Mar. Mira, fratello, mira come ella contempla quella pagina.

Tit. Lavinia, saresti tu stata del pari sorpresa, violata e oltraggiata, come lo fu Filomela, nel vasto silenzio dei boschi foschi e insensibili alle tue grida? Qui sta la descrizione di un luogo simile a quello, in cui noi cacciavamo; e piacesse al Cielo che mai iti non fossimo in quel luogo fatale! Quel luogo è simile in tutto all’altro che il poeta ha descritto, e la natura lo ha fatto per l’omicidio e pel ratto.

Mar. Perchè la natura avrebb’ella creata una sì orribile caverna, a meno che gli Dei non si dilettassero nelle catastrofi umane?

Tit. Dammi qualche segno, cara figlia. — Qui non istanno che amici tuoi. Qual Romano osò commettere tale opera? O Saturnino imitò forse l’esempio di Tarquinio, che abbandonò il campo, per andare a contaminare il letto di Lucrezia?

Mar. Assiditi cara nipote; e tu pure, fratello, siedi accanto a me. — Apollo, Pallade, Giove, Mercurio, ispiratemi, aiutatemi a venir in chiaro di questo atroce fatto. — Signore, guardate a me; guarda a me, Lavinia. Questa sabbia è uguale; cerca di condurre come me, se lo puoi, questa mazza, dopo che avrò scritto il mio nome senza il soccorso delle mani, (scrive il suo nome colla mazza tenendola serrata in bocca, e dirigendola coi piedi) Maledetto sia il cuore che ne costringe ad usare tali espedienti! Scrivi sulla sabbia, mia cara nipote, e svela in caratteri visibili il delitto che gli Dei vogliono si discopra onde ne sia fatta vendetta. Il Cielo ti assista in tale opera, e così possiamo noi conoscere i traditori e la verità!

(ella prende la mazza e scrive come le è stato insegnato)

Tit. Oh! leggete voi quello ch’ella ha segnato? Stuprum... Chiron... Demetrius...

Mar. Son dunque i dissoluti figli di Tamora gli autori di questo abbominevole fatto?

Tit.                          ....... Magne Dominator poli,
                    Tam lentus audis scelera? tam lentus vides?

Mar. Calmati, caro Tito, sebbene io affermi che vi è abbastanza di scritto sopra questa sabbia per commuovere e fare sdegnare le anime più miti, per armar di furore il cuore della fanciullezza stessa. Signore, inginocchiatevi con me; Lavinia, genufletti, e tu pure, fanciullo, speranza dell’Ettore di Roma, e giurate tutti meco, come altra volta giurò Giunio Bruto per la violazione di Lucrezia, collo sposo desolato, e il padre di quell’oltraggiata e virtuosa donna; giurate che intenderemo con tutti i mezzi a trarre una vendetta mortale di questi Goti traditori, e che vedremo scorrere il loro sangue, o morremo per tale ingiuria.

Tit. Non è mestieri di giuramenti; è il mezzo che è mal sicuro. Se offendete i nati del leone statevi ben cauti, perchè la loro madre si risveglierà; e se ella vi ha in sospetto una volta sola pensate che strettamente collegata è col leone che culla ed addormenta sopra il suo seno, e che durante il suo sonno può fare quanto le piace. Voi siete un giovine cacciatore, Marco, e senza esperienza: obbliamo tale idea; che ne dici tu, fanciullo?

Il fanciullo. Io dico, signore, che se un uomo fossi, la camera dove dorme la madre loro non sarebbe un asilo sicuro per quegli scellerati, schiavi del giogo romano.

Mar. A tali parole riconosco il fanciullo mio! Il tuo padre ha spesso così operato per questa ingrata patria.

Il fanciullo. Ed io pure lo farò, se vivo.

Tit. Vieni, vieni con me nella mia armeria; io ti vestirò, e quindi porterai ai figli dell’imperatrice i doni che mi propongo di inviar loro. Vieni; non recherai tu tale messaggio?

Il fanciullo. Sì anche col mio pugnale nel loro cuore.

