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ATTO TERZO
SCENA I.
Roma. — Una strada.
Tit. Ascoltatemi, venerabili Senatori; nobili Tribuni, fermatevi un istante per pietà della mia vecchiezza; pensate che tutta la mia vita fu spesa fra guerre perigliose mentre voi riposavate sereni. In nome di tutto il sangue che sparsi per la gloria di Roma, di tutte le gelide notti che passai assiderando; in nome di queste lagrime amare che riempier vedete sulle mie gote le rughe della mia vecchiaia, abbiate pietà de’ miei figli condannati, le cui anime non son ree come ognun crede! Ventidue figli perdei senza spargere una lacrima, perocchè morirono sul letto dell’onore: ma per questi, per questi Tribuni, (gettandosi a terra) io segno sulla polvere il mio dolore e bagno la terra di un pianto disperato. Ah! questa terra non debba arrossire pel sangue dei figli miei. (escono i Senatori, i Tribuni, i prigionieri ecc.) Oh! suolo natìo, darò alla tua sete più lagrime cadenti da queste due urne raggrinzite, che il giovine Aprile non ti dia rugiade; fra gli ardori della state te ne annaffierò; nell’inverno sciorrò con esse le tue nevi, e manterrò una verdura perenne sopra di te, se rifiuti di bere il sangue dei miei figli. (entra Lucio colla spada sguainata) Venerandi Tribuni, pii vecchi, liberate i miei figli, revocate la condanna di morte, e fate dire a me, a me, che non mai prima di questo giorno piansi, che le mie lagrime hanno intenerito i vostri cuori.
Luc. Oh! nobile padre, vi dolete invano; i tribuni non vi ascoltano; alcun qui non vi ode, e voi esprimete i vostri dolori alle pietre insensibili.
Tit. Ah! Lucio, lasciami perorare la causa de’ tuoi fratelli. — Degni Tribuni, di nuovo io vi indirizzo le mie preghiere.
Luc. Signore, qui non v’è alcun tribuno che vi ascolti.
Tit. Che giova? Se m’intendessero non attenderebbero a me, ovvero, siccome son loro intieramente inutile, m’udrebbero senza provare alcuna pietà: onde è alle pietre che narro i miei affanni, e se esse non possono rispondere alle mie querele, almeno son più pietose dei tribuni, poichè non le interrompono. Allorchè io piango esse accolgono pazientemente le mie lagrime, e sembrano intenerirsi con me, e se vestite fossero a lutto, Roma non avrebbe tribuni pari a loro. La pietra è molle cera; i tribuni son più duri degli scogli: le pietre son silenziose e non offendono alcuno; i tribuni dannano a morte. Ma perchè ti veggo io colla spada sguainata?
Luc. Per istrappare da morte i miei due fratelli là denudati; per tale impresa ebbi un bando eterno.
Tit. Te fortunato, che provasti gli effetti della loro amistà! Oh insensato Lucio! non ti avvedi tu che Roma non è che un antro di tigri? Alle tigri voglionsi dar prede; e Roma non n’ha di migliori di me e dei miei. Come avventuroso tu sei di andare bandito lungi da questi mostri voratori! Ma chi sopraggiunge col mio fratello Marco? (entrano Marco e Lavinia)
Mar. Tito, prepara i nobili tuoi occhi al pianto; o se nol puoi converrà che il tuo cuore si spezzi. Ti predico un dolore che consumerà il resto della tua vita.
Tit. Che la consumerà? Affrettati dunque.
Mar. (indicando Lav.) Questa fu tua figlia.
Tit. Sì, Marco, ed ancora lo è.
Luc. Oimè! Tal vista mi uccide. (cade per terra)
Tit. Debole garzone, sorgi e mirala... Parla, mia Lavinia, qual maledetta mano ti mandò sì mutilata dinanzi al padre tuo? Quale insensato aggiunse acqua al mare, o gettò legna entro Troja in fiamme? Prima d’averti veduto il mio dolore era al colmo, ed ora come il Nilo straripato non ha più limiti. — Datemi una spada, chè io pure mi recida le mani per punirle d’aver combattuto per Roma; per punirle d’aver alimentata la mia vita, e prolungati i miei dì per quest’orribile sventura; e per essere state tese invano ad inutili preghiere. Ora l’unico servigio che richieggo da loro è che l’una tagli l’altra. — Bene sta, Lavinia, che tu non abbia più mani, perocchè inutile è d’averne per servir Roma.
