< Trattatello in laude di Dante
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XXV
Carattere di Dante
XXIV XXVI


Fu il nostro poeta, oltre alle cose predette, d’animo alto e disdegnoso molto; tanto che, cercandosi per alcun suo amico, il quale ad istanzia de’ suoi prieghi il facea, che egli potesse ritornare in Fiorenza, il che egli oltre ad ogni altra cosa sommamente disiderava, né trovandosi a ciò alcuno modo con coloro li quali il governo della republica allora aveano nelle mani, se non uno, il quale era questo: che egli per certo spazio stesse in prigione, e dopo quello in alcuna solennità publica fosse misericordievolmente alla nostra principale ecclesia offerto, e per conseguente libero e fuori d’ogni condennagione per addietro fatta di lui; la qual cosa parendogli convenirsi e usarsi in qualunque e depressi e infami uomini, e non in altri; per che, oltre al suo maggiore disiderio, preelesse di stare in esilio, anzi che per cotal via tornare in casa sua. Oh isdegno laudevole di magnanimo, quanto virilmente operasti, reprimendo l’ardente disio del ritornare per via meno che degna ad uomo nel grembo della filosofia nutricato!

Molto simigliantemente presunse di sé, né gli parve meno valere, secondo che i suoi contemporanei rapportano, che el valesse; la qual cosa, tra l’altre volte, apparve una notabilmente, mentre che egli era con la sua setta nel colmo del reggimento della republica. Ché, con ciò fosse cosa che per coloro li quali erano depressi fosse chiamato, mediante Bonifazio papa VIII, a ridirizzare lo stato della nostra città, uno fratello ovvero congiunto di Filippo allora re di Francia, il cui nome fu Carlo, si ragunarono ad uno consiglio per provedere a questo fatto tutti li prencipi della setta con la quale esso tenea; e quivi tra l’altre cose providero che ambasceria si dovesse mandare al papa, il quale allora era a Roma, per la quale s’inducesse il detto papa a dovere ostare alla venuta del detto Carlo, ovvero lui, con concordia della setta, la quale reggeva, far venire. E venuto al diliberare chi dovesse esser prencipe di cotale legazione, fu per tutti detto che Dante fosse desso. Alla quale richiesta Dante, alquanto sopra sé stato, disse: «Se io vo, chi rimane? se io rimango, chi va?», quasi esso solo fosse colui che tra tutti valesse, e per cui tutti gli altri valessero. Questa parola fu intesa e raccolta, ma quello che di ciò seguisse non fa al presente proposito, e però, passando avanti, il lascio stare.

Oltre a queste cose, fu questo valente uomo in tutte le sue avversità fortissimo: solo in una cosa non so se io mi dica fu impaziente o animoso, cioè in opera pertenente a parte, poi che in esilio fu, troppo più che alla sua sufficienzia non appartenea, e ch’egli non volea che di lui per altrui si credesse. E acciò che a qual parte fosse così animoso e pertinace appaia, mi pare sia da procedere alquanto più oltre scrivendo.

Io credo che giusta ira di Dio permettesse, già è gran tempo, quasi tutta Toscana e Lombardia in due parti dividersi; delle quali, onde cotali nomi s’avessero, non so; ma l’una si chiamò e chiama «parte guelfa», e l’altra fu «ghibellina» chiamata. E di tanta efficacia e reverenzia furono negli stolti animi di molti questi due nomi, che, per difendere quello che alcuno avesse eletto per suo contra il contrario, non gli era di perdere gli suoi beni e ultimamente la vita, se bisogno fosse fatto, malagevole. E sotto questi titoli molte volte le città italiche sostennero di gravissime pressure e mutamenti; e intra l’altre la nostra città, quasi capo e dell’uno nome e dell’altro, secondo il mutamento de’ cittadini; intanto che gli maggiori di Dante per guelfi da’ ghibellini furono due volte cacciati di casa loro, e egli similemente, sotto il titolo di guelfo, tenne i freni della republica in Firenze. Della quale cacciato, come mostrato è, non da’ ghibellini ma da’ guelfi, e veggendo sé non potere ritornare, in tanto mutò l’animo, che niuno più fiero ghibellino e a’ guelfi avversario fu come lui; e quello di che io più mi vergogno in servigio della sua memoria è che publichissima cosa è in Romagna, lui ogni feminella, ogni piccol fanciullo ragionante di parte e dannante la ghibellina, l’avrebbe a tanta insania mosso, che a gittare le pietre l’avrebbe condotto, non avendo taciuto. E con questa animosità si visse infino alla morte.

Certo, io mi vergogno dovere con alcuno difetto maculare la fama di cotanto uomo; ma il cominciato ordine delle cose in alcuna parte il richiede; perciò che, se nelle cose meno che laudevoli in lui mi tacerò, io torrò molta fede alle laudevoli già mostrate. A lui medesimo adunque mi scuso, il quale per avventura me scrivente con isdegnoso occhio d’alta parte del cielo ragguarda.

Tra cotanta virtù, tra cotanta scienzia, quanta dimostrato è di sopra essere stata in questo mirifico poeta, trovò ampissimo luogo la lussuria, e non solamente ne’ giovani anni, ma ancora ne’ maturi. Il quale vizio, come che naturale e comune e quasi necessario sia, nel vero non che commendare, ma scusare non si può degnamente. Ma chi sarà tra’ mortali giusto giudice a condennarlo? Non io. Oh poca fermezza, oh bestiale appetito degli uomini, che cosa non possono le femmine in noi, s’elle vogliono, che, eziandio non volendo, posson gran cose? Esse hanno la vaghezza, la bellezza e il naturale appetito e altre cose assai continuamente per loro ne’ cuori degli uomini procuranti; e che questo sia vero, lasciamo stare quello che Giove per Europa, o Ercule per Iole, o Paris per Elena facessero, ché, perciò che poetiche cose sono, molti di poco sentimento le dirien favole; ma mostrisi per le cose non convenevoli ad alcuno di negare. Era ancora nel mondo più che una femina quando il nostro primo padre lasciato il comandamento fattogli dalla propia bocca di Dio, s’accostò alle persuasioni di lei? Certo no. E David, non ostante che molte n’avesse, solamente veduta Bersabè per lei dimenticò Iddio, il suo regno, sé e la sua onestà, e adultero prima e poi omicida divenne: che si dee credere che egli avesse fatto, se ella alcuna cosa avesse comandato? E Salomone al cui senno niuno, dal figliuolo di Dio in fuori, aggiunse mai, non abbandonò colui che savio l’aveva fatto, e per piacere a una femmina s’inginocchiò e adorò Baalim? Che fece Erode? che altri molti, da niuna altra cosa tirati che dal piacer loro? Adunque tra tanti e tali non iscusato, ma, accusato con assai meno curva fronte che solo, può passare il nostro poeta. E questo basti al presente de’ suoi costumi più notabili avere contato.

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