Tit. No, no; t’insegnerò altre cose. Andiamo, Lavinia; Marco, attendi alla casa; io e Lucio procederemo alla corte per vedere quale accoglienza ci verrà fatta.     (escono tutti, tranne Marco)

Mar. Cielo, puoi tu udire i gemiti di un uomo onesto, e non intenerirti, e non commiserare a’ suoi mali? Marco, segui nel suo furore quello sfortunato; il dolore ha fatto al suo cuore più ferite, che i colpi del nemico fatti non ne abbiano sul suo logoro scudo; e nondimeno giusto è pur tanto, che non vuole vendicarsi. Assumi tu dunque, Cielo, le vendette del vecchio Andronico.      (esce)

SCENA II.

La stessa. — Una stanza nel palazzo.


Entrano Aaron, Chirone e Demetrio da una parte; dall’altra il fanciullo Lucio e un seguace con un fascio d’armi in cui stanno scritti certi versi.

Chir. Demetrio, ecco il figlio di Lucio che ha qualche messaggio per noi.

Aar. Sì, qualche folle messaggio per parte del suo folle avolo.

Il fanciullo. Signori, con tutto l’umile rispetto ch’io posso esprimervi vi saluto per commissione di Andronico; (a parte) e prego gli Dei di Roma che vi esterminino entrambi.

Dem. Grazie, amabile Lucio; che v’è di nuovo?

Il fanciullo. (a parte) Che siete entrambi riconosciuti pei maggiori reprobi, tale è la nuova. — (ad alta voce) Col piacer vostro il mio avolo dopo savio consiglio vi manda col mio mezzo le sue più belle armi per consacrarle alla vostra illustre giovinezza, che è la speranza di Roma: così egli mi ha imposto di dire. Io faccio quello che egli mi ha prescritto, e vi presento questi doni, onde al bisogno siate ben difesi; quindi mi accomiato da voi; (a parte) empi traditori.     (esce col seguace)

Dem. Che cosa sta qui? Una pergamena con suvvi scritto! Vediamo:

Integer vitae, scelerisque purus,
Non eget Mauri jaculis, neque arcu.

Chir. Son versi d’Orazio: ben li rimembro, sebbene da gran tempo non li abbia letti.

Aar. È vero, son versi d’Orazio; vi apponete. — (a parte) Come stolti son costoro! Non è questa una beffa volgare; il vecchio ha scoperto il loro delitto, e manda loro queste armi con questi versi, che li feriscono al vivo senza che essi se ne avveggano. Se la nostra astuta imperatrice fosse alzata, ella applaudirebbe alla ingegnosa idea di Andronico: ma lasciamola riposare per qualche tempo sopra il suo letto di dolore. — (ad alta voce) Ebbene, miei giovani signori, non fu una fortunata stella quella che guidò in Roma, stranieri cattivi, per esservi innalzati a tanta grandezza! Molto godei nel disprezzare il tribuno dinanzi alla porta del palazzo e alla presenza stessa di suo fratello.

Dem. Ed io godo più ancora, veggendo un uomo sì illustre insinuarsi tanto bassamente nella nostra grazia e mandarne doni.

Aar. Non n’ha egli donde, Demetrio? Non adopraste voi amichevolmente con sua figlia?

Dem. Vorrei che avessimo un migliaio di dame romane in poter nostro per appagare volta a volta le nostre cupidigie.

Chir. Desiderio caritatevole e pieno di amore!

Aar. Non manca che vostra madre per far eco a tal voto.

Chir. E questo ella farebbe, fosservi ventimila romane di più in tal condizione.

Dem. Partiamo, andiamo a pregare gli Dei per la nostra amata madre, che è ora fra i dolori del parto.

Aar. (a parte) Fregate piuttosto i demonii; perocchè gli Dei ne hanno già abbandonati.     (squillo di trombe)

Dem. Perchè squillan così le trombe dell’imperatore?

Chir. Forse per gioia che l’imperatore abbia acquistato un figlio.

Dem. Chi viene verso di noi?

(entra una nutrice con un lattante moro fra le braccia)

Nut. Buon giorno, signori: mi direste dov’è Aaron?

Aar. Poco più, poco meno, è tutto qui: che volete da lui?