Luc. Parla, cara sorella, chi ti ha così cruciata?
Mar. Oh! l’organo vezzoso de’ suoi pensieri, che li esprimeva con sì dolce eloquenza, è strappato dalla bella gabbia, dove come un uccello melodioso vibrava quei suoni gradevoli, che incantavano l’orecchio.
Luc. Parla tu dunque per lei e dinne chi ne fe’ tale oltraggio?
Mar. In questo stato io la trovai errante per la foresta, vogliosa di nascondersi come la timida damma che ha ricevuta una incurabile ferita.
Tit. La mia damma essa era, e quegli che l’ha ferita mi ha fatto più male che se ucciso mi avesse. Ora sono come un uomo sopra uno scoglio, ricinto da un vasto mare, che vede crescere il flusso, ed ogni onda vieppiù avanzarsi, aspettando il momento in cui la marea nemica l’inghiottirà. È per questa via che i miei due figli andarono a morte; questi è l’altro mio figlio condannato all’esilio; e questi è il mio fratello che si lagna delle sue sventure; ma di tutti i miei mali quello che più mi abbatte e mi riduce in termine di vita è la sventura della mia Lavinia, più cara a me della mia anima. — La vista sola del tuo ritratto in tale stato sarebbe bastata a rendermi demente; che diverrò io mentre ti veggo così in persona? Tu non hai più mani per asciugare le tue lagrime, nè lingua per nominare il crudele che ti ha oltraggiata. Il tuo sposo è morto, e i tuoi fratelli per la morte di lui furono condannati, e sono ora estinti. — Mira, Marco!... Lucio, mio figlio, mirala!... Allorchè nominai i suoi fratelli nuovi pianti sgorgarono sulle sue gote, come una dolce rugiada sopra un giglio raccolto e di già avvizzito.
Mar. Forse piang’ella perchè essi le uccisero lo sposo: forse pure perchè li sa innocenti della sua morte.
Tit. Se essi furono che ti uccisero lo sposo, addimostra la tua gioia, sapendo che la legge ha vendicata la di lui uccisione. — No, no, i tuoi fratelli non han commesso delitto sì atroce, il tuo dolore ne è testimonio. — Amabile Lavinia, lascia ch’io baci le tue labbra, o fammi comprendere con qualche cenno in qual guisa potrei consolarti. Vuoi tu che insieme col tuo nobile zio e col tuo fratello Lucio, andiamo tutti ad assidersi presso qualche fonte per tenervi gli occhi rivolti verso l’onda e contemplarvi i nostri volti inondati dalle amare nostre lagrime, simili a’ prati che asciutti ancora non sono della rugiada che la notte vi ha sparso? Ovvero ami che ci tagliam le mani, come tagliate ti furono le tue, o che ci recidiamo la lingua coi denti, e trascorriamo con muti gesti l’avanzo dei nostri nefandi giorni? Che desideri che facciamo? Noi a cui rimane l’uso della favella immaginiamo qualche disegno di miseria più orribile, per far meravigliare l’avvenire coi nostri infortunii.
Luc. Mio caro padre, cessate dai vostri pianti, perocchè mirate come questa disperazione mette in disperazione la mia povera sorella.
Mar. Pazienza, cara nipote; buon Tito, asciuga le tue lagrime.
Tit. Ah Marco, Marco! fratello, io ben conosco che il tuo drappo non può più tergere il mio pianto, perchè, infelicissimo, è già inzuppato del tuo.
Luc. Ah mia Lavinia! io vuo’ asciugare le tue gote.
Tit. Osserva, Marco, osserva! Io comprendo quello che essa ora dice. Avesse ora una lingua per parlare, ed esprimerebbe a suo fratello quello ch’io significo a te. Il drappo suo è molle tanto di pianto, che di alcun buon ufficio non può più esserle. Oh qual serie di dolori interminata è mai questa! tanto lontani da ogni conforto, quanto lo sono i limbi dalla felicità dei Cieli.
(entra Aaron)
Aar. Tito Andronico, l’imperatore mi invia a dirti che se ami i tuoi figli operi sì che Marco o Lucio si taglino una mano, o che te ne recida una tu stesso o gliene mandi, e in ricompensa ei ti ritornerà i figli tuoi vivi, e sarà tale il riscatto del loro delitto.
