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(Politica) (IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Bernardo Segni (XVI secolo)
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Presentare ai lettori della Classica un libro di Aristotele come questo dei Governi, tradotto da Bernardo Segni con un cenno biografico dell’A. sarebbe quasi un far torto alla loro coltura. Chi non ha inteso parlare dello Stagirita e della influenza immensa ch’ebbe il suo pensiero su un lungo periodo storico? Quando il vandalismo dei barbari che invasero l’Europa divelse alle radici ogni traccia di cultura, quando, in nome della fede, la civiltà pagana fu condannata e con essa caddero nell’oblìo le lettere le arti, la scienza e la filosofia dei Greci, Aristotele non attese a lungo nella tomba il giorno della risurrezione; più fortunata del suo maestro Platone - che i mistici del cristianesimo primitivo avevano salvo dal naufragio - rizzò la testa pensosa a dettar regole a quella stessa Chiesa che l’aveva rejetto. Egli divenne magna pars della Scolastica, che è come dire della filosofia ufficiale del medioevo, e la sua influenza, la sua «autorità», contro la quale dovettero sorgere più tardi in nome del libero esame gli atleti della rinascenza, durò rispettata per parecchî secoli.
Noi non ci fermeremo a fare una esposizione neppure succinta delle idee filosofiche di Aristotele, che sono d’altra parte sufficientemente note, oltre che agli studiosi delle sue opere, a tutti quanti conoscono la storia della filosofia.
Contro l’idealismo aprioristico di Platone - derivazione, io credo, indiretta, per quanto sublimata e trasformata del pensiero pitagorico - Aristotele rappresenta l’indirizzo, diremo così, empirico, sperimentale del pensatore che ha piena coscienza di quella che il razionalismo moderno chiamò la relatività della cognizione umana.
Le categorie aristoteliche - sopravviventi fin si può dire a jeri nel bagaglio filosofico dei Kant, dei Schelling, dei Fichte, ecc. - non hanno nulla di comune con le idee di Platone... Creatore della logica, lo Stagirita considera le categorie come forme imprescindibili dell’umano pensiero, come il substrato e la condizione sine qua non del giudizio. Non sono, come le idee platoniche, qualche cosa fuori dell’ente umano, di astratto, di campato al di là del tempo e dello spazio. Sono, in altre parole, gli elementi, i mezzi coi quali e pei quali l’uomo conosce, ragiona, conclude...
Nella concezione platonica le idee sono veri enti, anzi sono i soli veramente ed assolutamente esistenti. Per Platone le idee esistono come qualcosa di sostanziato, in sè, mentre gli oggetti esteriori, il mondo sensibile non ne sono che le ombre passeggiere, le imagini, le copie... La dialettica platonica è perciò tutta idealistica. Ammessa la realtà della idea, come unica assoluta, Platone ne deduce che l’idea del Bene è il centro, il sole intorno a cui tutte le altre idee si movono e ricevono determinazione; l’idea è Dio stesso, fondamento e legge della realtà universa. Si tratta evidentemente di una realtà affatto partecipata e quindi temporanea; in sè il mondo non ha una vera e propria realtà, non essendo al postutto che una manifestazione, una estrinsecazione, un’attuazione del buono... Se l’idea (intendi l’idea del Bene) si eclissasse dal mondo, scomparirebbe nell’uomo la facoltà di distinguere il buono dal cattivo; così, dice Platone, quando il sole è tramontato non potete più distinguere i colori e gli oggetti, quantunque non abbiate perduta la facoltà visiva. Questa del «Bene» è idea centrale nella dottrina etica e metafisica di Platone, senza la quale non se ne comprenderebbe nulla, come non si comprenderebbe nella Repubblica l’immensa importanza data da Platone ai savî (i filosofi) preposti al Governo in qualità di rappresentanti, per così dire, dell’elemento eterno, dell’Assoluto in confronto di ciò che può esservi d’effimero o transitorio negli individui e nelle singole istituzioni... La Repubblica platonica, a differenza dello Stato aristotelico, è lo stato etico, avente il Bene e il Giusto come fine d’ogni attività, lo Stato perfetto, l’Utopia, in una parola, rinnovata più tardi, benchè con altre forme, da Tommaso Moro, da Campanella, ecc.: edificio splendido di linee e di contorni che si direbbe uscito d’un colpo dalla mente creatrice del pensatore come Minerva dalla testa di Giove.