Nut. Ah? gentile Aaron, siamo perduti! Venite in nostro soccorso, o la sventura vi opprimerà per sempre.

Aar. Che bestia è quella che miagola in tal guisa fra le tue braccia?

Nut. È tale che vorrei nasconderla all’occhio dei cieli; è l’obbrobrio della nostra imperatrice e il disonore della superba Roma. Tamora ha partorito, signori, ella ha partorito.

Aar. Chi dunque?

Nut. Un demonio.

Aar. Allora essa è sposa del diavolo; nobile parentado!

Nut. Ella si è sgravata di un parto orrendo, spaventoso e nero, che sarà sorgente di mille guai. Ecco la creatura orribile, simile ad un rospo in mezzo alla prole leggiadra dei nostri climi. L’imperatrice te la manda come tua imagine, segnata del tuo suggello, e t’impone di battezzarla colla punta del tuo pugnale.

Aar. Via, via, miserabile! Il nero è dunque color sì vile? Dolce bottone, tu produrrai un bel fiore.

Dem. Scellerato, che facesti?

Aar. Quello che tu non puoi disfare.

Chir. Hai nociuto a nostra madre.

Aar. Stolto, l’ho invece dilettata.

Dem. Sì, cane d’inferno, e con ciò l’hai tratta in perdizione. Sciagura al di lei amore, e maledetta sia la sua detestabile scelta! Maledizione sopra tal prole!

Chir. Essa non vivrà.

Aar. Non morrà anzi.

Nut. Forz’è che muoia, Aaron: sua madre lo vuole.

Aar. È ciò indispensabile, nutrice? Allora niun altro fuor di me si attenti ad offendere la mia carne e il mio sangue.

Dem. Infilzerò il piccolo rospo colla punta della mia daga; nutrice, dammelo; la mia spada in breve ce ne libererà.

Aar. Questo ferro prima (prendendo il bambino e sguainando la spada) ti avrebbe ricercate le viscere. Fermati, scellerato! Vuoi tu uccider tuo fratello? Per le stelle del firmamento che tramandavano tanto splendore, allorchè questo lattante fu ingenerato, morrà della mia sciabola colui che oserà toccare il fanciullo, mio primogenito ed erede! Io vi dico, insensati, che Encelado stesso con tutta la schiera minacciosa dei figli di Tifone, o il grande Alcide, o il Dio della guerra non potrebbero divellere questo fanciullo dalle mani di suo padre. Che! giovani presuntuosi e crudeli, lividi volti, sembianze deformi! il nero è al disopra di ogni altro colore, perocchè ogni altro colore respinge da sè. Tutta l’acqua dell’Oceano non potrebbe imbiancare le nere gambe del cigno, quando anche ei le lavasse ad ogni istante in quei flutti. Dite all’imperatrice per me, che serbar voglio quello che mi appartiene; ed essa si rassegni a tale sentenza.

Dem. Vuoi tu dunque tradire così la tua nobile signora?

Aar. La mia signora non è che la mia signora; e questo fanciullo è me stesso, il vigore e il ritratto della mia gioventù, e lo antepongo all’intero mondo. In onta del mondo intero conserverò i suoi giorni, o qualcuno di voi ne porterà la pena.

Dem. Con ciò nostra madre è per sempre disonorata.

Chir. Roma la spregierà per sì enorme fallo.

Nut. L’imperatore sdegnato la condannerà a morte.

Chir. Arrossisco pensando a tanta ignominia.

Aar. Tale è dunque il privilegio del vostro bel colore? Sciagura a quella tinta traditrice che rivela col rossore i sensi più intimi dell’anima! Questo fanciullo è conformato ad un altro tipo. Mirate com’ei sorride a suo padre, e sembra dirgli: «mio vecchio padre, a te io appartengo». Egli è vostro fratello, signori; nudrito del medesimo sangue che vi ha data la vita, e cresciuto nel seno stesso in cui siete stati generati. Sì, egli è vostro fratello, e dal lato più sicuro, sebbene il mio suggello stia impresso sulla sua faccia.

Nut. Aaron, che dirò io all’imperatrice?