Tit. Oh generoso imperatore! Oh grazioso Aaron! Il nero corvo ha egli mai fatto udire accenti sì dolci, come quelli dell’allodola che ne avverte dell’alzarsi del sole? Con tutto il cuore manderò all’imperatore la mia mano. Buon Aaron, vuoi tu aiutarmi a troncarla?
Luc. Fermatevi, padre; voi non gli manderete quella mano gloriosa che ha atterrati tanti nemici: la mia vi sia sostituita: io posso perdere più sangue di voi; e sarà la mia vita che ricomprerà quella dei miei fratelli.
Mar. Quale delle vostre mani non ha difesa Roma, e innalzata non ha la mannaia sanguinosa nei combattimenti, facendo piombare la distruzione sugli elmi nemici? Ah! mano qui non v’ha che illustre non sia per geste illustri: la mia ha meno d’ogni altra operato, serva ella dunque oggi di riscatto a’ miei nipoti, e per un degno uso l’avrò conservata.
Aar. Accordatevi intorno alla mano che debbe essere immolata, per tema ch’essi non muoiano prima che giunga il loro perdono.
Mar. Sarà la mia.
Luc. No, pel Cielo!
Tit. Amici, non contendete più oltre; erbe appassite come questa debbono essere strappate: sia la mia mano.
Luc. Mio caro padre, se vero è che ti sia figlio, lascia ch’io riscatti i miei due fratelli dalla morte.
Mar. In nome della tenerezza del padre nostro e della nostra madre, fa ch’io ora ti provi il mio affetto fraterno.
Tit. Accordatevi fra di voi; a voi cedo l’onore.
Luc. Io corro dunque a cercare una scure.
Mar. Ma io solo ne farò uso. (esce con Luc.)
Tit. Avvicinati, Aaron, io gli ingannai entrambi; prestami la tua mano, ed io ti darò la mia.
Aar. (a parte) Se codesto si chiama ingannare, io sarò onesto, e non mai ingannerò gli uomini finchè vivrò. Ma in un altro modo io t’ingannerò, e lo vedrai prima che sia trascorsa una mezz’ora.
(taglia la mano a Tito; entrano Lucio e Marco)
Tit. Ora cessate dalle contese; quello che si era da farsi fu fatto. Buon Aaron, va a dar la mia mano all’imperatore, e digli che fu essa che lo protesse contro mille pericoli: esortalo a seppellirla degnamente, che ben lo ha meritato; fa che da lui ottenga almeno tal grazia. Quanto ai miei figli, digli che son due tesori racquistati da me con poca spesa, ed anche a niun caro prezzo racquistati, perocchè mi appartenevano.
Aar. Parto, Andronico; e pel sagrificio della tua mano apprestati fra breve a vedere i tuoi figli (a parte), io intendo le loro teste. Oh come tale scelleratezza mi empie di gioia! Gl’insensati facciano il bene, e gli uomini belli cerchino di piacere. Aaron vuole avere un’anima nera come il suo volto. (esce)
Tit. Alzo verso il cielo questa mano che mi rimane, e fino a terra piego questo debole corpo. Se vi è qualche Divinità che commiseri alle lagrime degli sfortunati, essa io imploro. — Vuoi tu inginocchiarti con me? (a Lav.) Fallo, dolce anima, il Cielo udirà le nostre preghiere; o noi oscureremo il firmamento col vapore dei nostri sospiri, e avvolgeremo di nebbia la faccia del sole, come fan talvolta le nubi allorchè quello avviluppano nel loro seno piovoso.
Mar. Oh fratello! parla con senno e non venirne a tali estremi.
Tit. Non è il mio dolore un abisso senza fondo? e non debbono i miei sentimenti conformarvisi?
Mar. Ma fa che la ragione governi il tuo dolore.
Tit. Se ragione vi fosse per isventure siffatte usar ne saprei: ma allorchè il cielo piange, la terra non è sommersa sotto l’acqua? Se i venti inferociscono, il mare non divien furioso, e non minaccia d’innalzar fino alle stelle il volume delle sue onde? E vuoi tu porre in opera la ragione per sì tremendo disordine? Io sono il mare; odi come i sospiri della figlia mia si esalano con violenza! Ella è il cielo che piange, ed io la terra; quindi conviene che commosso rimanga dai suoi sospiri, che inondato sia dalle sue lagrime, che sommerso ne vada come per un diluvio. Le mie viscere non possono contenere la mia disperazione, e come un’ebbro forza è ch’io la spanda. Lasciami dunque abbandonarmi liberamente ai miei affanni; perocchè quegli che perde deve potere ricreare colle bestemmie l’oppresso suo cuore.
