< Trattato del diritto delle genti
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VIII Transunto

§. IX.


Del diritto cosmopolitico.


L’idea di una relazione universale e pacifica, quantunque essa non sia ancora amichevole di tutti i popoli della terra, tra i quali vi può essere reciprocità di azione, non è soltanto un principio di filantropia, ma un principio di diritto.

La natura li ha tutti rinchiusi in determinati limiti per la forma sferica del loro soggiorno (globus terraqueus); e siccome il possesso del suolo, su cui vivono gli abitanti di un paese non è giammai se non se il possesso di una parte del grande insieme determinato, su cui ciascuno esercita un diritto primitivo, così tutti i popoli si trovano originariamente in una comunione di suolo.

Questa comunione non è già quella del legittimo possesso (communio), nè per conseguenza quella della disposizione e della proprietà del suolo, ma quella del contatto (commercium), in virtù di cui i popoli hanno il diritto di mettersi in relazione, senza che il tentativo di farlo possa essere riguardato come una ostilità.

Questo diritto, in quanto che tende a riunire tutti i popoli intorno a qualche principio generale, che possa ad essi servir di base per le loro possibili relazioni, chiamasi diritto cosmopolitico (jus cosmopoliticum).

Sembra che i mari tolgano ogni comunicazione ai popoli: ma essi sono, per mezzo della navigazione, le vie più fortunate onde comunicare. La libertà dei mari è quindi di diritto cosmopolitico.

Egli è vero che gli stabilimenti indispensabili alla navigazione diventano la causa di molte violenze. Ma quest’abuso non distrugge il diritto dell’abitante del globo di fare ogni tentativo per comunicare con tutti, e di visitare, secondo i suoi disegni, tutte le contrade della terra.

Il diritto di comunicare con un altro popolo non involve quello di stabilirsi sul suo suolo.

A quest’effetto è necessaria una convenzione (Jus incolatus).

Si ha bensì il diritto di fare stabilimenti in un paese recentemente scoperto, e nella vicinanza di un popolo che non ne ha ancora preso il possesso e di farli anche senza il suo consenso, a condizione che siano fatti ad una convenevole distanza, e senza intaccare le altrui usanze.

Allorchè lo stabilimento si fa in un paese occupato da popoli nomadi pastori, come gli Ottentotti ed i Tungous o Cacciatori, quali sono gl’indigeni del Nord dell’America, la cui sussistenza dipende da una grande estensione di suolo, è necessario che si stabilisca un contratto di buona fede.

Non è permesso d’impiegare la forza, o l’inganno per profittare dell’ignoranza di questi popoli.

I pubblicisti non dubitarono di sostenere il contrario. La forza e l’inganno impiegati con buona intenzione, sia per ampliare la civilizzazione e per migliorare la sorte dell’umana specie in generale, sia per purgare un paese dai malfattori, e coll’idea di correggere non solamente questi, ma altresì i loro posteri, sembravano ad essi cose permesse.

Ed è con queste idee che si giustificavano un tempo i mezzi sanguinarj impiegati per propagar la fede.

La buona intenzione non può mai cancellare la taccia dell’ingiustizia.

Si obbietta, che appunto la violenza e l’inganno fondarono l’esistenza legale dei popoli, e che senza gli accennati mezzi il mondo sarebbe ancora barbaro. Si risponde che questa obbiezione non distrugge il principio di diritto il quale proibisce di fondare la giustizia sull’ingiustizia; poichè se fosse altrimenti si distruggerebbe egualmente un principio di sana logica il qual dice che una cosa non può non essere, ed essere nel tempo stesso.

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