Dem. Pensa Aaron, a quello che è da farsi, e noi ci rassegneremo alla tua determinazione. Salva il fanciullo, purchè siam tutti salvi.

Aar. Assidiamoci dunque, e consultiamo insieme sopra la salvezza comune.     (si assidono per terra)

Dem. Quante donne han veduto questo fanciullo?

Aar. Così sta bene, signori. Allorchè ci uniamo in lega sono un agnello: ma se disfidate il moro..... il cinghiale in furore, la leonessa delle montagne, l’Oceano in tempesta non sono terribili come Aaron. — Ditene dunque, quante videro il fanciullo?

Nut. Cornelia la mammana ed io; fuori di noi due e dell’imperatrice niun’altra lo vide.

Aar. L’imperatrice, la mammana e voi: due possono mantenere un segreto, quando la terza più non è: va dall’imperatrice e dille ciò che ho detto. (pugnalandola) Così, così grida un maialetto, allorchè viene trapunto collo spiedo.

Dem. Che facesti, Aaron? Perchè tale opera?

Aar. Fu un atto di politica, signore. Doveva io lasciarla vivere per rivelare il nostro delitto? una ciarliera come costei? No, no. Ed ora apprezzate tutta l’estensione de’ miei disegni. Qui vicino abita un Muliteo, mio compaesano, la di cui moglie partorì ieri. Il suo figlio le rassomiglia, egli è bello come voi, ed è del vostro colore; andate a comperarlo; date oro alla madre e avvertiteli entrambi della trama; dite loro come il loro figlio con tal mezzo diverrà erede dell’impero e sostituito sarà al mio, onde disperdere il nembo che si sta formando alla corte. Sopratutto fate che l’imperatore lo accarezzi quale figlio suo. Mi avete inteso, signori? A costei (indicando la nutrice) ho data una medicina, e voi dovete assumere la direzione de’ suoi funerali. I campi non son lontani, e veloci voi siete nel corso. Ciò fatto, pensate a non prolungare gli indugi, ma speditemi tosto la mammana, che, tolta di mezzo come la nudrice, ne farà sicuri del nostro segreto.

Chir. Aaron, veggo che tu non ti confideresti neppure coll’aria.

Dem. Per le cure che ti pigli dell’onore di Tamora, ella ed i suoi ti debbono la più alta riconoscenza. (esce con Chir. trasportando la nutrice)

Aar. Ora corriamo verso i Goti colla celerità della rondinella, per por fra di loro il tesoro che sta fra le mie braccia, e salutare segretamente gli amici dell’imperatrice. — Vieni, sfortunato lattante dalle turgide labbra; lungi di qui io ti reco, perocchè tu solo sei che ne dai molestia. Ti farò nutrire di frutti selvaggi e di radici; ti farò allattare da una capra, e albergare in una caverna: e ti educherò perchè divenga un guerriero e comandar possa un esercito.      (esce)

SCENA III.

La stessa. — Una piazza pubblica.

Entrano Tito con alcune freccie su cui sono parole inscritte, Marco, il fanciullo Lucio ed altri con archi in mano.

Tit. Vieni, Marco, vieni; amici, quest’è la via. Su via, fanciullo, vediamo la tua perìzia nel maneggiar l’arco: tu suoli colpire nel bersaglio, e non verrai meno in questa prova. Terras Astraea reliquit. Ricordatevelo bene, Marco. Ella è partita, è partita, signore; pensate alle vostre incumbenze. Voi, cugino, andrete a veder l’Oceano, e vi getterete i vostri ami. Forse troverete la giustizia in fondo al mare, sebbene poca ve ne sia così in mare, come in terra. No, Publio e Sempronio, convien che ciò facciate; siete voi che dovete scavare colla vanga nel centro profondo della terra, e giunti che siate alla regione di Pluto, vi prego di dirgli per me che fu per dimandare giustizia e implorar soccorso che a lui siamo andati; che vi manda il vecchio Andronico oppresso dai dolori, e gemente nel seno dell’ingrata Roma. — Oh Roma! io ho fatta la tua sventura quel dì che ho riuniti i suffragi del popolo sul tiranno che ora così mi flagella. Ite, partite, e, ve ne prego, siate ben attenti tutti a non lasciare un solo vascello di guerra, senza farvi le debite indagini, perocchè quell’empio imperatore potrebbe aver fatto salpare, per allontanarla di qui, la giustizia, e allora la chiameremmo e la cercheremmo lungamente invano.