Oltrepasserei i limiti necessariamente ristretti di una breve prefazione, se mi accingessi a illustrare tutte le divergenze per cui il pensiero filosofico e politico di Aristotele si differenzia dal pensiero platonico. Aristotele - ha detto molto bene un critico - è forse il primo filosofo che sia venuto nella triste rassegnazione di stare entro i limiti inevitabili della natura esistente, considerata come eterna... Quello che Platone chiama l’intuito del Bene (idea che sarà poi ripresa parecchi secoli dopo e sviluppata sotto panneggiamenti nuovi da Schelling) manca affatto allo Stagirita. Gli è per ciò necessario derivare la nozione del giusto dalla realtà concreta, dai fatti.
Per Aristotele, fonte di cognizione è il mondo quale si manifesta ai nostri sensi; dal suo punto di vista quindi la causa e la misura del giusto non è data da una forma ideale, librata al disopra della realtà, al di fuori dell’uomo, ma dalle stesse condizioni e relazioni umane, dallo stesso istinto per cui l’individuo è tratto ad associarsi agli altri, indipendentemente da qualsiasi preconcetta idea di moralità assoluta e di perfezione.
Nel concetto di Aristotele l’Universo è mosso e penetrato da una forza attiva, la quale esplicandosi negli individui e nelle cose particolari, in una serie di contraddizioni, si accorda nondimeno con sè stessa nel tutto. La incosciente natura manifesta ovunque un istinto di formazione, una tendenza alla conservazione, all’accrescimento e alla propagazione della esistenza; è in forza di questi istinti (Schopenhauer dirà a suo tempo: è in forza di questa volontà, la volontà di vivere) che nascono e si moltiplicano le creature: essa si manifesta anche nella sfera umana e però incita tuttodì gli individui ad unirsi in società.
Fine della natura è di effettuare la maggior possibile ricchezza e varietà di produzioni; lo Stagirita deduce da ciò che, come nell’ordine naturale è giusto provvedere con mezzi artificiali alla conservazione del mondo organico (piante e animali), è altrettanto conforme natura l’assicurare il predominio dell’istinto sociale su l’egoismo isolatore e sterile.
Ciò premesso, qual è il fine dello Stato?
Platone lo troverà nell’effettuazione del Bene assoluto, della Giustizia, in una parola dell’Idea. Lo Stagirita ne ha un concetto più terreno. Risalendo alle prime, affatto elementari aggregazioni umane, famiglie, villaggi, ecc., egli trova che esse rispondono al doppio istinto di conservazione e di felicità; ottimo dirà dunque quello Stato che a tali istinti soddisfa nella misura maggiore possibile per tutti gli individui che lo compongono.
Invano cerchiamo in Aristotele traccie di quel comunismo livellatore di cui era tenero il suo Maestro; nella Repubblica dell’Ateniese l’individuo scompare nella collettività; egli rappresenta, per così dire, il fenomeno, l’accidente, mentre lo Stato è l’idea, la realtà, l’assoluto... Qui è l’individuo che serve allo Stato; nel concetto di Aristotele - concetto più utilitario e positivo - è lo Stato che deve servire ai fini dell’individuo. Poco può importare a Platone che l’individuo sia felice o no, purchè la repubblica raggiunga la sua forma idealmente perfetta; Aristotele non si preoccupa di nessuna perfezione - nè dell’individuo, nè dello Stato - e questo non perchè la Perfezione non sia ottima in sè e desiderabile, ma perchè non risponde alle condizioni della Natura... Così mentre Platone è finalista - d’un finalismo trascendentale - Aristotele esclude ogni finalità dal concetto dell’Universo, che non sia la tendenza alla conservazione e alla perpetuazione... Questa assenza di finalismo, caratteristica del pensiero di Aristotele, ne spiega tutta la dottrina; egli non ha bisogno, come Platone, di indagare ciò che s’uniforma all’archetipo delle idee, ma ciò che s’uniforma a quelle condizioni, a quella realtà di fatto alla quale lo richiama l’osservazione empirica. «Le differenze degli uomini e dei loro negozî, le differenze di fortuna e disposizioni naturali, le loro relazioni determinate dagli avvenimenti esteriori, i loro desiderî, istinti e tendenze; oltre a ciò le funzioni dello Stato, risultanti dal bisogno naturale, l’amministrazione della giustizia, il governo, la forza militare, la possibilità della loro distribuzione, combinazione e rapporti, e quindi la infinita molteplicità delle costituzioni: tali, aggiunto anche il come, si producono sono le cose che ad Aristotele fa mestieri di esaminare per venire a questa conclusione: che il giusto è ciò che si mantiene conforme alla Natura.»