(entra un messaggiere portante due teste e una mano)
Mess. Degno Andronico, tu sei ben male ricompensato del sagrificio di questa nobile mano che mandasti all’imperatore; ecco le teste dei due tuoi virtuosi figli; ed ecco la tua mano che, ti si rimanda con disprezzo: i tuoi dolori son loro di sollazzo, e il tuo coraggio è un soggetto di risa. Soffro più pensando ai mali tuoi, che ricordando la morte del padre mio. (esce)
Mar. Ora l’Etna bollente si estingua in Sicilia, e il mio cuore sia un inferno ardente di eterni fuochi! Ah! troppo sono questi mali, perchè si possano tollerare! Piangere con quelli che piangono è di qualche sollievo; ma un dolore che insultato viene è una doppia morte.
Luc. Ah! è egli possibile che tale atroce spettacolo faccia nel mio cuore sì profonda ferita, e che nondimeno la mia vita non cessi? È possibile che la morte lasci a questa detestata esistenza ancora il suo nome, sebbene per esser tale essa più non abbia che la facoltà di respirare? (Lavinia lo bacia)
Mar. Oimè! povero cuore, quel bacio è senza consolazione, come un’acqua agghiacciata per un serpente sfinito dalla fame.
Tit. Quando finirà questo terribile sogno?
Mar. Addio ora, illusioni, addio! Muori, Andronico; no, tu non sogni. Mira le teste dei tuoi due figli, mira la tua mano recisa, la tua figlia mutilata, l’altro tuo figlio bandito, pallido e languente a sì orribile vista; ed io tuo fratello muto ed immobile come statua di marmo. Ah! non cercherò più di moderare la tua disperazione; divelliti i bianchi capelli, squarciati coi denti l’altra mano tua; a serie sì crudele di guai chiudi alfine i tuoi occhi troppo sfortunati! Ecco il momento di abbandonarti a tutta la tempesta della tua rabbia; perchè sei tu tranquillo?
Tit. Ah, ah, ah... (ridendo)
Mar. Tu ridi? Strano in tal momento.
Tit. Non ho più una lagrima da versare, e questa disperazione è un nemico che vorrebbe a forza di pianti acciecarmi. Per quale strada troverò io la caverna della vendetta? perocchè quelle due teste sembrano parlarmi e minacciarmi di non mai entrare nel soggiorno della felicità, fino a che tutti questi misfatti ricaduti non siano sopra coloro che gli han commessi. Su dunque veggiamo qual missione mi resta a compiere. — Voi, tristi compagni, circondatemi onde io possa rivolgermi verso ognuno di voi, e giurar meco stesso di vendicare i vostri danni. Il voto è profferito. — Andiamo, fratello, prendi una testa; ed io porterò l’altra con questa mano. Lavinia, tu pure sarai impiegata in tale impresa, portando fra i denti l’altra mia mano. Tu, giovine, allontanati dalla mia vista; bandito tu sei, e qui più non devi restare; corri verso i Goti, e leva fra essi un grande esercito; e se mi ami, come penso, abbracciamoci e separiamoci, perocchè molte cose ci rimangono da fare. (esce con Mar. e Lav.)
Luc. Addio, Andronico, mio nobile padre; uomo il più misero che mai vivesse in Roma! Addio, superba Roma. Lucio lascia qui fino al suo ritorno pegni più cari della sua vita. Addio, Lavinia, mia virtuosa sorella; ah! perchè non sei tu ancora quella che un tempo fosti? Ma ora Lucio e Lavinia non esistono più che nell’obblio, e in un fondo di dolori insopportabili. Se Lucio vive, egli vendicherà i vostri oltraggi, e costringerà il superbo Saturnino e la sua regina crudele a chieder grazia alle porte di Roma, come altra volta Tarquinio e la donna sua. Presso i Goti io ne andrò per radunarvi un esercito, che mi vendicherà di Roma e del suo nefando imperatore. (esce)
SCENA II.
Una stanza nella casa di Tito.
È apprestato un banchetto; entrano Tito, Marco, Lavinia e il fanciullo Lucio.