Mar. Oh Publio, non è doloroso il vedere il tuo nobile zio in tali accessi di demenza!

Pub. È perciò che ne interessa molto il non lasciarlo, e il vegliare sopra di lui giorno e notte, adoprando il più dolcemente che potremo colla sua follia, fino a che il tempo arrechi qualche sollievo a’ suoi mali.

Mar. Cugini, i suoi dolori sono al disopra d’ogni rimedio. Uniamoci ai Goti, e dichiariamo una guerra esterminatrice a Roma, per punirla della sua ingratitudine e abbattere il traditore Saturnino.

Tit. Ebbene, Publio? L’avete incontrata?

Pub. No, signore, ma Plutone manda a dirvi che se volete ottener vendetta dall’inferno la otterrete. Quanto alla giustizia, ei la crede ora al servizio di Giove nell’Olimpo o altrove, talchè sarete costretto ad aspettarla per un po’ di tempo.

Tit. Egli mi oltraggia con tali indugi; ma io mi tufferò nel lago ardente dell’abisso, e la strapperò pei talloni dal fondo d’Acheronte. — Marco, noi non siamo che fragili canne; noi non siam cedri, non uomini afforzati d’ossa gigantesche, nè di lena ciclopea; ma siamo d’una tempera dura come l’acciaio, sebbene schiacciati da più oltraggi, che non ne potesse sostenere il nostro dorso. — Poichè la giustizia non è nè sulla terra nè all’inferno, pregheremo il cielo, e commuoveremo gli Dei onde ce la rimandino, per vendicare i nostri danni. Su, all’opera. Voi siete un abile arciere, Marco. (distribuisce le freccie) Ad Jovem quest’è per voi. — Questa, ad Apollinem: ad Martem, servirà a me. Tieni, fanciullo, a Pallade. Questa a Mercurio. A Saturno questa, Caio, e non a Saturnino. Tanto varrebbe che tu lanciassi la tua freccia contro il vento. Su via, scoccala, fanciullo; Marco, tu lo farai quando tel dirò. Sull’onor mio! scrissi a meraviglia; non vi è un solo Dio da me obliato.

Mar. Amici, vibriamo tutti i nostri dardi verso la corte; con ciò rintuzzeremo l’orgoglio dell’imperatore.

Tit. Animo, signori, vibrate. (tutti tirano) A meraviglia, Lucio! Dolce fanciullo, in seno alla vergine, affisati in Pallade.

Mar. Signore, io mirai a un miglio oltre la luna; così certamente la vostra lettera giunse a Giove.

Tit. Oh! Publio, Publio, che hai tu fatto! Vedi, vedi, hai reciso una delle corna del Toro!

Mar. Fu per giuoco, signore; allorchè Publio vibrò la sua quadrella, il Toro addolorato diede un colpo sì furioso all’Ariete, che caddero in pari tempo le due corna dell’animale entro al palazzo: e chi trovar le poteva, tranne lo scellerato corruttore dell’imperatrice? Ella si pose a ridere e disse al Moro, che non sapeva astenersi dal darle in dono al suo consorte.

Tit. Sta bene: Dio dia gioia a Vostra Serenità! (entra un villico con un canestro e due piccioni) Ecco novelle del cielo! Marco, è venuto un corriere. — Ebbene; quali novelle ne rechi? Hai lettere? Otterrò giustizia? Che dice Giove?

Il villico. Il Giove che fa i patiboli?1 Dice che gli ha fatti discendere perchè quest’altra settimana vi saranno uomini appesi.

Tit. Ma che dice Giove, ti chieggo?

Il villico. Oimè! signore, io non conosco Giove, non bevvi mai seco in tutta la mia vita.

Tit. Come, scellerato, non sei tu un apportatore.....

Il villico. De’ miei piccioni, signore, e di null’altro.

Tit. Non venisti dal cielo?