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Lo spazio non mi consente di addentrarmi in un particolareggiato esame della dottrina aristotelica. Quella specie di ossessione per lo Stato unitario, simmetrico, ideale, da cui sembra pervasa la letteratura politica dell’Europa nel secolo XVIII e in modo specialissimo l’Enciclopedia francese, quella adorazione dello Stato da cui non sono tuttavia immuni i pensatori più ribelli del nostro tempo, rappresentano in gran parte una eredità platonica nella stessa guisa che in Platone rappresentavano il riflesso e, per così dire, l’equivalente ideale della coscienza politica greca o, dirò anzi più latamente, della coscienza politica antica per cui lo Stato era tutto, l’individuo nulla. Straordinario ne appare perciò il merito di Aristotele: quello d’aver resistito alla illusione per cui al suo Maestro e, sulle orme di lui fino ai nostri giorni, a centinaja e migliaja di seguaci, parve bello sacrificare la personalità dell’individuo: a quella che, in ultima analisi, non è che un’astrazione, lo Stato. Lo Stagirita insegna - contro la metafisica di Platone - che l’armonia non si raggiunge con l’uniformità; non occorre perciò che lo Stato sia uno, come vuole l’Ateniese, ma che nella unità sia anche la molteplicità, come appunto si verifica nella Natura.
Egli ha un concetto chiaro della natura e missione dello Stato quando sentenzia che, quand’anche gli uomini volessero separarsi, dovrebbero, in forza del bisogno di ajuto reciproco, unirsi di bel nuovo a fondare lo Stato. Ciò prova che lo Stato aristotelico non ha nulla della concezione archetipa, simmetrica, che è propria della Repubblica platonica.
In Aristotele lo Stato è ridotto al suo vero concetto: l’organo, il mezzo, in altre parole, per cui gli individui raggiungono il proprio fine naturale: la Conservazione e la Felicità. Ma evidentemente lo Stato si dirà tanto più bello e perfetto, in quanto assicurerà nel miglior modo e al maggior numero di individui il raggiungimento di questo fine...
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Io dovrei, prima di chiudere questa breve nota, dire qualche cosa della traduzione del Segni, che noi abbiamo ristampato sull’edizione di Venezia del 1551, e che è tenuta fra le migliori. In essa è seguìto l’ordine dei capitoli proposto dal Saint-Hilaire, ordine, com’è noto, diverso dall’originale.
Saint-Hilaire ricorda infatti come le opere di Aristotele, poco note sino ai tempi di Pompeo, furono poi pubblicate e ordinate da mani poco abili, e che non solo i libri della Politica ma anche altre opere dello Stagirita presentano segni evidenti di disordine.
Com’è possibile, infatti, che nel Trattato dei governi il soggetto, interrotto al terzo libro, ricominci e continui nel settimo e nell’ottavo, e che l’argomento, imperfettamente trattato nel quarto, sia poi da Aristotele compiuto nel sesto? «L’ordine reale, scrive a questo proposito il Saint-Hilaire, è il seguente: primo, secondo, terzo, settimo, ottavo, quarto, sesto e quinto.
«Spostando tre libri - continua Saint-Hilaire - l’opera procede in modo affatto logico e diventa perfettamente completa. I tre primi libri non lascian luogo a dubbî. Nel terzo Aristotele afferma esservi tre forme fondamentali di governi: monarchia, aristocrazia, repubblica. Egli tratta della monarchia sotto forma di regno alla fine del terzo libro. Nel settimo e nell’ottavo - che succedono secondo il nuovo ordine - egli tratta dell’aristocrazia, che, al suo giudizio, è tutt’una cosa con la costituzione esemplare, con l’ottimo governo. Nei libri quarto e sesto tratta della repubblica e delle forme degeneri dei tre governi puri: la tirannide, l’oligarchia e la demagogia; e, poichè i governi oligarchici e democratici sono i più comuni, ne ragiona più a lungo e ne dà i principî speciali. Viene da ultimo il quinto libro; e, dopo considerati tutti i governi in sè stessi, nella loro natura, nelle loro condizioni particolari, Aristotele li studia nella loro durata e fa vedere in che maniera ciascuno di essi governi può conservarsi e in che maniera ciascuno di essi risica di perire.»
Questa versione - diventata rara per scarsità di esemplari, confinati ormai negli scaffali polverosi delle biblioteche - sarà, spero, accolta con favore dal pubblico studioso che il pensiero dei grandi luminari dell’Umanità ama interrogare direttamente nelle loro opere. Nè - a parte questa speranza - è poca la soddisfazione nostra di aggiungere col Trattato dei Governi una nuova fulgida gemma alla splendida collana della Classica.
CESARE ENRICO AROLDI.
Milano, 1905.