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Questo testo fa parte della raccolta Sonetti romaneschi/Sonetti dal 1828 al 1847
UN GASTIGO DE LA MADONNA.
A le storielle tue io nun ce stòrcio:1
Duncue credi a le mie. Ggiggia e Ggrilletto
S’ereno chiusi a ttanto de scatorcio2
4Pe’ cquer tal affaruccio che tt’ho ddetto.
E ggià staveno a mmette a lo spilorcio
Der marito una penna ar cappelletto,
Cuanno a quer tipp’e ttappe3 ecchete un zorcio
8Che scappa da un cuscino4 accapalletto.
Visto er nimmico suo, subbito er gatto
Pijja l’abbriva,5 s’aggrufa,6 se córca,7
11Eppoi zompa8 sur letto ippisifatto.9
Senti che ccaso! cuella bbèstia porca
Nell’impito aggranfiò ttutt’in un tratto
14Un uscello incastrato in d’una sorca.
Roma, 13 dicembre 1832. |
- ↑ Storcere (d’onde storcio in luogo di storco), significa: “quel storcere di bocca che si fa in udir cose che non aggarban.„
- ↑ Catorcio.
- ↑ Tremolio proprio del caso.
- ↑ [A Roma anche il guanciale si chiama cuscino.]
- ↑ [Abbrivo.]
- ↑ [Arriccia il pelo.]
- ↑ [Si colca: si corica, si acquatta.]
- ↑ Salta.
- ↑ Ipso-facto. Non è infrequente in Roma l’uso di Modi latini, dove tutta la vita si conduce all’uopo di adagi, accomodati ad ogni specie di avvenimenti.
Note
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