Il villico. Dal cielo? Non vi fui mai: Dio mi preservi dall’essere tanto audace di voler ascendere in cielo così giovine. Io me ne andavo coi miei animaletti al tribunale della plebe, per acconciarvi una contesa fra mio zio e uno degli uomini imperiali.

Mar. Costui può assumersi la vosta arringa, signore. Ch’ei vada a consegnare i piccioni all’imperatore per parte vostra.

Tit. Dimmi, sapresti tu recitare un discorso all’imperatore con grazia?

Il villico. No veramente, signore; non seppi mai dir grazia in tutta la mia vita.

Tit. Via, appressati; non muover altre difficoltà: dà i tuoi piccioni all’imperatore. Col mezzo mio otterrai giustizia da lui. Fermati, fermati: ecco danaro pel tuo ufficio. Datemi una penna e un po’ d’inchiostro. Amico, sapresti consegnare una supplica?

Il villico. Sì, signore.

Tit. Ebbene; eccotene una. E quando sarai introdotto presso l’imperatore, ti prostrerai tosto, quindi gli bacierai i piedi, poi gli offrirai i tuoi piccioni, aspettandone la ricompensa. Io ti sarò accanto, amico; pensa a trarti con onore da tale incarico.

Il villico. Vi assicuro, signore, che lo farò.

Tit. Hai un coltello? Fa ch’io lo vegga. Marco, avvolgilo nell’arringa che trascrivesti col tuono di umile supplicante. E allorchè l’avrai data all’imperatore, torna da me per dirmi quello ch’ei t’avrà detto.

Il villico. Dio sia con voi, signore; così farò.

Tit. Vieni, Marco, partiamo; seguici, Publio.     (escono)

SCENA IV.

La stessa. — Dinanzi al palazzo.

Entrano Saturnino, Tamora, Chirone, Demetrio ed altri; Saturnino tiene in mano le freccie che Tito ha lanciate.

Sat. Che dite voi, signori, di tale oltraggio? Fu mai visto alcun imperatore di Roma insultato, spregiato con tant’impudenza, per aver amministrata una giustizia imparziale? Voi lo sapete, signori, come lo sanno gli Dei, che, quali che si siano le calunnie di cui i perturbatori della nostra pace assordano le orecchie del popolo, nulla si è fatto che le leggi non richiedessero, e colle forme dell’equità contro i temerari figli del vecchio Andronico. Ora, perchè i suoi dolori gli han turbata la mente, dovremo noi essere bersaglio della sua vendetta e degli eccessi della sua collera? Egli sempre invoca il cielo perchè lo vendichi. Mirate; ecco una supplica a Giove, una a Mercurio, una ad Apollo, una al Dio della guerra; mirabili dimande in vero perchè si spandano per le vie di Roma! Qual è lo intento di queste beffarde preghiere, se non di diffamare il Senato, e di degradarne col rimprovero dell’ingiustizia? Non è questo un vago scherno, signori? Come s’ei volesse dire che non v’è giustizia in Roma! Ma s’io vivo, la sua simulata demenza non gli servirà di scudo contro la vendetta che maturo. Egli ed i suoi apprenderanno che la giustizia vive in Saturnino; e se ella dorme, il suo insolente procedere la risveglierà tanto, che nel furor suo ella abbatterà il cospiratore più impudente.

Tam. Mio amabile sovrano, mio caro Saturnino, signore della mia vita, re di tutti i miei pensieri, calmatevi e sopportate le colpe di Tito, che effetti sono del dolore che causato gli ha la perdita de’ suoi generosi figli, la cui morte aprì nel suo cuore una piaga profonda. Abbiate pietà del suo stato infelice piuttostochè inveire per questi insulti contro il più debole e più onesto uomo di Roma. (a parte) Si addice alla astuta Tamora il piaggiarli tutti. Ma, Tito, io ti ho toccato al vivo, e tutto il tuo sangue sgorgherà. Se Aaron è ora savio, l’àncora è in porto. (entra il villico) Che vuoi, amico? Desideri parlarne?

Il villico. Sì, se voi siete la Maestà Imperiale.

