< Trattato dei governi < Libro sesto
Questo testo è completo.
Aristotele - Trattato dei governi
(Politica)
(IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Bernardo Segni (XVI secolo)
Libro sesto - Capitolo XIII: Del suggetto atto a stato popolare
Libro sesto - XII Libro sesto - XIV


E conseguentemente dopo le cose dette dicasi da me che stato, e di qual natura sia buono a questi e a quegli. Piglisi pertanto, cominciando di qui, questo documento universalmente buono per tutti gli stati, cioè che ei sia meglio nelle città fare più possente la parte dei cittadini, che vuole quel modo di vivere, di quella che non lo vuole. Ogni città è composta di qualità e di quantità. Per qualità intendo la libertà, la ricchezza, l’erudizione e la nobiltà. Per quantità metto l’eccesso del numero dei cittadini.

Può essere adunche che la qualità sia una parte della città, di quelle, onde la città è composta, e che nell’altra sia la quantità: com’è verbigrazia, che gli ignobili per numero sieno più che i nobili, e che li poveri sieno più dei ricchi, e contuttociò che il numero per la quantità non avanzi di tanto, che egli non resti avanzato a ogni modo dalla qualità: onde queste due cose si debbono bilanciare l’una con l’altra. Dove adunche il numero dei cittadini poveri avanza la detta proporzione, in tal luogo è atto a farsi il popolare stato, e ciascuna altra specie di tale stato, secondo la prevalenza di ciascun popolo. Verbigrazia superando in tai luoghi il numero dei contadini, facciavisi il primo stato di popolo, e superando il numero degli artefici e uomini plebei, facciavisi l’ultimo, e così s’osservi degli altri stati popolari, che sono in quel mezzo.

Ma dove all’incontro li cittadini ricchi, e nobili avanzano più di qualità, ch’ei non sono avanzati di quantità, qui sta bene a constituire lo stato dei pochi potenti, e così ciascuna specie d’esso stato di pochi secondo la prevalenza della moltitudine di simili stati. Debbo bene sempre mai il datore di legge nello assettare uno stato pigliare li cittadini mediocri, o voglia ei fare leggi da stati di pochi potenti, gli conviene nondimeno avere l’occhio alli mediocri, voglia ei farle da stati popolari, gli conviene adattare le leggi a costoro.

Imperocchè dove supera il numero dei cittadini mediocri di sorte o ch’ei prevaglia ad ambe le parti, o ad una sola, qui, dico, si può fare uno stato durabile, perchè ei non ci è da temere, che li ricchi congiurati con li poveri vadino loro contra. Imperocchè non mai vorrà una di queste due parti servire all’altra, e s’e’ vorranno constituire un modo, che sia più comune, e’ non troveranno altro più di questo, perchè ei non vorranno già comandare scambievolmente, per poca fede che ha l’uno con l’altro. Oltra di questo in ogni luogo l’arbitrio è tenuto fedele. E arbitrio non è altro, che l’uomo di mezzo. E quanto meglio sarà temperato il governo, tanto verrà ad essere più durabile.

E qui errano assai di quei, che vogliono far gli stati ottimati, non tanto perchè e’ vogliono distribuire alli ricchi più negli onori, quanto che e’ vogliono escludere il popolo del governo. Chè il tempo dappoi mostra loro necessariamente che da questo fallace bene ne nasce un verissimo male, perchè la voglia dell’avere più, che è nella parte dei ricchi, rovina maggiormente lo stato, che non fa quella che è nella parte del popolo.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.