Tit. Sì, sì; ora assidiamoci e pensate a non prendere altro alimento, che quello che è necessario per conservare in noi bastanti forze, onde vendicar gli spaventosi mali che ci opprimono. Marco, sciogli il nodo dei tuoi tristi abbracciamenti; la tua nipote ed io, sfortunata creatura, siam privi delle nostre mani, e alleviar non possiamo il nostro dolore stringendoti al petto. Questa povera mano che mi resta non mi è lasciata che per maggior tormento; e quando il mio cuore forsennato batte con violenza in questa prigione di carne, con essa a gran colpi lo reprimo. — Tu, imagine (a Lav.) di indicibili guai, che con cenni mi parli, tu non puoi, quando il tuo cuore raddoppia i suoi palpiti, calmarlo come me. Incitalo dunque, figlia mia, coi sospiri; frangilo a forza di singulti; o stringi fra i denti qualche acuto ferro, e immergilo direttamente in esso, onde tutte le lagrime che sgorgano dai tuoi poveri occhi cadano entro la ferita, per annegarvi in un mare di pianto quell’insensato che si lamenta.
Mar. Via, fratello, via; non insegnare alla figlia tua a rivolgere sopra di sè mani omicide.
Tit. Oh! il dolore ti fa egli traviare? Marco, non è che a me che appartenga di essere insensato. Qual mano omicida può essa rivolgere sopra di sè? Come profferisci tu il nome di mano? È un esortare Enea a raccontar due volte l’incendio di Troia e la storia delle sue sventure. Oh! astienti dal nulla dire che ne richiami quel che più non abbiamo. Che parlo io? insensato ch’io sono! Come se obbliare mai potessimo che non abbiamo più mani, quand’anche Marco non ne profferisse il nome. — Ma cominciamo, cara figlia, e mangia di questa vivanda. — Qui però non vi è da bere; attendi tu, Marco, a quello ch’essa dice: sebbene io ancora potrei interpretare i suoi cenni dolorosi. Essa dice che non saprebbe inghiottire altro liquido che i suoi pianti. Muta sfortunata, diverrò esperto nel leggere il tuo pensiero, e familiare mi farò con esso, come lo sono gli eremiti colle loro preghiere. Tu non esalerai più sospiro, non innalzerai più braccio verso il cielo, non muoverai più occhio, non farai più cenno, che io non ne abbia un alfabeto, e non giunga con assidua cura a penetrare tutte le tue intenzioni.
Il fanciullo. Mio buon avolo, lascia queste amare lagnanze, e rallegra mia zia con qualche lieto racconto.
Mar. Oimè! questo tenero fanciullo, commosso da nostri dolori, piange vedendo le sventure del suo avolo.
Tit. Calmati, tenero rampollo; tu sei composto di lagrime, e la tua vita si scioglierà in breve con esse. (Marco batte un piatto con un coltello) Chi volesti colpire col tuo coltello, Marco?
Mar. Quello che uccisi, signore, un moscerino.
Tit. Via di qui, omicida! tu mi trafiggi il cuore; i miei occhi sono stanchi di tirannia. Un atto di morte esercitato sopra un essere innocente non si addice al fratello di Tito. Esci di qui: m’avveggo che non sei degno della mia compagnia.
Mar. Oimè! signore, non fu che una mosca che uccisi.
Tit. E se essa aveva un padre e una madre, di quali dolori non sarai tu stato loro cagione! Povero e innocente insetto venuto qui per alleviare i nostri mali col suo ronzìo melodioso! tu l’hai ucciso.
Mar. Perdonate, signore, era un insetto nero e deforme come il Moro dell’imperatrice, e perciò l’uccisi.
Tit. Oh, oh, oh! allora scusa me d’averti biasimato, perchè facesti opera pietosa. Dammi il tuo coltello perch’io ne oltraggi il cadavere, illudendomi come se in lui vedessi il Moro, che fosse venuto direttamente per avvelenarmi. Questo è per te, e questo è per Tamora, scellerato! (ferendo) Nè credo che sì al verde siamo ridotti da non poter uccidere fra di noi un moscerino, che viene ad offrirci l’effigie di quel nero e odioso Moro.
Mar. Oimè, infelice! il dolore ha fatto tanti strazi sopra di lui, ch’egli prende vani fantasimi per oggetti reali.
Tit. Su via, leviamoci; Lavinia, vieni con me: andrò nel mio studiolo per leggervi teco le meste storie dei tempi antichi. Vieni, fanciullo; la tua vista è giovine e leggere tu potrai, quando la mia comincierà a turbarsi. (escono)