Tam. Imperatrice io sono; ed ecco l’imperatore.

Il villico. È lui che voglio. — Dio e santo Stefano vi facciano felice. Vi ho recato una lettera e un paio di colombe.

Sat. (dopo aver letta la lettera) Sia costui preso e venga tosto appiccato.

Il villico. Quanto danaro avrò?

Tam. Via, miserabile, tu devi essere appiccato.

Il villico. Appiccato! per la vergine! ho dunque condotto qui il mio collo ad un bel termine!     (esce fra le guardie)

Sat. Oltraggio sopra oltraggio. Fino a quando patirò io tante scelleratezze? So di dove procede questa lettera; e ciò è insopportabile. Direbbesi che i traditori suoi figli, che la legge condannò a morire per l’omicidio del fratel nostro, fossero stati uccisi ingiustamente per un mio ordine folle. Escite, trascinate qui pei capelli quel malandrino, a cui nè l’età, nè i passati servigi saran di scudo. Per sì audace insulto vuo’ essere io stesso l’uccisore di quel furioso che mi fu sgabello al trono, nella speranza di governar quindi Roma e me. (entra Emilio) Quali novelle, Emilio?

Em. All’armi, all’armi, signore! Roma non mai ebbe maggior motivo di temere! I Goti han radunato un esercito, e con schiere di soldati coraggiosi e avidi di bottino vengono a gran giornate verso Roma, sotto la condotta di Lucio, figlio del vecchio Andronico, che minaccia di imitare Coriolano nel corso delle sue vendette.

Sat. Il tremendo Lucio è generale dei Goti? Tale novella mi agghiaccia di spavento e mi fa piegar il capo, come i fior sorpresi dal gelo, o l’erbe battute dalla tempesta. Ah! è ora che le nostre sventure comincieranno; quel Lucio è l’amore del popolo, ed io stesso quando travestito mi confondevo fra la folla udivo spesso dire che il di lui bando era ingiusto, e che egli meritava di essere imperatore.

Tam. Perchè tremereste? la nostra città non è forse atta alle difese?

Sat. Sì, ma i cittadini amano Lucio, e diserteranno le mie insegne per unirsi a lui.

Tam. Re, abbiate i sentimenti dei re, come ne avete i titoli. Il sole è egli ecclissato dagli atomi che ingombrano i suoi raggi? L’aquila permette ai deboli uccelli un vano canto, nè le cale di quello a cui esso accenna, certa di potere coll’ombra delle sue ali far tacere a suo grado i suoni delle loro voci. Voi saprete del pari impor silenzio al popolo insensato. Rinfrancatevi, caro principe, e pensate ch’io saprò allettare il vecchio Andronico con parole dolci, ma più perigliose che non lo è l’esca che seduce il pesce, e il miele della pianta fiorita, delizia della pecorella; per cui l’uno muore trafitto dall’amo, l’altra avvelenata da un pascolo caro.

Sat. Ma egli non vorrà pregare suo figlio per noi.

Tam. Se Tamora ne lo richiede, lo vorrà; perocchè io saprò lusingare la sua vecchiezza, e assopirla fra splendide promesse; e quand’anche il suo cuore fosse insensibile, e il suo orecchio sordo, il suo cuore e il suo orecchio obbedirebbero ai prestigi della mia lingua. Va, Emilio, precedine, e sii nostro ambasciatore. Di’ che l’imperatore chiede una conferenza col prode Lucio, e ferma il ritrovo, fosse anche nella casa di suo padre, del vecchio Andronico.

Sat. Emilio, riempite onorevolmente il messaggio; e dite a Lucio che se vuole statichi per la sua sicurezza ne avrà finchè desidera.

Em. Seguirò i vostri ordini.                                    (esce)

Tam. Io andrò da Andronico, e lo placherò con l’arte che possiedo, e tutto farò per togliere il valente duce ai soldati Goti. Riprendete la vostra gaiezza, amato principe, e date bando ad ogni timore, fidevole nella mia sagacità.

Sat. Possiate voi riescire ne’ vostri intenti.     (escono)








  1. Invece di Jupiter il villico intende Gibbet-maker, facitore di forche.


Note

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